Il secondo volume della serie (di tre) sull’Autonomia operaia meridionale edita da DeriveApprodi (Gli autonomi – Napoli e la Campania, a cura di Antonio Bove e Francesco Festa) è uscito a qualche mese di distanza dal primo e si articola come raccolta di ricostruzioni e testimonianze sulle vicende dei movimenti sociali e politici nel capoluogo e in altri luoghi della Campania tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta. Il fulcro intorno a cui ruotano quasi tutti gli interventi è quindi inevitabilmente il sisma del 23 novembre 1980, data spartiacque non solo nella storia dei movimenti ma più in generale in quella d’Italia e del meridione.
Il terremoto impatta sui gruppi antagonisti in un momento di riflusso, dovuto al generale arretramento delle lotte e ai colpi assestati da magistratura e forze dell’ordine negli anni e nei mesi precedenti, mentre sul territorio campano si è già manifestata la presenza della colonna napoletana delle Brigate Rosse, frutto di una divaricazione del gruppo armato, e che al sud si caratterizza per il tentativo di connettersi con gli ambienti dei detenuti (come tentarono i Nap nel ’74-76) e con le lotte popolari per la casa e per il lavoro. La scossa non è solo fisica quindi ma anche emotiva e provoca una rapida mobilitazione, istintivamente indirizzata verso i luoghi dell’entroterra campano, i più colpiti e disastrati, ma anche una crescente consapevolezza delle trappole che la gestione politico-istituzionale della catastrofe si appresta a disseminare nella metropoli napoletana sul medio-lungo periodo.
Michele Franco rievoca nel suo intervento il dilemma che si presenta, già nell’immediatezza degli eventi, ai militanti intenzionati a dare un contributo utile, efficace, ma anche politico: “La prima riunione post-sisma – scrive Franco –, a cui si aggregarono rappresentanti di tutte le aree antagoniste della città, iniziò con interventi che invitavano all’organizzazione dei tanti senzatetto che il terremoto aveva provocato […]. Alcuni compagni […] proposero di partire, immediatamente, per l’Irpinia e la Basilicata e di unirsi a quanti, da ogni parte d’Italia, stavano raggiungendo quelle zone per portare assistenza. A questo punto intervenne Pietro Basso, all’epoca il leader del Centro di iniziativa marxista, e, con la determinazione che la situazione necessitava, affermò che i compagni di Napoli dovevano restare nella metropoli perché dopo il terremoto naturale si sarebbe verificato un altro terremoto, quello sociale. […] Basso […] chiese a tutti i militanti (e alle varie strutture politiche presenti) di unirsi in una mobilitazione che avrebbe dovuto investire la città e, di conseguenza, impattare con l’operato delle varie istituzionali locali e nazionali”.
Più che delimitare con esattezza la fisionomia degli attori in gioco, le diverse ideologie e posizioni politiche, il confronto con gli interlocutori sociali e istituzionali, la trama degli articoli solleva piuttosto, e tutte in una volta, una serie di questioni ed elementi caduti nell’oblio della ricerca storica e conosciuti superficialmente anche dalle nuove generazioni di attivisti, inquadrandoli da diversi punti di vista (tra gli altri, il femminismo negli interventi di Mariella Toledo e Carla Panico, il rapporto tra carcere e territorio in quello di Raffaele Paura, il rifiuto del lavoro in quello di Mario Avoletto, la traversata degli anni Ottanta e la stagione dei centri sociali in quello di Iozzoli e Santella, le lotte per la casa in quello di Daniele De Stefano). E sono importanti le aperture verso vicende che riguardano territori ancora più negletti, come l’hinterland napoletano, Terra di lavoro, l’Irpinia, il salernitano.
Ma, come è inevitabile quando si alza il velo su un coacervo di storie e problemi finiti nel cono d’ombra del dibattito pubblico, o peggio ancora fraintesi e mal divulgati dalla strumentale e intermittente memoria dei giornalisti, un lavoro del genere sollecita soprattutto domande su quel che manca, e su cosa andrebbe intrapreso per arricchire il quadro e approfondire i dettagli. Come sottolinea, a proposito del femminismo, una delle stesse autrici, Carla Panico: “Al netto di grandi narrazioni semplificatorie, è proprio all’interno di questa complessità enorme che dobbiamo provare a muoverci […]. Molte delle categorie classiche, del femminismo italiano come dell’operaismo, non funzionano o non funzionano a pieno se non facciamo lo sforzo – necessariamente collettivo – di rinegoziarle nei luoghi e sui territori. Ciò che dovremmo iniziare a compiere è proprio una ricerca capillare di quelle tracce di scintille di autonomia che da sempre hanno caratterizzato le vite e le lotte delle donne meridionali, e, forse, provare da queste a desumere nuove categorie di analisi che – lo dico con sincerità – ancora non abbiamo”.
In effetti, se appena volgiamo lo sguardo sullo stato delle ricerche storiche e sociali in materia, quel che ci appare è un deserto quasi ininterrotto. Basti pensare che l’ultimo, e forse l’unico, studio sistematico sull’irrompere dei disoccupati organizzati sulla scena locale e nazionale risale al 1981, a opera dello stesso Pietro Basso menzionato sopra (Disoccupati e Stato, Franco Angeli), mentre sui comitati di quartiere, per esempio, ai quali Raffaele Paura, nel suo intervento, accredita un valore politico anche maggiore rispetto al movimento dei disoccupati, non esiste nulla di organico; e lo stesso vale per la presenza brigatista a Napoli e su altri temi ancora.
Tra le righe del frammento sopra citato, in realtà, si materializzano interrogativi ancora più urgenti per chi voglia provare a riannodare i fili di un passato relativamente recente e per molti versi ancora palpitante e controverso. In che modo, per esempio, può essere percepito, e quanto reputato necessario, dai militanti di oggi un tentativo del genere? E più in generale, a chi parlare e con quale linguaggio? Come inserire queste analisi in un discorso sul presente che illumini traiettorie più ampie e fornisca elementi di riflessione e dibattito? Il protagonismo delle classi popolari, la costituzione dei comitati di quartiere, le idee e le pratiche del femminismo, l’organizzazione interna dei lavoratori, degli occupanti case o dei disoccupati, il ruolo giocato in tutto questo dai militanti politici parlano ancora a questo tempo dove le possibilità di autonomia, o anche solo di partecipazione delle classi subalterne appaiono sempre più lontane all’orizzonte e ogni canale di comunicazione tra queste e le avanguardie politiche sembra come ostruito o inerte?
È evidente che la scintilla non partirà, se non fortuitamente, dagli ambienti accademici o professionali. Ma ogni ricerca che prenda le mosse da ambienti militanti – insieme a una cornice metodologica tutta da costruire –, proprio per questa origine richiederà uno sforzo supplementare, perché le domande irrisolte, gli spazi vuoti della documentazione, il silenzio dei testimoni, riguardano non solo le diverse anime del movimento ma anche quegli interlocutori istituzionali, in primo luogo il Pci e i sindacati, senza studiare i quali resta impossibile delineare una storia a tutto tondo dei movimenti stessi (in questo senso basti pensare all’assurda scomparsa dell’archivio del Pci napoletano, o alla pluriennale inaccessibilità dell’archivio della Cgil campana, come all’assenza di centri di documentazione indipendente che possano accogliere i tanti archivi privati a rischio di dissoluzione – sebbene qualcosa si muova).
Non sembrano invero questioni all’ordine del giorno, ma è pure necessario che qualcuno provi a porle, e in modo coordinato, ancora prima di individuare le singole priorità di ricerca. Libri come questo, così rari, andrebbero discussi in forma seminariale e orientata, intanto con chi nel presente sta facendo esperienze simili, in contesti ovviamente mutati, ma anche in quei pochi ambienti recettivi fuori e dentro la città, accademici o istituzionali che siano, cercando di aprire la strada a una pratica di studio e a un dibattito che ne renda l’oggetto materia viva e che parla al presente. (luca rossomando)
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