Non c’è etnografia senza viaggio. Per il lettore non specialista è questo forse l’elemento di maggiore fascino di questa “scienza del popolo” che ha bisogno di osservare i fenomeni da vicino per provare a sovvertire le narrazioni ufficiali. Il libro di Luca Manunza, Geografie dell’informe. Le nuove frontiere della globalizzazione. Etnografie da Tangeri, Napoli e Istanbul (Ombre Corte, Verona, 2016, pp.179, 17 €), si apre sul traghetto Ikarus Palace in rotta da Livorno al Marocco per raccontare tre città mediterranee, Tangeri, Napoli e Istanbul, alle prese con metamorfosi che avvengono in una nuova epoca di cui sono tratti culturali dominanti una nuova concezione di sicurezza urbana, la guerra alle migrazioni e la paura dell’altro, dispositivi essenziali alla ristrutturazione dall’alto delle città secondo i dogmi del tardo liberismo. È l’informe, “inteso come l’insieme dei mutamenti in atto non ben catalogabili e non aderenti al discorso ufficiale”, una rimodulazione urbanistica e sociale delle città che è il risultato dell’interazione tra gli interessi delle classi dominanti, tradotti in dispositivi normativi, e quelli delle classi subalterne, con la loro tendenziale ingovernabilità, l’energia con cui cercano continuamente una propria forma, aliena a quella dettata dall’establishment.
Tratto comune alle città prese in esame le cicatrici di processi d’inurbamento e distruzione delle tradizionali forme di economia comunitaria in assenza di un welfare di sostegno, la nascita di nuove enormi schiere di disoccupati e lavoratori precari. È il volto della new economy che si rende visibile dal Marocco alla Turchia, dove negli ultimi anni “si è registrato l’aumento di quello che in Italia è chiamato il precariato urbano, prima quasi inesistente a Istanbul”.
Quest’umanità operosa e sfruttata è il centro dell’analisi, antropologica certo, ma soprattutto politica. Si tratta di figure sociali accomunate da forme di precarietà che si sviluppano dentro città investite da una terziarizzazione visibile negli sweatshop di periferia, veri e propri laboratori di sfruttamento di manodopera, o nelle free tax zone in cui produrre profitti senza pagare dazio. Luoghi in cui si solidifica il nuovo potere urbano in uno scenario in cui sempre più le città diventano pezzi di un ingranaggio produttivo che trova la sua base nello sfruttamento del lavoro operaio, artificiosamente raccontato come entità in via d’estinzione per far passare come ineluttabili le epocali restrizioni in atto nel campo dei diritti dei lavoratori.
È un viaggio tra le pieghe della globalizzazione, questo, che prova a indagare cosa accada dentro realtà come Tangeri, la Città Bianca all’estremo nord-est del Marocco, dal territorio sconvolto dal mega progetto portuale Tanger Med; e attraverso il mare arriva al porto di Napoli, sempre in cerca d’identità; fino a Istanbul, megalopoli dal tessuto urbano multiforme, dal profilo antico ma inscatolato per la vendita ai turisti, che dovrebbe rappresentare il volto moderno della città. In fondo è questa la domanda, che cos’è il moderno? In che modo si stanno sviluppando le città, il loro tessuto urbano e le loro popolazioni?
Un dato significativo del libro è la restituzione di questioni che siamo abituati a definire “meridionali” al loro campo naturale, il Mediterraneo. Napoli non è una questione italiana o meridionale e nemmeno europea. Il campo in cui Napoli, come Tangeri, Istanbul, Tunisi o Atene vanno iscritte è quello mediterraneo. Un’area culturale e storica ma anche di produzione e scambio materiale che potrebbe riscrivere regole differenti da quelle imposte dalle burocrazie europee.
A proposito di Napoli, l’indagine dedica grande attenzione all’analisi di fenomeni che la struttura mediatica ufficiale ha rinchiuso dentro la gabbia concettuale legale/illegale, sicuramente riduttiva. Il contrabbando, per esempio, osservato con uno sguardo attento alla sua struttura di “economia parallela” che nasce, ben prima di finire nelle mani della camorra, come forma di resistenza delle classi subalterne, costruendo un’economia e una rete sociale laddove lo Stato aveva lasciato buchi enormi.
Con lo stesso sguardo vengono osservati quei fenomeni di espulsione delle classi subalterne dalla città che sono una costante delle politiche urbane contemporanee, testimoniate a Napoli dalle cifre dell’ultimo censimento, che parlano di uno svuotamento della metropoli, che non arriva al milione di abitanti mentre la cintura urbana arriva a tre milioni. È possibile averne un’idea osservando quell’area di grandi commerci che è compresa tra piazza Garibaldi e l’area orientale, in cui è disseminata una “fabbrica diffusa” della produzione sommersa, a manodopera mista cinese, africana, napoletana, che trova un rapporto diretto con la città ufficiale attraverso gli ambulanti che l’amministrazione vorrebbe rinchiudere dentro un mercato chiuso al di fuori delle aree urbane. In questo senso, è essenziale comprendere il processo di trasformazione della polizia municipale in “polizia politica cittadina”, ben definita da Salvatore Palidda come “la forza che incarna e assicura il potere sociale dei cittadini nei confronti dei non cittadini”. Nuovi armamenti e nuovi poteri per un corpo che è, nei fatti, l’appendice di un sistema di controllo che parte dall’alto. Un’evoluzione iscritta dentro una complessiva mutazione delle forme di governance in cui i “vigili urbani” finiscono per diventare ingranaggi di un macchinario di controllo con una chiara connotazione di classe.
Manunza osserva e racconta “dal basso” i gangli di società in mutamento costruendo un racconto avvincente ma anche denso di elementi che devono trovare spazio nella riflessione politica quotidiana puntando a sovvertire convinzioni consolidate, o opportunamente alimentate dalle élite. “Non so se c’è stata una lotta di classe mondiale. Ma se c’è stata l’abbiamo vinta noi”, ha dichiarato il magnate della finanza Warren Buffet. I segni di questa vittoria sono visibili nella nascita di nuove forme di povertà, di masse d’individui messe ai margini dei processi produttivi dentro i quali trovano posto solo come riserva di manodopera a basso costo. Le cicatrici di quella vittoria sono visibili nella creazione di aree urbane che circondano le grandi città per ospitare nuovi eserciti di subalterni, a Istanbul come in Grecia, ovunque vi sia un tessuto sociale povero e senza diritti da cui estrarre profitto senza distribuire ricchezza. Un destino comune delle città in cui l’elemento dissonante, in un processo che pare al momento senza alternative, è proprio l’oggetto di indagine di questa ricerca, l’etnos, la materia vivente che abita l’informe provando a organizzare propri spazi di autonomia.
È rilevante che questa analisi abbia come terreno d’indagine il Mediterraneo, sconvolto da guerre e dalla tragedia delle migrazioni di massa. Uno spazio geografico, ma anche culturale e politico, attraversato in questi anni anche da numerosi fuochi di rivolta, le “primavere arabe” con le loro enormi contraddizioni, le rivolte urbane tunisine, le mobilitazioni turche cui il governo di Erdogan ha risposto con una decisa svolta autoritaria, ma anche le mobilitazioni napoletane nate intorno a temi come il “biocidio” o il diritto alla casa. Fermenti che testimoniano, sotto la coltre delle direttive del comando capitalistico, un’energia viva nelle classi dominate che apre interrogativi e riesce a porre domande e speranze proprio quando sembrano venir meno le aspirazioni alla ribellione, ponendo una nuova questione meridionale, più ampia, estesa allo spazio mediterraneo lungo il quale si muovono popoli e idee. (antonio bove)
Leave a Reply