Sono le tre del pomeriggio di una fredda domenica di gennaio. Un operaio passa in bicicletta nel grande piazzale dell’ex-Gkn di Campi Bisenzio. Si ferma. «Si sta bene oggi al sole – dice –, ti ricordi a luglio, quando c’erano quaranta gradi? Qui non si poteva stare. Eppure siamo ancora qui. Ci proviamo a stare in piedi». C’è un’aria rilassata al presidio, il giorno dopo il referendum sull’accordo quadro firmato al ministero dello sviluppo economico: 262 voti favorevoli, 2 contrari e una scheda nulla; alto il numero di votanti (74%), considerando il periodo di pandemia e quarantene. Praticamente un plebiscito.
Eppure, a parlarci con gli operai, si sente un misto di orgoglio e disillusione. Orgoglio perché quello che si è portato a casa è tutto frutto della lotta, disillusione perché la prospettiva è un lungo periodo di cassa integrazione, incertezza, logoramento. Lo definiscono un accordo sindacale avanzato in un contesto arretrato. Ed è ancora una tappa del percorso, non un punto di arrivo ma un nuovo punto di partenza, dal quale proseguire e rilanciare la lotta, con l’Insorgiamo Tour che riprende, le assemblee e gli incontri in tutta Italia, la preparazione dal basso di un altro grande evento di mobilitazione. “Tenetevi liberi per marzo” è la parola d’ordine di questa fase, con la speranza che tutto quello che si è costruito in questi sei mesi non si disperda, anzi che possa diventare grande e camminare con le sue gambe. «A tutti coloro che si sono mobilitati abbiamo sempre detto che non si mobilitavano per noi, ma con noi e devono continuare a farlo – dice Dario Salvetti, delegato Rsu Gkn –, perché non ci sembra che il paese sia migliorato in questi sei mesi».
Salvetti, quale fase si apre adesso?
«Una fase di potenziale logoramento, molto rischiosa. Ci sarà un limbo in cui non saremo né la nuova fabbrica né quella vecchia. L’ammortizzatore sociale è un meccanismo che ha fiaccato, distrutto, disperso, addormentato tante mobilitazioni in questo paese. Dovremo studiare nuove forme organizzative per mantenere il presidio della fabbrica».
Come prosegue la lotta?
«Pensiamo che tutto il movimento nato intorno al motto Insorgiamo non debba finire, anzi in qualche modo dovrebbe emanciparsi da Gkn. Questa è la cosa che in questo momento ci turba il sonno. Gkn un domani potrebbe anche cadere, come tutte le vertenze, può avere una parziale vittoria o una parziale sconfitta, ma i concetti espressi in questi sei mesi di lotta, che sono stati importanti, generali, universali, devono trovare il modo di continuare a camminare».
Veniamo all’accordo quadro. È avanzato ma non è abbastanza?
«È un accordo che norma una reindustrializzazione, termine che da troppo tempo viene usato per far scappare i vecchi proprietari delle aziende, dietro la promessa che arriverà qualcun altro. Promessa che quasi mai si avvera. Noi abbiamo messo dei paletti, ma pensiamo che questo sia il minimo sindacale. Perché qui non è avvenuto che producevamo telefonini obsoleti, che non hanno più mercato e quindi c’era da inventarsi una nuova produzione. Noi avevamo una fabbrica nuova e avevamo un prodotto, poteva essere riconvertito in produzioni ancora migliori, usando gli stessi macchinari e le stesse competenze, invece verremo depredati e delocalizzati».
Quali sono invece le parti avanzate dell’accordo?
«È un accordo che cerca di imparare dalle precedenti reindustrializzazioni, per avere il massimo possibile di quello che si può avere oggi. Ci sono dei tempi certi. C’è un meccanismo di anti-attesa, cioè se entro fine agosto la reindustrializzazione non si palesa, sarà la stessa QF con il capitale pubblico di Invitalia a portare avanti la reindustrializzazione. È un accordo avanzato perché tutto questo avverrà in continuità di diritti e occupazionale, perché crea una commissione dove noi possiamo proporre e verificare i tempi, l’apporto e l’uso dei fondi pubblici. L’altro elemento riguarda i lavoratori degli appalti ex-Gkn. Le nuove ditte che verranno dovranno fare le assunzioni partendo dalle persone che c’erano prima, anche se noi avremmo voluto un’internalizzazione e su questo la discussione continuerà a essere tesa».
L’ingresso dello Stato di per sé è una garanzia?
«No. Nell’assemblea del 5 dicembre scorso abbiamo avanzato delle proposte di reindustrializzazione e di intervento pubblico, che rimane il nostro obiettivo finale. Ma se oggi invece siamo arrivati a questo accordo, è perché siamo ancora ben lontani dal cambiare i rapporti di forza generali del paese. Questo non è uno Stato pensato, studiato, modellato, nelle forme e nel personale politico, per prendere in mano un’azienda e farne bene pubblico».
Sarebbe stato possibile questo accordo senza i sei mesi di lotta?
«Non sarebbe stato nemmeno immaginabile. Ogni singola parola è stata strappata da ogni singolo atomo di lotta, dalle manifestazioni, dalle trasferte, da chi ha cucinato, da chi ha presidiato la fabbrica, da chi l’ha tenuta in ordine. Perché se oggi un privato si può permettere di giocare a fare il salvatore della patria, è perché noi abbiamo preservato la fabbrica in autogestione. Non solo non sarebbe stato possibile, ma mi spingo a dire che non si avvererà se la mobilitazione non continua. Abbiamo imparato fin troppo bene che gli accordi sulla carta sono sempre meglio di quelli orali, ma la carta è carta, mentre i nostri corpi e la nostra mobilitazione materiale sono l’unica garanzia».
Gli enti locali possono fare la differenza in questa fase?
«Gli enti locali in piccolo riproducono gli stessi limiti dell’apparato statale. Anche su questo non ci facciamo illusioni. La nostra lotta ha avuto alcuni momenti di massa a livello territoriale e questo ha permesso di permeare diverse decisioni degli enti locali. Abbiamo visto che c’è un personale, dagli enti locali alle università, che probabilmente dieci o quindici anni fa sarebbe stato completamente dall’altra parte della barricata, perché non appartengono per storia e per estrazione al nostro mondo operaio. Invece si sono messi seriamente a disposizione della lotta per Gkn. Evidentemente c’è una rottura tra un settore di grande capitale, che si disinteressa dei territori, e i tanti livelli locali che iniziano a capire che se non si pone un argine a questi colossi non c’è sviluppo».
Comunque si concluda il processo di reindustrializzazione, rimane il fatto che una fabbrica con un secolo di storia lascia questo territorio.
«È stata distrutta una storia industriale, non perché è stata fatta una scelta di politica industriale e quindi perché il paese ha deciso che era molto meglio produrre elettrolizzatori per fare idrogeno verde. È stata fatta una scelta di puro profitto, di pura speculazione. Questo è il punto. Se ci dicessero che chiudendo tutte le fabbriche dell’automotive del mondo, il mondo migliorerebbe, saremmo i primi a metterci la firma, ma non è questo quello che è avvenuto qui. Qui c’è stata una pura rapina capitalista». (valentina baronti)
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