Quali sono i Ciente paise che danno il nome al nuovo album dei Zezi – Gruppo Operaio? Sant’Anastasia, Brusciano, Acerra, Giugliano, gli agglomerati dell’entroterra campano elencati nella canzone che apre il disco: una sorta di dichiarazione di appartenenza, per questo gruppo che da più di trentacinque anni si mantiene radicato a Pomigliano d’Arco, sede storica dell’Alfasud e di numerose lotte operaie, di cui i Zezi si fanno portavoce e memoria storica. Dagli anni Settanta, quando questo gruppo di operai artisti ha cominciato il suo percorso, partendo dalla tradizione musicale popolare, tante cose sono cambiate, a cominciare dalla terra da cui traggono ispirazione: a testimonianza di questo cambiamento l’ottava traccia del disco, Ciente veleni, che riprende il tema della prima, facendo un elenco di tutti i veleni sversati negli anni nelle campagne intorno a quei paesi, quasi a voler dire che dove un tempo c’erano, per esempio, i “cavallari”, oggi c’è l’arsenico. Già in questo si ravvisa tutta la poetica del disco: la denuncia sociale, che da sempre il gruppo mette al primo posto nei suoi testi; l’ironia e lo sberleffo dei padroni e dei potenti, anche sopra le righe; la fiera appartenenza a una cultura autoctona, autenticamente popolare, non morta o cristallizzata in un passato ideale ma che riesce ancora a dialogare con il presente, a inventare.
Certo, è sotto gli occhi di tutti come la “scoperta” delle tradizioni popolari da parte della borghesia di città rischi di ricondurre tutto ciò a una semplice moda, a una “fuga alla campagna” svuotata di ogni contenuto radicale e di ogni significato politico. Non è certo il caso dei Zezi. Loro, quella musica la vivono in maniera autentica, portandola nelle piazze, nelle fabbriche, nelle feste. Forse però, quando indugiano troppo sulle solite tammurriate tradizionali, quando rinunciano all’ironia, all’invenzione e si fanno solo portavoce di una cultura che mi verrebbe di definire da osteria, rischiano di ammiccare alla deriva borghese che vorrebbe la musica popolare qualcosa di “autentico”, “contadino”, e per questo sempre uguale a se stessa.
Ci sarebbe da interrogarsi sulla stessa definizione di “popolare”. Cos’è popolare? La tarantella e la tammurriata? La canzone neomelodica? O forse la musica che passano per televisione? Un operaio o un contadino, non conoscono la stessa musica che ascoltano tutti? Credo che la musica popolare sia fatta di tradizione prevalentemente orale, e che tracci una linea ideale tra passato e futuro. Una musica che si impara per strada, che si tramanda di bocca in bocca assorbendo in sé il presente e il passato, cambiando di volta in volta, di cantante in cantante. Il purismo non ha senso. La riproposizione pedissequa delle radici, tanto meno. Ha senso invece la trasformazione della tradizione in qualcosa di nuovo, di perturbante: in Ciente paise c’è qualcosa, ma forse non arriva fino in fondo.
Del disco, colpiscono i momenti come Pacchianella d’Uttaiano, in cui un testo tradizionale, triviale, ironico, contrasta con un arrangiamento ardito, da musica contemporanea, con risvolti atonali imprevedibili, che la rendono forse il momento più interessante del disco. Allo stesso modo, nella coppia di canzoni O paraviso – O priatorio vengono alternate tammurriate a parti free, poi rumori, campioni dai Beatles e dai Pink Floyd, dischi che saltano, in una confusione che fa pensare al caos metropolitano: la concitata musica dei cafuni si trasforma, così come le campagne diventano sempre più centri urbani sovraffollati: una trovata che vale l’intero disco. Così come lascia sorpresi e divertiti Sguarracino: parodia senza peli sulla lingua dell’antica canzone tradizionale che diventa sempre più una confusione di cianfrusaglie e rumori fino a sfociare in un augurio di morte per i governanti corrotti.
Meno belli sono i pezzi troppo legati alla canzone e alla tammorriata “tradizionali”: Quelli che, A nuvella che riescono comunque a risultare gradevoli grazie a divertite citazioni – Gianburrasca per esempio – e arrangiamenti accattivanti – è il caso di Ciccuzza – che purtroppo non sempre sono eseguiti in maniera impeccabile. La vera nota dolente del disco è Acqua bene comune: un lungo sermone di Alex Zanotelli con sottofondo musicale, che suona come una predica, condita con passi del Vangelo. Condivisibili in gran parte le cose che dice, ma francamente viene voglia di premere il tasto “avanti”.
In ogni caso, meno male che ci sono i Zezi. Nonostante le mille difficoltà, le numerose scissioni, di cui non sempre si comprendono le motivazioni, questo gruppo rimane in piedi a testimoniare il suo percorso di lotta attraverso la musica. Dopo la rottura del sodalizio tra i membri storici del gruppo, da una parte “Gruppo Operaio” e dall’altra “e Zezi – Gruppo Operaio”, non credevo che sarebbero riusciti ad andare avanti facilmente. Invece sono usciti con due dischi assolutamente validi e interessanti – Catene è quello del Gruppo Operaio. Tuttavia la bellezza indiscutibile dei loro vecchi dischi, mi fa sperare che riescano a superare i dissapori e tornare insieme. (ciro riccardi)
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