«È avvenuta di fatto, non ho potuto scegliere […]. Ho conosciuto la contenzione nel 2010, ero “novizia” nell’ambito delle fragilità psichiatriche […]. In un tardo pomeriggio autunnale, inviata dal Servizio [territoriale] arrivai al SPDC [reparto psichiatrico ospedaliero] accompagnata. Dissero al mio accompagnatore di andarsene, che avrebbero pensato loro a me. Dopo un brevissimo, direi quasi inutile, colloquio con il medico di turno, uscii dalla stanza convinta di dover firmare o compilare la documentazione per rimanere in reparto. A quel punto, invece, quattro persone, quattro infermieri, mi hanno presa da dietro. Io mi sono accasciata sul pavimento, mi sono chiesta: “Cosa sta succedendo?”. Ero impaurita, smarrita […]. Non mi hanno detto niente e, di peso, mi hanno trasportato in una stanza. C’era un solo letto, c’era penombra, buio. Mi hanno distesa su questo letto e legata mani e piedi. Hanno chiuso la porta a chiave e sono andati via. […] Non ricordo quanto tempo sono rimasta vigile e sveglia nella stanza urlando: “Apritemi! Fatemi uscire!”. […] Ricordo solo che mi sono svegliata dopo uno o due giorni ed ero molto rintontita […]. Avevo il pigiama, non avevo più gli abiti con i quali ero arrivata in reparto. Mi sono interrogata sul perché fosse accaduto tutto questo. È molto difficile anche ricordare. Mi è stato detto dal medico che era stato un atto di tutela personale. Premetto che io non ho mai tentato il suicidio, né tantomeno verbalizzato di volerlo fare. Non mi sono mai posta in maniera aggressiva con nessuno, né in reparto, né col medico, né tanto meno nell’abitazione nella quale convivo col mio attuale compagno. Eppure, hanno detto che è stato un atto di tutela personale […]. Sono trascorsi molti anni da quel giorno, non ho mai avuto il coraggio di parlarne se non durante sette anni di sedute psicologiche, nel tentativo di rielaborare quell’accaduto e di cercare di capire dove fosse la mia colpa, o la mia non colpa, per cercare di farmene una ragione […]. Ci sono delle sere in cui faccio molta fatica a spegnere la luce sul comodino, vengo assalita dall’angoscia, dal ricordo che mi fa rivivere quelle urla, quella solitudine, quello smarrimento».
Queste le parole di Maria Rosa durante il seminario che sabato 10 aprile il coordinamento nazionale della Conferenza salute mentale ha dedicato al tema della contenzione. Sono parole che raccontano la sofferenza che la contenzione provoca in chi la subisce. Una ferita profonda, che rimane come segno indelebile nel proprio vissuto. La contenzione, nelle sue diverse forme – meccanica, chimica, ambientale – continua infatti a essere uno degli indizi più chiari di quel dispositivo che, riducendo la cura in custodia, riproduce l’orizzonte manicomiale nei reparti psichiatrici, nelle residenze per anziani, nelle comunità per persone con disabilità fisica e psichica, nelle comunità per minori o per persone con dipendenza, nei centri detentivi per migranti. Legare una persona mani e piedi a un letto non ha nulla a che fare con la cura, con la medicina, con la tutela dei diritti e della dignità delle persone più fragili, non è un’arte, ma un atto di forza contro una persona debole. È il segno della debolezza dei nostri servizi assistenziali e di salute mentale.
Eppure di questa pratica, su cui occorrerebbe interrogarsi ogni giorno, si parla poco e quando lo si fa non si usano mai le parole delle migliaia di persone che ogni anno vi sono costrette. Come nel recente libro di Paolo Milone, L’arte di legare le persone (che Einaudi ha pubblicato segnando una netta cesura con la propria storia di casa editrice che pubblicò e seguì il lavoro di Franco Basaglia), il dramma dei pazienti scompare, appena accennato sullo sfondo, al suo posto occupa la scena chi lega perché “non può essere altrimenti” e chiama arte questo operare senza mai interrogarsi fino in fondo sul dolore degli altri. Legare un sofferente nel chiuso di un reparto, senza tempo o regole, non è una pratica medica, ma il segno di un’esclusione e di un’incompatibilità, di una sconfitta e di un vuoto. Perché si chiede alle persone di adeguarsi alle logiche dei servizi e non ai servizi di organizzarsi in base ai diritti e ai bisogni delle persone. E sconforta, oggi, il consenso che questo punto di vista ottiene anche in ambienti che un tempo si sarebbero detti “progressisti”.
Eppure, di contenzione finanche si muore, oggi come ieri in manicomio. Di contenzione è morta Antonia Bernardini nel 1974, a seguito delle ustioni riportate per l’incendio del letto del manicomio criminale di Pozzuoli, sul quale era legata da quarantatré giorni di seguito, “Come Cristo in croce”. E, con modalità tragicamente simili, dopo quarantacinque anni Elena Casetto, diciannovenne, è morta per le fiamme che, nell’agosto 2019, hanno avvolto il letto di contenzione dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Di contenzione sono morti Giuseppe Casu nel 2006 nell’ospedale di Cagliari, Francesco Mastrogiovanni nel 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania. E a questo elenco si potrebbe aggiungere Andrea Soldi nel 2015, morto durante un violento Tso [trattamento sanitario obbligatorio] realizzato in una piazza di Torino (in questi giorni è stato pubblicato un importante libro sulla storia di Andrea con alcuni suoi scritti). Di contenzione si continua a morire anche in questi giorni.
Nel già ricordato incontro del 10 aprile viene segnalata la notizia della tragica fine di un sessantenne deceduto mentre era legato da diversi giorni nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Livorno. L’ex responsabile dei servizi psichiatrici della città toscana, Mario Serrano, una vita spesa per dare applicazione ai principi della legge 180, ha scritto una lettera aperta ai giornali: “Negli ultimi anni molte cose negative sono accadute nella salute mentale (sia regionale che aziendale), molte decisioni sono state prese fuori dal solco di una tradizione di cui eravamo andati fieri per tanti anni […]. Perché questo avvenga non è necessario che ci sia un piano occulto, basta che ci sia un cambiamento di cultura, una caduta di tensione etica e allora i diritti passano in seconda battuta, i pazienti perdono la centralità così faticosamente costruita/conquistata, le istituzioni si piegano a priorità diverse da quelle dichiarate: è il gap tradizionale tra il dire e il fare della psichiatria, quello che un tempo chiamavamo la Logica Istituzionale”.
A fronte di un lungo percorso di superamento di questa logica, spiega Serrano, negli ultimi anni, a Livorno, prima sono arrivate le sbarre alle finestre, poi è stato allontanato il responsabile protagonista dell’azzeramento delle contenzioni, quindi sono state reintrodotte le fascette in reparto, è stata sfrattata dalla stanza-biblioteca l’associazione degli utenti. “Poi c’è stato il Covid – scrive ancora l’ex direttore –, le contenzioni sono state prescritte come procedura standard (la banalità del male) per tutti i pazienti difficili da gestire, che ancora non avevano avuto l’esito negativo del tampone. Poi ci sono stati i corsi di formazione: non più per evitare ma per imparare a fare le contenzioni. Poi ci sono stati gli audit, ma questa volta non erano audit per i casi in cui c’era stata la contenzione ma per i casi in cui, in deroga al protocollo, la contenzione non era stata effettuata. E poi oggi… e non sappiamo ancora bene cosa”.
In attesa che la magistratura, forse, chiarisca l’accaduto, la Asl Toscana nord-ovest, come sempre in questi casi, ha replicato parlando di contenzione “resa necessaria a causa dell’aggressività del paziente”, di procedure “applicate correttamente”. L’ordine del discorso si riduce al concetto “è per il suo bene” (anche quando la contenzione viene applicata come misura meramente punitiva), riaffermando la deresponsabilizzazione etico-morale di una correttezza procedurale (che si vorrebbe spesso dimostrata attraverso l’adesione al profluvio di linee guida che spiegano come bloccare e legare le persone), riproponendo un campo di intervento istituzionale che riduce diritti fondamentali a pratiche amministrative e si sostanzia in forme di internamento che riproducono l’orizzonte morale asilare.
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