Pubblichiamo di seguito l’editoriale di Michele Colucci uscito nel numero 11 de Lo stato delle città.
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Quella contro l’immigrazione è ormai da tempo una guerra, che si combatte senza sosta nel Mediterraneo, in Italia, in Europa e in molti angoli del mondo. Una guerra che si perpetua su più fronti e che si configura non solo come guerra all’immigrazione, ma si articola nella forma di una guerra contro le immigrate e gli immigrati e si dispiega attraverso una miriade di conflitti, piccoli e grandi. Non è una guerra asimmetrica: il fronte che attacca l’immigrazione è forte e organizzato ma si scontra con un mondo di soggetti capace di resistere e reinventare giorno dopo giorno forme nuove di contrattacco, che non si limitano alla sola resistenza. Per capire la posta in gioco è fondamentale delineare con precisione le forze in campo, che troppo spesso vengono dipinte in modo eccessivamente superficiale.
CLASSI DIRIGENTI
L’attacco all’immigrazione parte dalle classi dirigenti, che soprattutto in Italia e in Europa hanno scelto di calcare con forza la mano per mettere il tema dell’immigrazione sempre più al centro del dibattito pubblico. Si tratta di classi dirigenti legate a culture politiche reazionarie, di destra e di estrema destra, variamente organiche ai differenti nazionalismi vivi e attivi sui territori, ma legate anche a culture politiche progressiste, formatesi nel solco della tradizione socialista e democratico-cristiana.
Dietro la barricata delle classi dirigenti, soprattutto in Italia, c’è di tutto: fascisti, nazionalisti, leghisti, democratici, grillini; alla prova del governo, limitandoci solo agli ultimi anni, hanno fatto a gara l’uno con l’altro per abbassare sempre di più l’asticella dei diritti, delle garanzie, delle opportunità sia per coloro che aspirano a raggiungere l’Italia e l’Europa, sia per coloro che ci sono faticosamente arrivati, sia per i figli e i nipoti di chi ci è arrivato anche molto tempo fa, sia per coloro che mostrano di essere solidali con il mondo dell’immigrazione. Dal Pacchetto sicurezza di Maroni del 2009 ai decreti Minniti del 2017, fino ai successivi decreti Salvini e a tutte le evoluzioni più recenti, questo segmento ampio e trasversale delle classi dirigenti ha sistematicamente provato a spingere sempre più avanti il fronte di guerra all’immigrazione, arrivando a sperimentare dispositivi fino a poco tempo fa impensabili: l’abolizione di un grado di giudizio per i richiedenti asilo che si vedono rigettata la domanda; la progressiva dismissione della protezione umanitaria; il perseguimento giudiziario della solidarietà in mare; la criminalizzazione di azioni legate al conflitto sociale e sindacale quali il blocco stradale; l’ampliamento dell’utilizzo di strumenti quali il taser per la polizia locale; l’estensione dei tempi per la richiesta della cittadinanza, solo per citarne alcuni. Questi provvedimenti, finalizzati a rendere la vita sempre più difficile alle persone immigrate, si sono intrecciati ad altri provvedimenti, nazionali e internazionali, orientati a scongiurare la stessa immigrazione, quali il restringimento inarrestabile delle norme per poter giungere legalmente in Europa, la stretta sulle regole per i permessi di soggiorno, l’utilizzo delle forze militari sulle frontiere marittime e terrestri.
L’azione repressiva delle classi dirigenti e l’apparato legislativo che la sostiene è supportata da una gigantesca macchina militare e poliziesca. Nel giro di pochi anni le principali attività quotidiane dei commissariati e delle questure si sono concentrate sul controllo, il monitoraggio, la sorveglianza dell’immigrazione: rinnovo del soggiorno, pattugliamento del territorio, rilascio dei documenti necessari per poter vivere legalmente, repressione dei reati legati all’immigrazione occupano una parte considerevole del tempo di lavoro delle forze dell’ordine. Questo spiegamento di forze raccoglie quanto seminato nel passato più o meno recente: l’immigrazione è stata data in pasto all’opinione pubblica come la madre di tutti i problemi dei cittadini italiani ed europei. Di conseguenza, la politica migratoria è stata individuata come lo spazio ideale in cui intervenire per mostrare di voler risolvere i problemi sociali ed economici della popolazione: dalla casa alla disoccupazione, dalla sanità alle pensioni, dalla scuola ai salari. Senza poi muovere un dito per affrontare concretamente tali problemi, anzi peggiorandoli ulteriormente.
I recenti provvedimenti annunciati dal governo Meloni non fanno altro che rafforzare queste tendenze e mostrano l’intenzione di irrobustire ancora di più un approccio esclusivamente securitario all’immigrazione. Allo stesso tempo però il fronte delle classi dirigenti mentre annuncia le ulteriori tappe dell’inasprimento delle regole dimostra tutta la propria fragilità. Nonostante l’altissimo rischio di morte generato dalle scelte politiche, le persone continuano ad attraversare le frontiere, marittime e terrestri. Nonostante l’impiego massiccio di forze militari e di polizia, le persone riescono a violare le gabbie in cui vengono rinchiuse, come è successo nella cittadina siciliana di Porto Empedocle il 18 settembre, con la fuga di massa dall’improvvisato hotspot in cui era stato confinato chi nei giorni precedenti aveva raggiunto l’isola di Lampedusa. Sciatteria, confusione e fragilità possono avere effetti nefasti sui diritti delle persone, ma possono anche aprire varchi inaspettati e spazi inattesi di possibilità.
MIGRANTI E SOLIDALI
Passando dall’altra parte della barricata troviamo innanzitutto coloro che scelgono di emigrare. La loro determinazione, la spinta a muoversi, la forza che mettono in campo per realizzare i rispettivi progetti di vita rappresenta probabilmente il nemico più grande per le classi dirigenti (europee e non solo) impegnate nel tentativo di contenere i flussi. Il prezzo che pagano le migranti e i migranti è però sempre più caro, sia in termini di vite umane sia in termini di costi economici. L’effetto più dirompente della restrizione delle legislazioni migratorie internazionali è lo strapotere sempre più debordante delle organizzazioni che gestiscono i flussi, libere di poter stabilire prezzi, rotte, trasbordi, soste, rincari su tutte le traiettorie globali. A fianco ai migranti si muovono inoltre, in Italia e non solo, diverse realtà che cercano di costruire un’alternativa ai modelli disegnati dalle classi dirigenti. Si tratta di collettivi, associazioni, singole soggettività, movimenti, gruppi capaci di intervenire nei numerosi segmenti intorno ai quali prendono corpo le esperienze migratorie. Non sono presenze confinabili nella semplice testimonianza ma esperienze che nei diversi contesti riescono a incidere, anche in modo molto marcato. Alcuni esempi concreti ci permettono di guardare più da vicino queste realtà.
Un orizzonte di solidarietà molto attivo e piuttosto nuovo – almeno nel Mediterraneo – è quello del soccorso in mare, diventato indispensabile negli ultimi dieci anni a seguito della ritirata delle missioni istituzionali di soccorso, sia italiane sia europee. Un’altra presenza molto importante è quella legale: avvocati, operatori, giuristi impegnati quotidianamente a contestare le norme che hanno peggiorato ulteriormente le discriminazioni razziste. E poi ci sono le numerose e combattive battaglie di natura sindacale, che sempre più spesso hanno coinvolto lavoratori e lavoratrici di origine straniera, arrivando in alcuni comparti quali la logistica a ottenere vittorie importanti, pagate anche queste a caro prezzo (non è un caso che gli unici lavoratori morti nel contesto di scioperi negli ultimi anni in Italia siano stati due cittadini di origine straniera, entrambi impiegati nel settore della logistica: Abd El Salam nel 2016 e Adil Belakhdim nel 2021). Molto articolato è il tessuto associativo riconducibile alle cosiddette “seconde generazioni”, che continua a rivendicare la revisione delle norme sulla cittadinanza risalenti al 1992 ed è molto attivo anche sul piano culturale. Come è piuttosto attivo anche il mondo della scuola. Tra i segmenti più visibili c’è, ancora, quello della lotta per il diritto all’abitare, dove nel corso degli ultimi quindici anni l’intreccio tra militanti di origine straniera e non è diventato sempre più frequente. La ricaduta concreta dell’inasprimento delle norme ha aumentato la portata strategica di alcuni luoghi, quali i Cpr (già Cpt e Cie), contro i quali sono attivi in tutta Italia gruppi che in modo differente ne contestano la legittimità e l’esistenza. Negli ultimi dieci anni è diventata particolarmente forte la militanza legata all’intreccio tra le questioni migratorie e le questioni di genere, con generazioni nuove di militanti che hanno saputo riempire di nuovi contenuti e fronti di lotta questa intersezionalità.
Il problema più grande di tale compagine, così articolata, è tuttavia l’incapacità di ricomporre l’intera filiera. Se nei singoli contesti le forme di lotta sono determinate e possono anche condurre a successi importanti, questo mondo fatica enormemente a proporre un discorso generale, a porsi in maniera chiara in modo alternativo alle proposte delle classi dirigenti. In mancanza di una visione condivisa, di un’elaborazione collettiva e di uno sguardo ampio quella che manca è proprio la convergenza, parola spesso utilizzata di recente nel linguaggio dei movimenti sociali ma davvero scarsamente praticata nei contesti migratori. Non si tratta solo di divisioni ma a volte di vere e proprie competizioni – soprattutto nei casi in cui ci sono di mezzo finanziamenti e contributi – che inevitabilmente danneggiano l’impatto delle rispettive azioni, privilegiando quelle che Dino Frisullo definiva “rendite di nicchia” (si veda al riguardo la raccolta di scritti appena pubblicata In cammino con gli ultimi, Redstar Press 2023).
La differenza più grande tra i due lati della barricata alla fine è proprio questa: mentre da una parte è stato costruito passo dopo passo un livello sempre più ampio di mobilitazione, intorno alle parole-chiave del razzismo e della sicurezza, dall’altra parte non riesce a farsi largo un discorso altrettanto chiaro, capace di muovere non solo piccole minoranze ma segmenti ampi della popolazione. Eppure in Italia un movimento antirazzista di massa è esistito, in particolare nel corso degli anni Novanta, ha saputo costruire alleanze e proposte, è riuscito a influenzare il dibattito pubblico e a contaminare settori sociali non marginali.
Questa disparità alimenta tra l’altro all’interno dei movimenti sociali un sentimento pericoloso e strisciante, che costituisce oggi uno degli ostacoli più grandi alla partecipazione collettiva: la rassegnazione e la frustrazione, la tentazione di introiettare un senso di minorità destinato a paralizzare la consapevolezza e l’azione. Proprio lo scorcio degli ultimi venti anni ci permette invece di individuare all’interno delle congiunture apparentemente più sfavorevoli la possibilità di costruire percorsi virtuosi, capaci di rovesciare i rapporti di forza. Senza, per esempio, le proteste dei medici, degli infermieri e dei lavoratori e lavoratrici della sanità oggi vigerebbe una regola infausta proposta nell’ambito del Pacchetto sicurezza voluto da Maroni nel 2009 ma mai divenuta operativa: il divieto di accesso al pronto soccorso per le persone non in regola con i documenti. Nello stesso periodo il mondo della scuola si opponeva con successo alle decisioni dell’allora ministro Gelmini di impedire l’accesso dei bambini e dei ragazzi con cittadinanza non italiana ad alcune scuole. L’Italia viveva nel pieno di una crisi economica mondiale e neanche quelli erano tempi facili: ciononostante le mobilitazioni furono ampie e trasversali e almeno su questi fronti (fondamentali: sanità e scuola) gli intenti più razzisti vennero bloccati. Alla vigilia di un nuovo annunciato, ennesimo Decreto sicurezza può essere utile ripartire da qua.
La guerra alle migrazioni legali (chiamata dalle classi dirigenti “contrasto all’immigrazione illegale”) si può fermare, ma per farlo occorrono idee forti, proposte concrete, piattaforme condivise: è il momento di agire. (michele colucci)
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