«La fiumara è un libro aperto», esclama Arturo dopo aver mosso i primi passi lungo l’alveo secco della fiumara Laverde, nei pressi di Samo, in Aspromonte. Ascoltandolo penso che per comprendere le storie che ruotano intorno alla fiumara sia necessario innanzitutto conoscerne la lingua, saperne leggere i dettagli, essere in grado di decifrare le parole scritte sui sassi di granito levigato o sulle pareti di roccia a strapiombo che ci sovrastano stringendoci in una gola di straordinaria bellezza. Ma io, nata a Milano e residente nella provincia bolognese da anni, mi trovo in Calabria da meno di una settimana: non “parlo” quindi il linguaggio della fiumara, né quello dell’Aspromonte o delle montagne calabresi. Per addentrarmi tra le pagine del libro, decido allora di affidarmi ad Arturo, prestando attenzione agli aneddoti che inaspettatamente condivide e ai passi che compie su un terreno scivoloso e ciottoloso, mai uniforme e per questo difficile per chi è abituato ai marciapiedi o ai sentieri puliti del CAI.
Grazie alle conoscenze di Arturo, apprendo che i 64 mila ettari dell’Aspromonte sono irrorati da decine di fiumare che, a partire da Montalto (1.955 metri di altitudine), ridiscendono le pendici montuose raggiungendo la costa e il mare sotto forma di fiumi sotterranei; corsi d’acqua simili a torrenti alpini o appenninici, le fiumare non sono altro che fiumi dal corso solitamente breve e soggetti a grandi mutamenti di portata a seconda della stagione e del periodo dell’anno.
Laverde è una fiumara importante, tra le più note in Aspromonte ma non per questo molto battuta, a parte pastori e capre selvatiche, difficilmente si incontra qualcuno da queste parti. Per percorrerla nella sua interezza ci vogliono circa due giorni di cammino, ma occorrerebbe ridiscenderla da monte a valle, dal momento che il percorso è caratterizzato da cascate e discese tortuose difficili da affrontare in salita.
Guidati da Arturo e da suo figlio Mauro, passo dopo passo impariamo a leggere la storia della fiumara: la roccia metamorfica (principalmente dolomie e calcari) che da milioni di anni si trasforma a seguito dell’erosione del vento e dell’acqua ridisegnando i contorni di un paesaggio già irregolare e dai colori eterogenei; gli alberi di leccio e di frassino, i cespugli di oleandri che tingono le gole di lilla, i tre tipi di felci che crescono tra l’umidità delle rocce generando sontuosi tappeti verdi verticali; i muschi, i licheni, le sanguisughe presenti a volte nell’acqua dolce, i falchetti, le capre selvatiche di cui troviamo dei resti imputriditi sulla via del ritorno, le bisce d’acqua lunghe e nere, i cani selvatici che non vediamo ma che probabilmente ci osservano insieme alle martore e a piccoli roditori che compongono parte della fauna dell’Aspromonte. «Rinchiusa nella fiumara, c’è tutta la storia geologica della Calabria – commenta Arturo volgendo lo suo sguardo verso l’alto –. Sai, ho iniziato ad apprezzare le montagne grazie al soggiorno fatto a Torino. Ho vissuto lì dai venti ai ventisei anni, poi ho deciso di tornare e ho iniziato a interessarmi alle montagne. Non lo avevo mai fatto prima!».
Volgendo le spalle al mare, anno dopo anno Arturo esplora i sentieri poco battuti dell’Aspromonte. Guida informale, botanico, antropologo, esploratore curioso e camminatore loquace (tutti aggettivi che gli attribuisco io e che lui probabilmente rifiuterebbe con una smorfia), col tempo si innamora sempre più dell’Aspromonte e decide di condividerne la bellezza con chi, come lui, vede nella Calabria non solo e non tanto una lunga costa di sabbia e sale ma un territorio composto da roccia, fiumi, arbusti, boschi e monti.
Per una come me, amante delle Alpi del nord Italia, ritrovarmi in una torrida giornata di agosto a esplorare paesaggi montuosi in Calabria è una grande sorpresa; ciò che mi circonda è molto diverso dagli scenari e dagli odori a cui sono abituata, le pendici rocciose sono difatti molto brulle, instabili, al punto che quando la gola si stringe occorre accelerare il passo e lasciarsi alle spalle le sue rocce arancioni il prima possibile. E nonostante ci troviamo solo a trecento metri circa sopra il livello del mare, un’altitudine quindi più collinare che montuosa, la sensazione di isolamento tipica dell’alta quota torna a farsi sentire in più occasioni. Attraverso le sue acque gelide, i suoi silenzi apparenti e la fatica del camminare, la montagna emerge sovrastando definitivamente la presenza del mare.
Mentre ci addentriamo faticosamente all’interno della gola, il letto del fiume si stringe e il flusso d’acqua si fa via via più abbondante; a un certo punto una costruzione di pietra e cemento ormai in decadenza e parzialmente distrutta appare davanti ai nostri occhi. «Quella che vedete è una briglia – spiega Arturo –, è stata costruita tanti anni fa per impedire alle rocce e ai massi caduti di invadere completamente il letto del fiume. Aveva dunque una funzione di contenimento, ma come potete notare la forza dirompente dell’acqua ha vinto sulla pietra e sull’uomo».
Proseguiamo il cammino di buon passo, oltre a me ci sono circa una quindicina di persone, ma all’improvviso l’orizzonte diventa buio, il vento inizia a soffiare e una serie di tuoni spezzano il silenzio echeggiando forti nella gola. Siamo così costretti a tornare sui nostri passi in quanto una forte pioggia renderebbe pericoloso procedure, dal momento che le pietre poste sopra di noi potrebbero cadere senza nessun preavviso. Non è una scelta facile da compiere, ci sarebbe ancora così tanto da scoprire e da ascoltare. Dentro di me sento che vorrei restare, proseguire la risalita, guadare il fiume ancora e ancora, sostare sulle pietre calde per immergermi profondamente in questo luogo sconosciuto che non ha il sapore dell’umano nonostante qui, uomo e fiume siano legati a doppio filo da secoli. La fiumara, infatti, è stata un’importante risorsa per i contadini calabresi, nei suoi pressi erano presenti numerose attività economiche legate alll’irrigazione dei campi, al pascolo e allo sfruttamento energetico, grazie al quale fin dai primi anni del Novecento si è reso possibile il funzionamento di mulini e frantoi. In alcuni casi, la fiumara ha anche permesso la coltivazione del lino, della canapa e la macerazione della ginestra che, una volta bollita, subiva una lunga e faticosa lavorazione finalizzata a ottenere il filato.
Continuare a risalire la fiumara oggi proprio non si può. Tornando indietro affianco il fiume cercando di non perderne le tracce: metro dopo metro, il suo corso si fa sempre più esile fino ad arrestarsi improvvisamente in un punto anonimo del suo letto. Il fiume, però, non muore: si inabissa solamente, permea la roccia metamorfica cullandola dolcemente, scivola oltre la diga dismessa posta all’inizio del percorso e infine si tuffa indiscreto nel mare a decine di chilometri da qui. Inaccessibile alla vista, prosegue il suo cammino, e dentro il suo scorrere inesorabile restano racchiuse le storie di un mondo fatto di pietra, acqua dolce e montagna. (rita marzio)
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