Osservo una foto in bianco e nero che risale agli anni Ottanta: appare la vecchia Caserma Cavalli in Borgo Dora. Vedo il porticato sormontato dalla torretta dell’orologio, le auto parcheggiate dinanzi all’ingresso, un’alberata piantata da poco e in primo piano una panchina. In origine l’edificio era parte di un vasto arsenale militare, ma al tempo dello scatto era dismesso. Oggi la Caserma Cavalli accoglie la sede della scuola Holden, un centro di formazione per esperti di tecniche narrative. Le panchine nel piazzale sono state rimosse, eppure un altro dettaglio attira l’occhio che scruta le differenze: nella foto l’accesso al porticato è libero, ma nel nostro presente s’alza una cancellata sotto agli archi a tutto sesto.
Conservo sul taccuino un catalogo dei cancelli eretti negli spazi pubblici di Borgo Dora. Il cortile del Maglio, accanto alla scuola Holden, ospitava nell’Ottocento la produzione dei fusti di artiglieria. Alla fine del Novecento la Città ha restaurato le quattro maniche dello stabile: i locali al piano terra sono stati affidati a commercianti, artisti, designer. Il cortile è protetto da una copertura in legno e al centro domina il maglio per la forgiatura; attorno sopravvivono a stento le attività commerciali. Ogni sera gli esercenti chiudono con pesanti cancelli i due ingressi su via Borgo Dora e sul canale dei Molassi, poi aprono di nuovo gli accessi al mattino. Il cortile è un luogo ibrido: formalmente pubblico, eppure controllato da soggetti privati a guardia del passaggio.
La Dora lambisce il complesso dell’antico arsenale. Qui un ponte d’acciaio unisce le due rive e accanto al primo bastione l’accesso al camminamento della murata sul lungofiume è impedito da un cancello. A occidente noto un altro ponte, ma è chiuso anch’esso da due barriere metalliche. Tutta la sponda meridionale del Lungo Dora Agrigento è punteggiata da ostacoli: un ulteriore cancello accanto a una bocciofila sorveglia l’accesso a un istituto professionale. Per gestire questa recinzione esiste un protocollo di intesa fra la circoscrizione e tre soggetti firmatari (l’istituto, un ente religioso, la bocciofila). Il protocollo d’intesa formalizza un accordo “per l’organizzazione degli orari di apertura e chiusura e la conseguente gestione del cancello che delimita il tratto di Lungo Dora Agrigento”. “In passato – continua il protocollo – si era deciso di delimitare il succitato tratto di Lungo Dora Agrigento con un cancello per motivi di sicurezza e per evitare che quel tratto di strada potesse divenire punto di aggregazione di soggetti deviati o pericolosi”. Le barriere sono forse il risvolto materiale dell’ossessione dei nostri giorni: la sicurezza.
IL GIARDINO DI BORGO DORA
Mi volto e vedo il fiume scorrere a valle. Davanti a me appare un giardino con giochi per bambini, panchine, una fontana e gradoni che formano un anfiteatro. Tutto lo spazio e i suoi arredi sono circondati da una cancellata. So che un tempo non c’era, ho ascoltato ricordi degli anni Novanta. Al sabato, quando s’allestiva il tradizionale mercato degli stracci e degli oggetti ritrovati, si riunivano nel giardino studentesse, sfaccendati, giovani liberi dal tempo del lavoro. Allora c’era una collina coperta di prato e le persone suonavano tamburi o chitarre, fumavano sigarette e canne e lasciavano trascorrere ore di compagnia, malessere, serenità. Ho trovato una nota comunale del 15 luglio 1997: “La Giunta Municipale ha oggi approvato una delibera che approva il progetto di risistemazione della piazzetta Borgo Dora. […] La spesa prevista è di 196 milioni [di lire] per realizzare una recinzione in ferro, adatta al contesto ambientale, che proteggerà l’area verde della piazzetta”. Era iniziata la riqualificazione del quartiere e la vita brada andava disciplinata.
La nota del 1997 riporta un dato che m’impressiona. La costruzione del recinto rispondeva “a una delle richieste presentate dal Comitato per porta Palazzo”. Questo comitato non era un’associazione spontanea di cittadini, ma un ente istituzionale creato dal progetto The Gate. Il progetto nacque nel 1996 in seguito a un primo finanziamento del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ed è stato il principale strumento di governo della riqualificazione di Borgo Dora fra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo. Nel direttivo del comitato già allora sedevano assessori e rappresentanti della Camera di Commercio e delle due fondazioni di origine bancaria (la Compagnia di San Paolo, la Fondazione CRT). Negli anni The Gate ha modulato la trasformazione di un quartiere da cui sono state espulse la classi sociali più povere ed è probabile che l’erezione del cancello sia stata la prima mossa. Credo che il nome del progetto dipenda dal senso antico del quartiere: le porte palatine, a sud di Borgo Dora, erano l’ingresso della città romana e medievale. Eppure The Gate è anche la traduzione di “cancello”; allo sguardo attento l’universo si presenta come sistema di sottili corrispondenze.
The Gate spianò la collina di Borgo Dora e realizzò l’anfiteatro a gradoni nel 2001. Nel 2012 la Città ha concesso l’area a un’impresa privata che permetteva, a pagamento, di salire in cielo con una mongolfiera. L’attività è fallita nel 2018. A partire dal 2020 il giardino è stato affidato alla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo, un ente creato e finanziato dalla Compagnia di San Paolo per rilanciare i processi di riqualificazione in Borgo Dora dopo l’eclissi di The Gate. La gestione del giardino è stata formalizzata prima da un protocollo di intesa fra la circoscrizione e la fondazione di comunità, poi da un patto di collaborazione fra lo stesso ente e la Città di Torino. Nel patto di collaborazione è scritto che i gestori garantiscono “l’apertura e chiusura quotidiana, se il gruppo di lavoro […] ne riterrà necessaria la chiusura notturna”. Afferma il patto che il gruppo di lavoro è coordinato dalla fondazione e vi sono accolti un rappresentante dell’Area Trasformazioni Periferie e Beni Comuni e uno della circoscrizione. I volontari chiudono il cancello la sera con una catena dopo essersi assicurati che nessuno si sia attardato sotto gli alberi, sulle sedute.
I protocolli di intesa e i patti di collaborazione afferiscono a una diversa scala istituzionale: i primi coinvolgono il governo della circoscrizione, i secondi invece la Città di Torino. Sono entrambi strumenti ispirati ai principi della sussidiarietà e della cittadinanza attiva e in taluni casi, come per il giardino di Borgo Dora, il protocollo d’intesa prelude al patto di collaborazione. Il patto di collaborazione, inoltre, è normato dal Regolamento per il Governo dei Beni Comuni Urbani di Torino. Il cancello esiste da così tanti anni che può passare inosservato ormai, eppure la sua storia mi disorienta: una volta c’era un’area di verde pubblico, ma è stata recintata da un progetto di rigenerazione urbana; poi il giardino è stato concesso a un ente dedito al profitto, infine trasformato in bene comune e affidato a un gruppo di “cittadini attivi” dipendenti dalla principale fondazione di origine bancaria della città.
IL REGOLAMENTO DEI BENI COMUNI
L’amministrazione comunale ha approvato il primo regolamento sui beni comuni nel 2016. È una copia del testo redatto da Labsus, un laboratorio politico sulla sussidiarietà e partner strategico della Compagnia di San Paolo. Nel 2019 la Città di Torino ha scritto un nuovo regolamento che sostituisce il primo ed è tutt’ora vigente. Entrambi i documenti definiscono come bene comune un’entità “materiale, immateriale e digitale” riconosciuta “essere funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo e all’interesse delle generazioni future”. Un bene comune può essere affidato ai “soggetti civici” tramite la formula del “patto di collaborazione”. Il regolamento del 2019 fornisce nuovi strumenti, ad esempio l’articolo 17 pone le condizioni di esistenza di una “Fondazione Beni Comuni”. Secondo questo articolo la Città può concedere un bene comune a una fondazione per un periodo determinato, ma al termine il bene “può essere conferito in via definitiva alla Fondazione”. Esistono le recinzioni materiali in ferro battuto e quelle immateriali composte di termini giuridici.
Cammino lungo il fiume, dalla parte del campus universitario, e incontro Qubi, uno spazio ibrido dove si può mangiare, organizzare riunioni di lavoro, seguire corsi di cucina o partecipare a serate a tema. L’associazione che gestisce Qubi ha stretto un patto di collaborazione con la città per curare “un’area verde” tra “Lungo Dora Firenze e l’argine della Dora”, in modo da “incentivare il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini”. Su un brano di prato fluviale ora appaiono un container verde e file di alti vasi a delimitare il perimetro dell’area. Leggo un pannello che presenta “il nostro garden”: “uno spazio polivalente e multifunzionale per l’aggregazione sociale”. Questo angolo d’erba e di filari alberati era già attraversato da studenti, animali, abitanti del quartiere e adesso, da bene comune, è sottoposto al controllo di un’associazione che fornisce servizi a pagamento.
Se risalgo la corrente, a monte ritrovo Lungo Dora Napoli: qui un barista informatore della polizia presidia, grazie a un protocollo d’intesa, un tratto di lungofiume dove può disporre i suoi tavoli e allontanare gli indesiderati seduti sul parapetto. Oltre il fiume, in Borgo Dora, una ristoratrice nel 2021 ottenne in gestione un tratto di strada antistante il suo locale per “il mantenimento del decoro urbano”. Di recente ha inviato un esposto in questura contro i venditori abusivi che il sabato s’aggirano nelle vicinanze. I protocolli d’intesa e i patti di collaborazione mi sembrano strumenti in grado di trasformare angoli di città in zone eterogenee, pubbliche e private al contempo, assoggettate agli interessi commerciali e sorvegliate a discapito di chi non consuma, di chi non è presentabile.
ORIGINE ED EFFETTI DEI BENI COMUNI
Percorro in salita la via principale di Borgo Dora e arrivo in corso Giulio Cesare. Oltre s’apre la piazza Don Albera, ariosa e circondata da casamenti abitati da classi popolari, alcuni edifici per famiglie di professionisti, un social housing di Compagnia di San Paolo. Un venditore di tappeti espone in strada la mercanzia e sento l’odore di un macellaio marocchino che arrostisce la carne per chi ha voglia di sedersi al tavolo. Di fronte ecco un piccolo supermercato con prodotti cinesi. Nel cuore della piazza ci sono aiuole con giovani alberi di nespole e arbusti da macchia mediterranea: sono curate dall’associazione Fuori di Palazzo in seguito a un patto di collaborazione con la Città. Il patto fu stipulato nel 2019 nell’ambito del progetto CO-CITY finanziato dal programma europeo Urban Innovative Actions (UIA) per sperimentare “l’innovazione” e “la rigenerazione dei beni comuni” sul territorio urbano. Anche la “portineria di comunità” qui vicino, una casupola che promette servizi di prossimità, ha firmato un patto di collaborazione dopo aver ottenuto un finanziamento da Tonite, nuovo progetto UIA. Tonite ambisce a migliorare la percezione di sicurezza lungo il fiume e i suoi capitali hanno sostenuto anche la fondazione che cura il giardino di Borgo Dora. I sogni europei di innovazione e sicurezza sono il grembo per la gestazione dei beni comuni.
Tonite ha elargito i fondi per la nascita del Salotto di Miranda, una piccola struttura vetrata vicino all’ultimo tratto di Dora, prima della confluenza con il Po; qui sono vicino al cimitero monumentale. Posta fra filari di tigli, la struttura è un salotto con sedie bianche in ferro, una libreria, cassettiere con un vaso di fiori secchi e un vecchio divanetto: un interno per l’accoglienza di riunioni e iniziative di quartiere. La procedura è ormai automatica: anche il Salotto di Miranda è diventato un bene comune. Una signora che lavora nella via mi dice che il salotto è frequentato di rado, sul vetro è appesa la locandina di un evento di tre mesi fa. Forse iniziative come questa esistono nel mondo dei simboli e della comunicazione, inconsistenti invece si mostrano a chi sta in strada. Eppure l’effimera mediocrità mi sembra efficace: le parole d’ordine – “partecipazione”, “cittadinanza attiva”, “co-progettazione” – veicolate da amministratori, funzionari del terzo settore e manager delle fondazioni bancarie s’insinuano nella coscienza e nelle pratiche urbane, sino a diventare consuetudine. Così anche Askatasuna, una delle occupazioni più annose della città, diventerà un bene comune regolato da un patto di collaborazione.
Al crepuscolo cammino verso occidente e torno alla casupola verde della portineria di comunità: anch’essa appare inerte, silente e priva d’impiego. La portineria è sostenuta, fra gli altri, da Lavazza; sulla sponda opposta del fiume svetta un nero monolite dalle scure vetrate che ospita il centro direzionale della compagnia del caffè. Proprio qui vicino – era un’alba del febbraio del 2019 – un ex-asilo occupato di via Alessandria è stato sgomberato con l’intervento di centinaia di agenti in assetto antisommossa. Le forze dell’ordine hanno murato le stanze e reso la struttura inagibile per evitare un ritorno dei solidali; le vie fra la Dora e corso Brescia sono state presidiate per settimane da checkpoint con camionette. Da allora l’asilo è vuoto. Questo inverno una consigliera di sinistra ha proposto in circoscrizione una mozione per trasformare il cortile del vecchio asilo occupato in bene comune. Il cortile ha un cancello: chissà, forse gli altri consiglieri hanno sostenuto la mozione rassicurati dalla possibilità di consegnare le chiavi a volenterosi cittadini attivi.
Non è certo che il cortile di via Alessandria diventi un bene comune perché negli stessi giorni la Città di Torino ha emanato un bando per affidare la gestione dell’intero immobile a enti filantropici, associazioni. Si tratta dell’ennesimo tentativo di resuscitare uno spazio devastato e serrato dai governanti: negli anni sono nate invano cordate di aspiranti amministratori dell’ex-asilo. Fra questi c’erano la Fondazione di Comunità di Porta Palazzo, circoli di Legambiente, giovani di Fridays for Future, Save the Children. La fondazione di comunità è già coinvolta nella cura di due beni comuni urbani e Save The Children ha stretto un patto di collaborazione per gestire alcuni locali della Città accanto a via Borgo Dora. Mi sembra che siano sempre le stesse persone, o le stesse entità del terzo settore, a sovrintendere i beni comuni o la progettazione condivisa di luoghi pubblici: una concentrazione di responsabilità incoerente con gli auspici di sussidiarietà e partecipazione. Questi attori appartengono alla medesima, ristretta classe sociale: sono convinti di agire secondo giustizia ma spesso sono indifferenti alle angherie subite dai dannati della terra, certo incapaci a proferire parola contro il governo urbano.
S’addensano le nuvole in cielo, forse arriva la pioggia finalmente. Torno in Borgo Dora, quartiere noto per ricoveri e ospedali religiosi dediti all’accoglienza, eppure in queste vie la protervia della celere e dell’amministrazione comunale ha esiliato lontano centinaia di straccivendoli poveri. Torino è una città di paradossi: qui gli sgomberi delle occupazioni abitative sono chiamati dolci; qui le baracche dei poveri sono distrutte per ragioni umanitarie; i beni comuni sono strumenti di recinzione di luoghi pubblici; la partecipazione è un esercizio oligarchico; opere insulse sono efficaci per un ottundimento della coscienza. Forse è il linguaggio a essere deviato, dunque ricco d’insidie: i significanti non suonano più da tempo, i significati sono manipolati, frantumati e infine digeriti dal metabolismo che accumula ricchezza. Come parlare? La lingua ritrova vigore se il respiro si misura con gli oggetti e il paesaggio. S’è concluso il mercato al tramonto e ronzano nella strada i furgoncini della nettezza; l’aria fresca annuncia la neve in montagna. (francesco migliaccio)
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