Ermanno Rea è morto il 13 settembre 2016, qualche giorno prima che uscisse in libreria il suo ultimo romanzo, Nostalgia (Feltrinelli, 275 pp., 18 euro), che accanto a Mistero napoletano, La dismissione e Napoli Ferrovia va a chiudere una tetralogia sulla città composta nel giro di vent’anni, frutto di un progressivo addentrarsi nei suoi odierni dilemmi piuttosto che della fredda pianificazione di una saga letteraria. Difficile quindi leggere l’ultima opera senza tener conto dei libri precedenti. Rea, infatti, è stato tra i pochi narratori di questi anni a legare in maniera strettissima la descrizione del presente all’indagine sugli eventi passati, sulla complessità della stratificazione sociale, sulla natura dei soggetti in lotta per il potere e per l’emancipazione. E lo ha fatto da letterato, prendendo sempre le mosse dalle vicende di singoli personaggi, per proiettare con sapienza quegli eventi minuti in un paesaggio sociale, economico, politico, via via più complesso con il procedere della narrazione.
Rea ci lascia questa sorta di metodo, questo sì applicato con premeditazione e coerenza, che non è del tutto originale ma ha il pregio di mostrarsi con chiarezza nei libri appena citati, dove la scrittura diventa un mezzo per raggiungere la conoscenza, un pungolo ad agire, a interrogare l’altro da sé, a mettere in discussione i propri presupposti e quelli del lettore.
Rea ci lascia però anche delle domande aperte su quale sia la forma più adeguata per questo tipo di indagine letteraria. Se in Mistero napoletano, infatti, il diario della ricerca intrapresa per illuminare il destino di una militante comunista degli anni Cinquanta consentiva di aprire squarci sulla città del presente, che era quella dei primi anni Novanta, dalla Dismissione in poi Rea opta decisamente per la forma romanzesca, con la stessa lingua avvolgente e il ritmo compassato che ritroviamo anche in Nostalgia, e che ci lascia però anche stavolta l’impressione che questa scelta di esporre i fatti in maniera “classica”, spesso non riesca a contenere tutta la molteplicità di temi, voci e fonti, lasciandoci il desiderio che in futuro, seguendo le stesse coordinate, qualcuno sperimenti altre strade, faccia altri tentativi stilistici per tenere insieme in maniera più ardita materiali così eterogenei.
Il narratore di Nostalgia è un cardiologo in pensione, ultrasettantenne, comunista, ateo ma frequentatore della basilica di Santa Maria della Sanità, la cosiddetta chiesa del Monacone. Il suo resoconto, dichiara lui stesso nelle prime pagine, è anche il romanzo collettivo di una comunità, quella riunita attorno alla figura carismatica del parroco del Monacone, don Luigi Rega. La storia riportata dal medico è quella di Felice Lasco, nato e cresciuto nel rione Sanità, ma costretto, a sedici anni, in seguito a un omicidio che si consuma sotto i suoi occhi, a fuggire dal rione per farvi ritorno solo quarantacinque anni dopo. È la storia di un’intensa, breve amicizia, confinata nel tempo dell’infanzia e della prima adolescenza, tra lo stesso Lasco e Oreste Spasiano, detto Malommo, nomignolo irridente affibbiatogli durante l’infanzia che poi gli resterà appiccicato con ben altre sfumature nell’età adulta.
Siamo negli anni Sessanta, un’epoca in cui in città, e in quel rione in particolare, si concentra la quasi totalità della produzione di guanti su scala nazionale; negli appartamenti, nei bassi, negli scantinati, numerose donne, ma anche giovani, vecchi e bambini si fanno carico dei singoli segmenti del processo produttivo; d’estate, per sottrarsi al caldo soffocante, vengono portate nei vicoli, all’aperto, le macchine da cucire. Povertà e malaffare restano in disparte – annota il narratore, che già conosce il futuro –, in attesa del loro turno. Quando Felice tornerà nel rione, ai giorni nostri, quelle piaghe avranno ormai preso il sopravvento.
“Ma come si fa – scrive Rea, coerente con la sua visione – a raccontare la tragedia di Felice Lasco senza tener conto dello scenario in cui si è svolta; e della storia stessa, plurisecolare, di questo scenario?” – una storia che in fin dei conti risale alla fondazione della città. Bisogna allora accennare alla nascita dei cimiteri, delle catacombe sorte fuori le mura, delle chiese, di un intero quartiere che ha “la forma di un cuore”. Ed è necessario qua e là citare brani di altri libri, di altre branche del sapere, dal seicentesco canonico Celano al contemporaneo Italo Ferraro, storico dell’architettura, con il suo monumentale Atlante della città storica ancora in corso di pubblicazione. Il cardiologo-narrante spende la sua giovinezza tra l’ospedale San Gennaro, l’abitazione materna dove visita gratuitamente i malati e la sezione locale del partito comunista, di cui un musulmano di origine libica, Rashid Kemali, è il segretario. All’epoca la Sanità è un “quartiere rosso”, pare incredibile ricordarlo: ottocento iscritti alla sezione Stella, numerose sottosezioni e soprattutto l’attività delle cellule, a cominciare da quella dell’ospedale San Gennaro.
Perché finisce l’epoca dei guanti? Forse perché i comunisti reclamano pubblicamente diritti e legalità? Rea fa ricordare al suo medico la battaglia per i diritti di lavoratori e lavoratrici nell’autunno del ’69. Lo sciopero organizzato dai comunisti ebbe successo, ma da quel momento in poi le cose non fecero che peggiorare. La moda divenne seriale, le fabbriche di guanti chiusero o si trasferirono altrove, cambiarono i gusti e gli stili di vita; infine la concorrenza cinese, a metà degli anni Novanta, spazzò via quel che restava degli insediamenti produttivi.
Felice Lasco si ritrova proiettato, quasi da un giorno all’altro, verso Beirut, la capitale del Libano, sulle orme di uno zio, uomo di fiducia di un’impresa di costruzioni del nord Italia. Poi si stabilirà al Cairo, in Egitto, non prima di aver percorso l’Africa nera in diverse missioni per conto dell’azienda. Farà carriera, tornerà al Cairo benestante e appagato, accanto a una donna a cui si è legato dai tempi del Libano, ma in realtà roso dal tarlo di quel peccato originale, il fatto di sangue di cui sente di condividere la responsabilità con l’amico di un tempo, un raptus di violenza che ipotecherà una vita intera. Alla fine della sua vita Felice tornerà indietro, al punto di partenza, inizialmente con l’obiettivo di prendersi cura dell’anziana madre e in seguito per provare a ricomporre i frammenti della propria identità ripudiata.
Il quartiere che ritrova – Felice lo capisce in fretta – è in pugno a una gioventù violenta e irrazionale. “La Sanità è morta”, gli dice un vecchio che inaspettatamente lo riconosce durante uno dei suoi vagabondaggi per il quartiere. Scorribande di motorini, scontri a fuoco, droga, proiettili vaganti. Felice individua, proprio grazie al vecchio, una sorta di riparo verso la crudezza di quel contesto. Nella comunità di don Rega, infatti, tutti i segni negativi del rione vengono ribaltati nel loro opposto: il disordine e la sguaiatezza si ricompongono nell’eleganza dei monumenti; il chiasso delle strade diventa silenzio raccolto nelle basiliche poste dalla Curia sotto la giurisdizione di don Rega; la violenza dei gesti ha il suo rovescio nella costruzione di piccole imprese cooperative, in cui i giovani che si sottraggono (o sono sottratti) al richiamo della camorra, trovano accoglienza e scoprono vocazioni.
Il parroco della Sanità è il motore primo di questo mondo parallelo. E la storia di Luigi Rega va raccontata al pari di quella del rione. Parroco della Sanità dal 2001, figlio ribelle di un imprenditore, percorrerà le orme del padre da una posizione inedita, convincendo le gerarchie ecclesiastiche, ma soprattutto mecenati ed enti di assistenza, a sostenere i suoi progetti sociali, recuperando a nuova vita ed efficienza beni e risorse della Chiesa, trasformandoli in occasioni di lavoro e di guadagno per i giovani del quartiere. Alla domanda se la cultura, l’arte, i monumenti possono produrre ricchezza materiale, l’esperienza di don Rega serve a Rea per rispondere in senso decisamente affermativo.
“La Sanità è un’isola, separata dall’esterno ma senza separazioni all’interno”, scrive Rea. Per sfuggire alle trappole di una struttura siffatta, don Rega raccomanda il viaggio, l’esperienza in terra straniera, ai suoi giovani parrocchiani. Come salvarsi? Viaggiando, dice il parroco. Ma l’analogia con i vagabondaggi africani del protagonista è impossibile. Il viaggio dei discepoli di don Rega è temporaneo, formativo, fruttifero. Quello di Felice Lasco è invece una fuga senza fine; e senza la prospettiva di tornare, pena la morte.
La figura di don Rega è ricalcata su quella di padre Antonio Loffredo, il noto parroco della Sanità, che Ermanno Rea ha frequentato – come sua prassi – nella fase preparatoria del romanzo. Le iniziative nate intorno al vero prete della Sanità hanno rappresentato in questi anni il controcanto, sia effettivo che simbolico, alla deriva del quartiere. Non è un caso che le esperienze di accoglienza turistica e la valorizzazione del patrimonio monumentale siano state avviate in tempi non sospetti proprio nel rione, prima che si formasse l’attuale bolla turistica e che tali esperienze si generalizzassero nella città.
La Sanità del presente, quella della cronaca nera, dell’uccisione del sedicenne Genny Cesarano, della messa fuori dalla basilica e della successiva fiaccolata contro la camorra promossa dai preti del rione – c’è anche questo nel libro di Rea. Si narra poi di un ambizioso progetto di riqualificazione, proposto da don Rega e respinto da non meglio precisati notabili, imprenditori e politici che Rea rappresenta come gente arretrata, d’altri tempi. La chiave di volta, anche per il vecchio comunista che racconta (sia esso il cardiologo parrocchiano o lo stesso Rea) pare diventata insomma l’impresa culturale, e non più la lotta per i diritti. Saranno i preti buoni e gli imprenditori illuminati che salveranno i bravi ragazzi senza futuro, e non più le lotte di popolo? Saranno i viaggi, o in casi estremi la fuga, a salvare i ragazzi di strada da un destino già scritto?
Forse qualche dubbio rimane allo stesso Rea, se è vero che accanto all’inevitabile, tragica risoluzione della vicenda d’amore e d’odio tra Felice Lasco e Oreste Spasiano, il libro ha un finale che riguarda la stessa comunità del Monacone: un vibrante discorso del prete alla sua gente riunita nella basilica – parole di ribellione contro la dittatura della finanza, contro il capitalismo, contro il dio della rassegnazione, e per una Chiesa disubbidiente, estremista, orizzontale – da interpretare forse più come un’invocazione del narratore, come una sua proiezione, che come un richiamo a fatti di cronaca realmente accaduti. (luca rossomando)
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