Era lo scorso ventiquattro aprile, quando a Gianturco crollava una palazzina, alle spalle della stazione della Circumvesuviana, causando la morte di due cittadini polacchi: Alexandra, cinquantasei anni, e Ceslavs, cinquantuno. Sono passati sei mesi, eppure nella zona i ricordi sono vivi, non soltanto nella mente di chi era lì quel giorno: come una specie di monumento funebre, infatti, i resti del palazzo sono ancora accumulati nel piccolo slargo, nel bel mezzo di via Gianturco, proprio dove sono crollati. In sei mesi nessuno ha pensato a rimuovere i grossi mattoni di tufo che formavano il solaio caduto, ma anche quel poco che i polacchi possedevano, come sedie, vestiti, e scatole di cibo per cani. Tutto quello che era nella palazzina quel sabato mattina, e non è stato ancora preso dai senzatetto della zona, è rimasto intatto ai piedi dell’edificio, recintato da una rete plastificata che non spaventa né tiene lontano nessuno.
«Nella palazzina – racconta Gabriella – abitavano sei persone, tutte polacche: Alexandra non ha avuto scampo, nonostante i miei cani, che erano con lei, abbiano provato a trascinare fuori il corpo in ogni modo». Gabriella vive in un edificio poco lontano, ma è consapevole che lo stesso destino potrebbe capitare a lei e a suo marito Zaccaria. La stanza buia e umida in cui vivono, infatti, fa parte di una ex fabbrica abbandonata, una costruzione inabitabile, dove si è rifugiata dopo aver lasciato Roma. È una veterinaria, ed è rimasta senza casa in seguito a una malattia che le ha portato via un occhio. È stata lei a riconoscere il corpo dei due polacchi scomparsi, e a recuperare le cose di Alexandra perché non venissero rubate, tenendole come ricordo. Tutti gli altri oggetti che possedevano gli immigrati dell’edificio (a cui sono stati rimossi anche i sigilli, ed è chiuso con un catenaccio che si tira via facilmente) sono stati ricoperti da alcune piante, che sono addirittura cresciute prospere, negli ultimi mesi, sopra al materiale di risulta.
Il palazzo, nel frattempo, è stato abbandonato da tutti, e anche i polacchi sono spariti, preferendo accamparsi per strada. Per provare a entrare nel cortile del palazzo, dalla porta che è solo parzialmente ostruita dai detriti, è necessario allontanare alcuni materassi, dopo essersi fatti largo aprendo la rete plastificata, ormai semidistrutta. Scostando il materasso, alcuni topi vengono fuori minacciosi dall’immondizia, che in tempi di “emergenza” si è accumulata anche lì. A questo punto, è preferibile fermarsi.
Alla destra dell’edificio, invece, la signora Anna ha un ufficio in cui si occupa di immobili. In questi sei mesi ha inoltrato diverse denunce, soprattutto al comune di Napoli, affinché i resti dell’edificio venissero rimossi. Poco distante vi sono i sacchetti dell’immondizia, e Anna raccomanda ogni giorno a suo figlio di tenersi lontano da lì: «Ci sono un sacco di topi, che soprattutto di sera, quando ci sono meno rumori, vengono fuori e fanno la spola tra l’immondizia e la tana che hanno trovato tra i resti della palazzina. Ho mandato decine di mail e fax al comune, ma nessuno se ne è mai curato».
Non è chiaro il numero dei polacchi che abitavano la palazzina di via Gianturco. Secondo alcune persone del quartiere potevano essere una decina. Secondo altri che lavorano in zona, non più di cinque-sei. Quello che è certo, è che dopo il crollo tutti hanno deciso di abbandonare il palazzo, per disperdersi in giro. Tadzeus, per esempio, è ritornato in Polonia, ma la maggior parte di loro ha trovato collocazione nei giardini poco distanti, all’angolo tra via Gianturco e via Ferraris. Con l’avvicinarsi dell’inverno, però, iniziano ad avere paura.
Darek ha una sessantina d’anni, e chiede al semaforo qualche spicciolo o una sigaretta. Ha i capelli lunghi, una folta barba grigia e un cappellino rosso sempre in testa. Racconta la sua vita sgranocchiando un panino vecchio di un paio di giorni, regalatogli dal gestore di un bar della zona. «Da maggio ci siamo trasferiti qui – indica i materassi, appoggiati vicino ad alcuni sacchetti – ed è qui che dormiamo da cinque mesi. Ora arriva l’inverno, e abbiamo paura di rimetterci la pelle». Il freddo, soprattutto, e il timore di fare brutti incontri, spaventa Darek quanto gli altri accampati della piazzetta, che fanno capire di essere stati abbandonati. Dei servizi sociali sembra non esserci ombra: «Abbiamo parlato con alcuni assistenti sociali prima dell’estate, ma sono scomparsi. Da queste parti la gente che dorme per strada, o in palazzi abbandonati e cadenti è tantissima, e forse loro non sanno da dove cominciare».
Anche gli alloggi pubblici per gli immigrati a Napoli sono una realtà assolutamente inesistente, dal momento che il problema della gestione dell’edilizia popolare crea già abbastanza difficoltà per i cittadini partenopei. Agli stranieri non resta che vivere in case che sono più buchi che altro (pagando affitti spesso per niente bassi) o la rete di accoglienza di centri per i senzatetto e mense per i poveri. In alcuni casi, racconta Grazia, anche lei polacca, persino in situazioni del genere si affrontano difficoltà: «Al dormitorio pubblico dicono che non c’è posto, ma ci sono italiani che dormono lì da molto più tempo rispetto al limite che è di due anni. Sappiamo bene che in certe situazioni non siamo ben visti: mi hanno cacciata con la scusa che bevevo, come successe ad Alexandra, la ragazza che poi è morta. Ma non è vero, con quali soldi potrei? Ora mi sono stancata di lottare ed eccomi qua. Se arriverà il freddo, e se mi succederà qualcosa, pazienza. Almeno finirò sui giornali per una volta nella vita». (riccardo rosa)
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