da: Levante
Un’altra settimana di fatica è quasi giunta al termine, venerdì 25 gennaio, quando un gruppetto di professori dell’Istituto d’istruzione superiore Edoardo Amaldi di Tor Bella Monaca innesca un processo interno informale di dibattito sui migranti, che nell’arco di due giorni diviene un appello virale. E oggi, a distanza di una settimana, tutta l’Italia ne parla. Siamo andati al liceo di via Parasacchi per incontrare alcuni professori che hanno animato lo “sciopero alla rovescia” e per farci spiegare da quali esigenze e riflessioni ha preso le mosse questa iniziativa.
“Gli estranei non esistono. Esistono solo versioni di noi stessi: molte non le abbiamo accolte, dalla maggior parte cerchiamo di proteggerci. Perché l’estraneo non è straniero, è lì per caso; non ci è alieno ma di lui ci si ricorda; ed è la casualità di un incontro con una versione già nota – benché non riconosciuta – di noi stessi a scatenare un moto di allarme. A indurci a respingere quella figura e le emozioni che provoca – specie se queste emozioni sono profonde. Ed è per lo stesso motivo che desideriamo possedere, governare e amministrare l’Altro. Per romantizzarlo, se possiamo, così da farlo entrare nel nostro gioco di specchi. Quale che sia la nostra reazione (allarme o falsa reverenza), neghiamo la personalità dell’Altro, l’individualità specifica a cui teniamo tanto per noi stessi”. (Toni Morrison, L‘origine degli altri).
Quando mi presento all’Amaldi, il 30 gennaio alle due di pomeriggio, non so cosa aspettarmi. La mia professoressa di greco di quando andavo al ginnasio ora insegna all’Amaldi e mi ha dato il contatto di un altro insegnante per intervistarlo. Quest’ultimo non l’ho mai visto, sono un po’ in ritardo all’appuntamento con lui e dentro di me non posso smettere di pensare che sotto sotto i professori sono sempre nemici degli studenti, e un’iniziativa partita esclusivamente da loro non può che rendermi sospettosa, ma anche molto curiosa (questa mia vecchia forma mentis stereotipata, intransigente e difficile da scardinare, si basa su anni di esperienze negative con i professori del liceo – esclusa la sopracitata professoressa come unica eccezione che conferma la regola – e dell’università). Verrò piacevolmente smentita nelle mie aspettative durante l’incontro con Alerino.
Scendendo dalla macchina verso l’ingresso dell’Amaldi, mi chiedo come sia possibile che non abbia mai notato questa scuola (eppure non è la prima volta che mi trovo a Tor Bella Monaca); è enorme. La struttura, situata proprio dietro al teatro, da cui la separa solo un parcheggio, sembra esser stata pensata come un centro commerciale e divenuta poi per sbaglio una scuola. Inoltre è il primo di una lunga serie di giorni di pioggia e il cielo grigio non aiuta a decostruire l’immaginario da Blade Runner che mi ronza in testa. L’Amaldi, non a caso, è il liceo più grande di Roma, scientifico, linguistico e classico, con circa duemila iscritti (inclusa la sede di Castelverde sita a quindici chilometri da quella di Tor Bella Monaca).
Quando incontro il professor Alerino, mi porta in una stanzetta al primo piano con la porta a vetri davanti a cui passano in continuazione altri insegnanti (una di loro si fermerà a dialogare con noi), tutti giovanissimi. Inizia a parlare lui, senza che io faccia domande, mi racconta un sacco di aneddoti passati e presenti della scuola, per farmi inquadrare come si posizionano i docenti dell’Amaldi oggi e che aria si respira nel liceo. Alerino fa parte del comitato dei docenti contro l’alternanza scuola-lavoro, ha partecipato alla creazione della scuola popolare (gratuita) di Tor Bella Monaca, all’Amaldi insegna italiano e latino ed è da tanto tempo in quell’istituto, che ha visto cambiare, dal 2009 quando l’ha lasciato temporaneamente per andare a insegnare al Virgilio, al 2015 quando vi è tornato. Gli “anni dell’esilio al Virgilio” gli hanno dato modo di viversi il passaggio «da una scuola con una netta contrapposizione tra studenti di sinistra e di destra a una scuola dove tutti potrebbero essere tutto, senza partecipare attivamente».
Mi spiega che essendo una scuola con così tanti studenti le differenze e le contraddizioni si sprecano: sono duecentocinquanta gli alunni stranieri che studiano qui, e altrettanti, se non di più, i figli di migranti di seconda generazione. La scuola non è stata mai protagonista di episodi razzisti al suo interno, ma è stata in diverse occasioni oggetto di attacchi esterni per alcune scelte interne all’istituto, non ultima l’iniziativa di cui stiamo scrivendo.
Invece, dentro l’istituto, i docenti ad aderire all’appello, inizialmente scritto su un grande manifesto di carta, appeso sul muro dell’aula professori e poi trascritto e fatto girare online, sono i due terzi del corpo docente. Chi tra loro non ha firmato l’appello, non si è opposto all’iniziativa di “fermare la didattica per riflettere”, non ha espresso contrarietà pubblicamente. Forse piuttosto alcuni non si sono sentiti adeguati e a loro agio nel dover mettere in discussione lo status di professori e figure autorevoli, o comunque con un ruolo preciso, per calarsi i pantaloni e addentrarsi in un discorso impervio che rischia uno scivolone ogni tre passi. Una sorta di rigidità che nasce dalla costruzione di una comfort zone, cristallizzata in un ruolo a cui spesso i docenti preferiscono non rinunciare.
Nonostante ciò la maggior parte dei professori dell’Amaldi ha costruito e animato quest’iniziativa che ha trovato consensi molto ampi in diverse scuole prima di Roma e del Lazio, e poi del resto d’Italia (per citarne solo alcune: l’intero collegio docenti dell’Istituto Isabella D’este di Tivoli e del liceo Orazio, il dipartimento di filosofia del liceo Righi, parecchi insegnanti del Buonarroti di Frascati, del liceo Benedetto da Norcia, del Tullio Levi Civita, dell’IC Luca Ghini, del liceo Morgagni e del Socrate, nonché tutta l’amministrazione del Comune di Latina, il CEDIS (istituto di certificazione degli esami di italiano come lingua seconda) e altri istituti in giro per l’Italia, tra cui il Copernico di Bologna).
Il processo interno che ha portato all’organizzazione di questi spazi di dibattito e confronto è partito informalmente dalle chiacchiere di corridoio che animavano le discussioni a seguito di alcuni fatti di cronaca recente, tra cui, in particolare, la deportazione senza preavviso da parte di militari e forze dell’ordine di centinaia di migranti dal Centro d’accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) di Castelnuovo di porto (già protagonista nel 2014 di forti proteste da parte dei migranti al suo interno, contro i trattamenti disumani e le ipocrisie del sistema cooperativo mafioso di accoglienza). Per chi vive in una scuola con così tante differenze e contraddizioni era ridicolo non parlare della realtà che a pochi chilometri stava colpendo quelle persone proprio nel posto dove chiedevano accoglienza, e continuare con la grammatica e la trigonometria. E così, nell’arco di una settimana, attraverso i gruppi WhatsApp e le firme sul foglio appeso in aula professori, è partita l’iniziativa.
E gli studenti che dicono?
Qui il discorso si complica. Il senso di fare un’iniziativa del genere è stato colto con entusiasmo da molti studenti, i rappresentanti d’istituto hanno partecipato alle assemblee di costruzione e hanno dialogato con i professori. Ma questa resta un’iniziativa dei docenti. Quando chiedo il perché ai professori (ormai sono diventati due) che sto intervistando, mi rispondono schiettamente: gli studenti (influenzati o meno dalle famiglie, non è importante) comunicano un’ambiguità sclerotizzata e complessa che, da un lato, rimanda a una domanda di politica che non viene esaudita, e, dall’altro, manifesta un timore che «la faccenda possa avere risvolti politici» in senso di propaganda e faziosità proprie di una politica partitica, verso cui gli studenti mostrano la massima sfiducia, se non il totale disinteresse.
Detto questo, il 30 gennaio, allo scattare della fine della seconda ora di didattica alternativa, da parte degli studenti c’era l’esigenza manifesta di continuare a parlare del senso di discutere di realtà e fenomeni contemporanei a scuola, una domanda di formazione che non sia relegata soltanto agli ambiti poco rischiosi e agli orti sicuri della storia e della filosofia di quattrocento anni fa, ma che sappia anche parlare il linguaggio sclerotico e complesso del presente. E a insegnarlo dovrebbero proprio essere tutti coloro che oggi occupano la posizione del margine, e camminando sul crinale tra vita e morte, lotta e sfruttamento, sogno e libertà, ridisegnano le geografie del nostro tempo, attraverso viaggi impensabili nelle crepe di questo mondo, che trasmettono un’immagine di dignità e coraggio molto più importante di quella di fragili vittime che vorrebbero dare i giornali mainstream di “sinistra”, o quella di usurpatori della tradizione e criminali, che avallano le destre. Un’immagine degna dei migliori rivoluzionari della nostra storia, quella che non viene insegnata a scuola. (redazione levante)
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