Un omicidio commesso da una banda di rapinatori, un traffico di reperti archeologici, una presunta relazione omosessuale, un giro di spaccio di stupefacenti, una cospirazione dei servizi segreti legati ai Fratelli Musulmani e persino un incidente stradale. I tentativi delle autorità egiziane di depistare le indagini sul caso Giulio Regeni hanno sfacciatamente superato ogni soglia di realismo, scadendo nel ridicolo. Un “ridicolo” che offende chi, a due anni dalla scomparsa, cerca ancora verità e giustizia per Giulio, ragazzo di ventotto anni rapito e ucciso dopo giorni di brutali torture. Ci sentiamo offesi dalle autorità egiziane che si sono rifiutate nei fatti di collaborare alle indagini, improvvisando anzi ridicoli diversivi e insabbiamenti. Un modo di agire che rivela come gli apparati di sicurezza locali siano abituati ad arrestare, torturare e uccidere gli oppositori politici, senza sforzarsi nemmeno di nasconderlo.
Allo stesso tempo ci sentiamo feriti dalle autorità italiane, che di fronte agli interessi economici tra i due paesi, hanno velocemente calato le braghe, ristabilendo i legami diplomatici e tentando di far finire tutta la vicenda nel dimenticatoio della storia.
Oggi è il secondo anniversario dalla scomparsa di Giulio Regeni. Insistiamo nel chiedere verità e giustizia perché il suo caso è perno di tante lotte: quella contro la dittatura del generale Al-Sisi, innanzitutto. Quella dei lavoratori e dei sindacati in Egitto, che Giulio studiava e sosteneva. Ma sopratutto la lotta contro i nostri governanti, sempre pronti a sbandierare principi come la “democrazia” e la “giustizia” salvo poi metterli da parte quando si parla d’affari. Ma andiamo con ordine.
Il 25 gennaio 2011, nell’ambito della cosiddetta Primavera araba, hanno inizio al Cairo diciotto giorni di protesta in piazza Tahrir che culminano con le dimissioni del presidente Mubarak, al potere da trent’anni.
Tra il 23 e 24 maggio 2012 si svolgono in Egitto le prime ed uniche elezioni libere della storia del paese. Le vincono i Fratelli Musulmani con più di cinque milioni e mezzo di voti, diventando il partito più grande del paese. Morsi diviene presidente.
Il 3 luglio 2013, con un colpo di stato militare, viene deposto il governo. Il golpe è guidato dal ministro della Difesa, il generale Al-Sisi. In seguito Al-Sisi viene “eletto” presidente con elezioni così finte da meritare due righe: innanzitutto dalla competizione vengono esclusi i Fratelli Musulmani e altri partiti di opposizione. Le elezioni si svolgono dopo quasi un anno di giunta militare (un anno di arresti, torture, intimidazioni), vota meno della metà degli aventi diritto, il generale Al-Sisi vince con oltre il 95% dei voti. Il deposto presidente viene condannato a morte (sentenza poi annullata).
Il 15 gennaio 2016 Giulio Regeni compie ventotto anni. Ha vinto un dottorato nella prestigiosa Università di Cambridge e si trova in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani. Oltre a questo, è un giornalista, e documenta la difficile situazione in Egitto usando lo pseudonimo di Antonio Drius.
Il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario della rivolta, Giulio scompare proprio nella zona di piazza Tahrir. Nei giorni successivi nasce una campagna sui social network per avere sue notizie.
Il 3 febbraio 2016, il corpo di Giulio viene ritrovato nudo al margine di una strada nella periferia del Cairo. Presenta evidenti segni di torture: è ricoperto di lividi, coltellate, bruciature di sigarette e ha decine di ossa rotte tra cui sette costole, tutte le dita di mani e piedi, così come gambe, braccia e scapole, oltre a cinque denti.
Il 10 marzo 2016 il Parlamento Europeo a Strasburgo approva una proposta di risoluzione che condanna la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni e le continue violazioni dei diritti umani del governo di Al-Sisi in Egitto. La risoluzione è approvata con ampia maggioranza.
Il 5 aprile 2016, nell’informativa resa al parlamento, l’allora ministro degli esteri Paolo Gentiloni definisce il dossier delle autorità egiziane carente e incompleto. Gentiloni accusa inoltre l’insufficiente collaborazione delle autorità egiziane nel corso delle indagini.
Il 23 agosto 2017 il New York Times rivela che gli Stati Uniti avevano ricevuto nelle settimane dopo la morte, “prove esplosive” che Giulio Regeni era stato rapito, torturato e ucciso da ufficiali della sicurezza egiziana. Queste informazioni erano state passate al governo Renzi. Ma per evitare di svelare la propria fonte, gli americani non avevano condiviso i dati originali, quindi non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo né quale agenzia l’avesse eseguito. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo avevano detto agli italiani, era che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni.
Il 5 settembre 2017, dopo un anno e mezzo dalla morte di Giulio Regeni e senza nessun avanzamento nelle indagini, l’Egitto e l’Italia ristabiliscono normali relazioni diplomatiche col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. Il ministro degli esteri italiano afferma: «L’Egitto è un partner ineludibile per l’Italia».
Come scrisse pochi giorni dopo il 3 febbraio 2016 Lorenzo Declich sul sito di Wu Ming: “Abbiamo già tutte le informazioni sufficienti per definirlo un assassinio di Stato: chiunque voglia riaprire questa partita, dopo l’autopsia, lo farà per alzare polveroni, confondere le acque” (vedi articolo per capire l’assurdità delle ipotesi sollevate). È esattamente quello che è accaduto negli ultimi due anni. Si sono sollevati polveroni che hanno aiutato solo a proteggere il regime di Al-Sisi. Ovviamente tutto questo non è frutto del caso. L’Italia è infatti il maggior partner commerciale europeo dell’Egitto — quasi sei miliardi di dollari nel 2015. Nel 2014, l’allora presidente del consiglio Matteo Renzi è stato il primo leader occidentale ad accogliere Al-Sisi nella propria capitale. Con la rottura delle relazioni diplomatiche questo giro di affari non è diminuito, anzi ha visto un rapido innalzamento. In particolare l’Italia ha incrementato in modo esponenziale la vendita di armi e sistemi di sorveglianza all’Egitto, nonostante l’aumento delle prove di abusi dei diritti umani; armi che secondo l’Osservatorio permanente sulle armi leggere (OPAL) sarebbero finite nelle mani degli apparati di sicurezza egiziani. Non bisogna nemmeno dimenticare che l’ENI, l’Ente italiano per gli idrocarburi ha investito in Egitto quasi quattordici miliardi di dollari. E non è la sola: nel paese, infatti, vi sono più di cento aziende italiane: Edison, Banca Intesa San Paolo, Pirelli, Gruppo Caltagirone e molte altre.
Ma nel periodo di presunte tensioni tra Italia ed Egitto seguite alla morte di Giulio Regeni, la Francia si è precipitata al Cairo dove ha concluso affari miliardari col generale Al-Sisi, preoccupando non poco gli affaristi italiani. Inoltre il governo italiano ha avuto bisogno dell’appoggio egiziano per concludere accordi sui migranti con le diverse milizie libiche (in particolare quella di Haftar, sponsorizzata dall’Egitto). L’Italia infatti, non potendo respingere i barconi, stringe accordi per impedirne le partenze, condannando i migranti a finire nei lager libici. Non ci sorprende dunque che si sia preferito sacrificare la verità sul caso Regeni in nome degli interessi economici e politici.
Ma certe cose non si dimenticano. Il volto di Giulio Regeni continuerà periodicamente a tormentare chi vorrebbe farlo sparire, ucciderlo una seconda volta. I politici ipocriti e chi lucra su tragedie come questa hanno solo una possibilità: quella di farsi da parte. Perché ormai è troppo tardi per far luce sul caso: la verità, in fondo, l’hanno già capita tutti. (thomas maerten)
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