La Balena, un folto collettivo di lavoratori della conoscenza e della produzione culturale, ha occupato l’ex asilo Filangieri, ampio edificio in centro storico, restaurato per essere sede operativa del Forum delle culture 2013, ma oggi pressoché inutilizzato. Chi legge conosce i fatti e, da questo stesso sito, possono essergli noti anche i pensieri degli occupanti. Le loro affermazioni, alcune in particolare, invitano a ragionare in prospettiva. Grandi ambizioni e forte energia immaginativa: questo mi resta impresso, oltre la spietata analisi sulle miserie delle recenti e attuali politiche culturali, che condivido.
Richiesto di un parere, piuttosto che aggiungere argomentazioni, chiudo gli occhi e sogno, a questo modo mi arrischio a raccogliere l’invito.
Innanzitutto sogno che l’iniziativa, senza chiudersi nella roccaforte conquistata, desti l’interesse di altri gruppi e singole persone che, sparsi nei quartieri più distanti, ognuno per conto proprio, s’affannano a cercare spazio per coltivare un’idea: una sala di registrazione musicale fra San Giovanni e Barra, un sottoscala in centro storico dove concepire e fare un giornale come si deve, un basso in un cortile periferico per una web radio, un’attrezzatura abbandonata della 167 di Ponticelli per un micro-distretto della moda, mezzo capannone dismesso per un fritto misto di laboratori artigianali, palestre, centro danza e ogni altra micro-impresa che i lavoratori dell’“immateriale” sanno immaginarsi.
Il movimento prende la forma di una rete distesa nella metropoli, promuove azioni diffuse e si salda intorno a una sorta di dichiarazione dei diritti: innanzitutto a essere considerati lavoratori, soggetti di diritto e non beneficiari di casuali provvidenze; quindi a spazi dove queste speciali capacità produttive possano almeno mettersi alla prova, e alla trasparenza nell’utilizzo delle risorse pubbliche, scarse o ampie che siano, affinché sia premiato il talento e non parentele e scambi di favori (in verità, prima di sognarle, queste pretese le ho lette).
Poi, e ora il sogno si fa più arduo, immagino che i governanti della città si riuniscano per assumere delle decisioni. Niente di speciale, ma almeno scartano subito i facili espedienti della ricerca del consenso: non dichiarano che, in fondo, i “ragazzi” hanno fatto bene a occupare un luogo simbolo del passato spreco di risorse, né proclamano di essere pronti ad ascoltare le proposte del movimento, né invitano a un referendum per affermare incontrovertibilmente che la cultura è un “bene comune”, né, tantomeno, ri-annunciano il grande evento cui l’intera città parteciperà entusiasta.
Niente di tutto questo. Invece assumono il problema, lo analizzano, prendono informazioni e, tanto per cominciare, convengono sul fatto che l’universo di situazioni che il movimento ha portato alla luce rivela opportunità finora tenute in ombra: che i ragazzi (il fatto di stare ai margini fa apparire ragazzi anche svariati quarantenni e oltre) non chiedono prebende ma affermano diritti. Per capirci, non gli passa per la testa di riaprire il magnifico museo del precedente principe per impizzarci una mostra – che so? – di street art. Non partecipano del rimpianto del passato splendore, che stringe il cuore di quelli che ancora vantano qualche credito. Che il vecchio-nuovo museo affondi non li commuove. Piuttosto, ambiscono ad aprire luoghi di produzione, fabbriche della creatività per usare una definizione sintetica. Insomma, affermano il diritto a esistere per e con ciò che sanno fare e, di conseguenza, si assumono delle responsabilità.
Insomma, una bella opportunità per chi governa: in una città resa afasica dal ventennio tutti-zitti-e-fermi-che-ci-pensiamo-noi, finalmente non si fanno sentire solo quelli che fammi-fare-un-project-financing e che-ti-costa-una-deroga-urbanistica? Questi altri non chiedono deroghe, anzi affermano diritti e la trasparenza come necessità, cioè regole. Allora, che fanno i governanti? Prima dicono la verità, per esempio: “Ragazze e ragazzi (versione politically correct), i soldi sono pochi e non possiamo fare facili promesse. Invece, anche noi ci assumiamo le nostre responsabilità: proprio perché le risorse sono scarse, ne censiremo con scrupolo ogni possibile consistenza – dai soldi in bilancio agli edifici sottoutilizzati – avendo stabilito il principio di trasparenza sull’uso del patrimonio pubblico. Serviranno delle invenzioni per tradurre in pratica questo inderogabile principio: diritti e nuove forme d’uso, procedure aperte, da correggere se non funzioneranno; e poi, non consulte, ma un confronto chiaro, anche conflittuale, se serve, fra amministrazione e cittadini. Noi per primi, dichiariamo il nostro gioco: tentare di rianimare questa città – economia, cultura e vita civile – a partire dalle capacità, dai “desideri di fare” che, almeno una parte, esprime senza chiedere, a differenza delle corporazioni che si presentano col cappello in mano e poi, con arroganza, minacciano: “Se non mi date quello che mi serve, io l’abbandono questa città di perdenti!”.
Mi risveglio. Ma, invece di questo, mi potevo fare un sogno veramente bello! Magari mi sognavo il comunismo, la società di liberi ed eguali, dove ognuno è bracciante e poeta, falegname e musicante, eccetera eccetera. Mica una storia che non sarebbe affatto impossibile! Un sogno riformista e democratico, niente di più. Che tempi! (francesco ceci)
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