da: Lo stato delle città (n.3 / ottobre 2019)
In una delle decine di mailing list che affollano le caselle postali di chi si barcamena tra master, dottorati e assegni di ricerca, è apparsa di recente l’ennesima “call for papers” sulla crisi climatica. Chiedeva ai geografi di scrivere contributi su come dovrebbe cambiare la cartografia della terra, ora che le catastrofi sembrano avere il sopravvento sulla continuità territoriale sottintesa a ogni mappa. Con gli articoli raccolti, come sempre, si sarebbe confezionato un numero speciale di una rivista scientifica. Un membro della lista ha risposto chiedendo quello che molti non riescono più neanche a pensare: ma è davvero questo il modo migliore di usare il nostro tempo prima del collasso ambientale?
Gli autori della call hanno risposto con una lunga mail auto-assolutoria, che naturalmente evitava di menzionare il cuore della questione; cioè che curare una raccolta di articoli fa aumentare il punteggio nelle classifiche della rilevanza scientifica, e quindi le opportunità di carriera o di finanziamento per gli autori. Nessuno dubita della loro buona fede: scrivere della crisi climatica sembra quasi un modo per combatterla, e scambiare opinioni informate su temi rilevanti è un piacere per tutti, al di là del tornaconto. Inoltre le riviste scientifiche accettano facilmente proposte su temi che sono spesso distorti sui media mainstream, come il clima, le migrazioni, l’accesso alla casa, la turistificazione delle città. Le case editrici e i dipartimenti universitari le usano per legittimare la loro produzione scientifica e così aprono spazi per lavorare su temi importanti. Naturalmente si parla quasi sempre di lavoro non pagato; ma il risultato è che attivisti e attiviste esperte di questi temi sono apprezzate da molti dipartimenti universitari. Qualcuno ha fatto notare che se fino agli anni Settanta i militanti politici erano tutti ricercati, adesso sono tutti ricercatori.
L’università ci permette di contare su uno stipendio per qualche anno, lasciandoci studiare i nostri temi e quasi senza porre limiti alla nostra militanza. Ma la vita universitaria non porta via solo il nostro tempo, come un lavoro qualunque; ha anche altre conseguenze. I libri e gli articoli che produciamo per l’università sono inaccessibili al pubblico. Impariamo a scrivere per riviste che sono lette solo da chi ci scrive. Ma soprattutto, le università cercano di parassitare le nostre reti di fiducia, sviluppate durante anni, trasformandole in informazioni, e non tutti riescono a proteggerle a sufficienza. Un esempio. C’è una rete di ricercatori e attivisti di diversi paesi che si riunisce ogni anno per discutere delle occupazioni abitative e sociali in vari paesi. L’obiettivo è produrre lavori divulgativi, raccontare i contesti, confrontarli e parlarne al di fuori del mondo accademico. A un certo punto, un gruppo di membri più legati all’accademia ha ottenuto un finanziamento per una ricerca, e dopo anni di lavoro è uscito un libro sulle occupazioni, pubblicato per la casa editrice americana Palgrave. Il libro raccoglie le esperienze di molti membri della rete, che hanno faticato per tradurre le loro riflessioni e quelle delle loro compagne in un linguaggio adatto a Palgrave. Alla fine, la casa editrice l’ha messo in vendita a novanta dollari.
Un membro della rete ha citato questa frase del geografo Don Mitchell: “È il momento di smettere di vedere i diversi ruoli che giochiamo nei movimenti sociali come una separazione tra attivisti e accademici, e cominciare a vederli come un’importante e necessaria divisione del lavoro”. Questo è giusto, e dovrebbe essere ovvio; ma sappiamo anche che la divisione del lavoro produce la distribuzione iniqua dei mezzi di produzione, e questo spinge facilmente alcuni a riprodurre gli squilibri di potere. Un certo tipo di pratiche produttive garantisce profitti a chi ha il monopolio delle risorse (in questo caso, dipartimenti e case editrici): chi è in grado di accedere a queste pratiche ottiene potere. Come sempre, quando c’è il potere, si pensa di poterlo usare e invece si viene usati.
Un antropologo californiano, Charles Hale, che era in Nicaragua durante la rivoluzione sandinista, a un certo punto doveva decidere se tornare negli USA a fare il dottorato oppure rimanere lì a lottare. I suoi compagni lo incoraggiavano: vai a formarti, poi metti quello che hai imparato al servizio della rivoluzione. La conoscenza dev’essere portata dall’alto verso il basso, non dal basso verso l’alto. Ora è preside della facoltà di scienze sociali all’Università di Santa Barbara, con dodici dipartimenti e migliaia di studenti da governare. Scrive articoli bellissimi sulla “ricerca attivista”, che danno coraggio a chi sta iniziando; è stato consulente per una causa importante sulle terre indigene della costa atlantica, e sicuramente nelle lezioni fa passare messaggi combattivi. Però la conoscenza è andata dal basso verso l’alto, dalla periferia al centro.
Un mio amico che lavora per una grande università americana, da un decennio studia una città portuale della Sicilia. Ha imparato tre lingue per fare questa ricerca, e ha capito benissimo qual è il rapporto tra Cosa Nostra e gli scafisti che portano in Italia i migranti. Lo ha scritto, in inglese e per delle riviste a pagamento; gli ho detto tante volte che questa cosa non c’è nel dibattito pubblico italiano, che sarebbe importante farla uscire, che i movimenti contro le frontiere potrebbero spostare l’attenzione pubblica dalle Ong alla mafia, ribaltare tutta la polemica. Lo sa, ma non ha tempo di scrivere in italiano e per le riviste che leggiamo noi.
Tranne casi rarissimi, quanto più si fa carriera, tanto meno si riesce a fare ricerca e dialogare con il resto del mondo. Basta guardare le persone che conosciamo all’università, la spirale di auto-sfruttamento e precariato che le obbliga a scrivere cose che non leggerà mai nessuno, a imparare un linguaggio che serve non per comunicare ma per legittimarsi, quando non per far avere finanziamenti alle loro università. Spesso scrivono articoli che resteranno di proprietà delle grandi case editrici, che non lasciano loro neanche la libertà di condividerli. Tutte queste energie intellettuali nutrono le corporazioni editoriali e svuotano le reti di amicizia e solidarietà. Dovrebbero tornare ai movimenti da cui provengono, che invece sono risucchiati dall’azione, dall’urgenza, e dove spesso è faticoso sviluppare analisi complesse, di lungo termine. Mentre le università parassitano i movimenti, anche i movimenti cercano di legittimarsi, o di difendersi, attraverso la conoscenza, finendo spesso per mimare le università, con i panel, i cartellini con i nomi, i relatori. Ma queste sono strutture pensate per l’auto-promozione, non per il pensiero collettivo; e non certo per stimolare all’azione.
C’è una fase nel momento della formazione di un ricercatore o ricercatrice in cui è ancora possibile ottenere degli articoli belli e delle analisi utili. Questa fase in genere si chiude poco dopo il dottorato. Nella fase in cui riusciamo ancora a scrivere liberamente, dobbiamo fare di tutto per mantenere aperti grandi spazi di lavoro al di fuori dalla macchina dell’accademia; scrivere il più possibile per i siti e le riviste di divulgazione e di movimento, per le case editrici indipendenti, tradurre in tutte le lingue che sappiamo; dedicare a questo più energie possibili, ma dimenticando tutto quello che abbiamo dovuto imparare per l’accademia, ripulendo lo sguardo dalle convenzioni, la lingua dai gerghi, dai cliché. La ricerca ci porta in posti dove non va nessuno, ci fa parlare con persone che nessuno conosce, ci fa vedere dinamiche sociali fondamentali. Dobbiamo raccontare cosa abbiamo visto, cosa ci hanno detto, cosa abbiamo capito. Certo, bisogna dire chi siamo e cosa facevamo lì, ma senza indulgere nell’auto-narrazione, nel relativismo. Dobbiamo costruire il più velocemente possibile una narrazione seria, politicamente schierata, complessa, anche se non completa, della società, e abbiamo bisogno di tutte le energie disponibili. Non facciamocele rubare. (stefano portelli)
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