Quello che segue è il secondo di una serie di reportage dall’Amazzonia a cura di Francesco Torri. Potete leggere il primo (Una macchia di petrolio che non va via. Reportage dall’Amazzonia ecuadoriana) cliccando qui.
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«Ci stanno lasciando morire come animali», mi ha detto la leader indigena e attivista ambientale Ruth Alipaz durante un’intervista. La sua comunità, come molte altre nella riserva naturale di Madidi, in Bolivia, sta soffrendo per i gravi impatti dell’estrazione dell’oro. Da decenni si batte per preservare quella che è considerata la riserva naturale più biodiversa del mondo, dove vivono popolazioni indigene non contattate, che ospita 333 specie di pesci e dove, tra il 2015 e il 2018, sono state scoperte trentacinque nuove specie animali. Tuttavia, gli interessi coinvolti nel business dell’oro sono forze difficili da combattere, che coinvolgono una vasta gamma di attori statali e non statali, reti di corruzione, illegalità e violenza. Non c’è da stupirsi, se si considera che la Bolivia è uno dei maggiori esportatori d’oro a livello mondiale e che il settantadue per cento di questo oro proviene dal dipartimento di La Paz, dove si trova la riserva naturale di Madidi.
INVESTITORI ILLEGALI
La maggior parte delle attività di estrazione dell’oro nella zona di Madidi si svolge nei comuni di Apolo, Mapiri, Guanay e Mayaya. Questi si trovano dove le Ande si tuffano nella foresta amazzonica, sulle rive del fiume Kaka, un affluente del grande fiume Beni. Qui la febbre dell’oro è iniziata negli anni Settanta ed è ancora in piena espansione. Qualità e quantità del prezioso materiale non sono oggetto di discussione ed è per questo che solo nel dipartimento di La Paz ci sono quasi mille cooperative attive che estraggono oro. L’ottantacinque per cento di queste cooperative, però, opera senza licenze ambientali, il che significa che probabilmente stanno violando gli standard ambientali e che non sono soggette a controlli governativi.
Ma il business è ancora più losco e coinvolge diversi attori statali e non statali. In Bolivia, da quando Evo Morales ha dato vita al MaS (Movimiento al Socialismo), un partito politico presumibilmente anti-imperialista e socialista che governa la Bolivia dal 2006, le cooperative minerarie sono su un piedistallo. Da quell’anno al 2017, infatti, il loro numero è raddoppiato, raggiungendo le 1.816 unità. Un punto di svolta si è avuto nel 2014, quando è stato approvato il controverso codice minerario Ley Minera 353. Da allora le cooperative godono di un regime fiscale favorevole, in cui l’unica imposta che devono pagare è una royalty compresa tra l’1 e il 2,5%.
Le compagnie nazionali, invece, pagano royalties molto più alte, a seconda della quantità estratta, e oltre a questo pagano quasi il quaranta per cento di tasse al governo. Inoltre, le cooperative sono sovvenzionate con crediti dal FOFIM (Fondo de Fomento Por la Mineria Cooperativista). Se si considera che solo le imprese e le cooperative nazionali possono richiedere una concessione per l’estrazione dell’oro, si capisce perché l’ottantanove per cento dell’oro prodotto in Bolivia provenga da cooperative.
Tuttavia, nonostante la loro condizione privilegiata, le cooperative spesso non dispongono del capitale necessario per portare avanti le attività estrattive e si vedono costrette a stipulare contratti svantaggiosi con investitori stranieri. Solo il venti per cento delle entrate totali viene lasciato alle cooperative, che in cambio ricevono macchinari pesanti, mercurio, benzina e draghe necessarie per l’estrazione intensiva dell’oro. Tuttavia, questa pratica viola la legge boliviana, che all’articolo 151 del codice minerario (Ley Minera 353) impedisce alle cooperative di stipulare contratti con società straniere. Ma la mancanza di controllo da parte del governo e la sospetta corruzione delle autorità regionali permettono alle compagnie straniere di operare indisturbate e di continuare a beneficiare delle condizioni fiscali privilegiate e del regime legale delle cooperative, oltre che della loro possibilità di accedere a nuove aree da esplorare e sfruttare.
Nelle Madidi, la maggior parte di questi appaltatori stranieri illegali sono cinesi e colombiani. Risalendo il fiume Kaka su una piccola canoa azionata da un motore rumoroso, è sorprendente contare circa trenta draghe in poche ore. La maggior parte di esse ha nomi cinesi e lavoratori cinesi e opera per aziende come Tiankay e Fengxiang, le più attive sul territorio. Le loro macchine operano giorno e notte senza sosta, estraendo quantità elevatissime. I minatori d’oro artigianali sono autorizzati da queste aziende a lavorare solo un’ora al giorno e riescono a malapena a guadagnarsi da vivere con il loro lavoro.
Tuttavia, la maggior parte della popolazione locale rispetta questi attori stranieri, convinta che stiano generando ricchezza per la regione. Mayaya era solo un agglomerato di case di legno, ora la maggior parte degli edifici è in cemento, ci sono ristoranti e bar, mercati e taxi che collegano il villaggio alla strada per La Paz.
Ma probabilmente non tutti sanno che ciò che viene lasciato ai comuni è una piccola parte della vera ricchezza che queste aziende stanno generando. La federazione delle cooperative minerarie Fecoman ha dichiarato che il sessanta per cento dell’oro estratto nel dipartimento di La Paz viene venduto illegalmente al mercato nero. Questo, sommato alle royalties ridicolmente basse che le cooperative pagano, significa che il business dell’oro non contribuisce affatto allo sviluppo economico del paese.
ESTRAZIONE INTENSIVA
La ricchezza che l’estrazione dell’oro potrebbe generare, e che la popolazione di Mayaya sta sperimentando, è temporanea, mentre i suoi impatti socio-ambientali possono durare per sempre. Dal punto di vista sociale, l’estrazione dell’oro può portare a conflitti tra minatori e comunità locali, traffico di droga, prostituzione, mancanza di sicurezza e criminalità; ciò è dovuto soprattutto al cambiamento radicale che apporta all’economia di una regione, garantendo a tutti un facile accesso a grandi somme di denaro. Dove le condizioni di vita sono peggiori, l’estrazione illegale dell’oro funziona come una calamita. Solo nel 2014, in Bolivia c’erano 45 mila persone legate a questa attività. Tuttavia, questo si traduce raramente in un’effettiva crescita della comunità, poiché il denaro generato non viene utilizzato per investire in infrastrutture e progetti sociali. Al contrario, si destrutturano le economie locali diversificate, lasciando dietro di sé ancora più povertà.
Nella riserva naturale di Madidi, gli impatti sociali di questa attività sono fortemente presenti e visibili. Nella cosiddetta “strada della perdizione”, i bordelli sono gestiti dalla criminalità organizzata e coloro che vi lavorano sono per lo più minorenni. Molte provengono dalle comunità indigene vicine. «Arrivano grazie a false promesse di lavoro e poi sono costrette a rimanere con minacce e ricatti – racconta Sarit della fondazione Munasim Kullakita, che lavora per fermare il traffico di esseri umani nelle aree minerarie –. Ci sono anche ragazze che vengono mandate dai genitori, si sa che lì si guadagna bene… e altre che scappano da casa per andare a lavorare lì».
Un altro impatto tragico riguarda la salute. Quando ho visitato la comunità indigena Uyiyoquibo, dove vive il popolo Esse Ejja, ho capito quanto siano gravi le conseguenze dell’estrazione dell’oro. Il leader della comunità Lucho mi ha invitato a incontrare una donna a cui è stato riscontrato un cancro l’anno scorso. L’abbiamo trovata all’ombra della sua casa di legno, sdraiata sul pavimento e in lotta contro le mosche e il caldo torrido. Era pallida e magra e in mano teneva un pulcino che ogni tanto si coccolava. Intorno a lei, donne anziane erano sedute in silenzio e bambini giocavano con il viso pieno di fango. Quando ho incrociato lo sguardo della donna, i suoi occhi erano tristi e disgustati. Le sue labbra sorridevano quasi impercettibilmente. «Non vivrà a lungo», ha sussurrato Lucho. Quando ci siamo allontanati, mi ha spiegato che non avevano abbastanza soldi per curarla e che tutto ciò che potevano permettersi per lei era del paracetamolo.
Nella comunità altre donne hanno il cancro e alcuni uomini hanno altri tipi di malattie. Per esempio, ho incontrato un anziano che qualche anno fa ha perso l’uso delle gambe e non sa spiegare perché, o un bambino di dieci anni che non riesce a imparare a parlare o a scrivere. «Abbiamo sempre sospettato che queste fossero conseguenze della contaminazione da mercurio proveniente da Mayaya, Mapiri e Guanay, e lo studio condotto dall’Università di Cartagena ha confermato la nostra teoria. Hanno misurato i livelli di mercurio nel sangue di tutte le persone della comunità e i risultati sono stati allarmanti. Le parti per milione di mercurio trovate in più della metà della comunità erano sette volte superiori a quelle consentite dall’OIM. Alcune erano trenta volte superiori». Me lo dice Alex Vilca in un’intervista. È il presidente dell’associazione indigena Mancomunidad del Madidi che lavora per la difesa delle comunità locali. «È una triste realtà – continua –, ma non è sorprendente. Se continuano a usare il mercurio per estrarre l’oro, continuerà a contaminare il fiume, i pesci continueranno a mangiarlo e, poiché la maggior parte delle comunità indigene ha una dieta a base di pesce, mangeranno pesce contaminato. Questo li farà ammalare lentamente e alla fine li ucciderà». Così ho capito cosa intendeva Ruth Alipaz quando mi ha detto che stanno morendo come animali. (francesco torri)
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