Un anno fa, dal 10 al 14 maggio, s’è tenuto a Torino l’Eurovision Song Contest. A un anno di distanza riproponiamo le voci di volontari e volontarie impegnate nel grande evento, che avevamo raccolto e pubblicato in un articolo sul numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città.
Le interviste sono state effettuate nella primavera del 2022 e ci sembrano documenti utili per provare a capire le motivazioni che giustificano il lavoro volontario e la natura di alcune mansioni svolte.
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A maggio Torino ha ospitato l’Eurovision Song Contest 2022, la gara musicale internazionale alla sua sessantaseiesima edizione. L’evento, organizzato dall’Unione europea di radiodiffusione (in inglese Ebu) e dalla Rai quale emittente ospite, è stato definito dalle istituzioni una “grande vetrina per la città”, promettendo un ritorno economico grazie a posti di lavoro e incremento del turismo. Le esibizioni sono state accolte nel Pala Olimpico di Torino: un biglietto per lo spettacolo della finale è costato da 150 a 350 euro (meno per le prove o le semifinali), mentre le trasmissioni sono state seguite da un pubblico di circa centosessanta milioni di spettatori. Eurovision ha impiegato circa seicento volontari tramite un bando della città di Torino. Le richieste sono state circa dodicimila.
Il ruolo strutturale dei volontari nei grandi eventi cittadini, consolidato fin dalle Olimpiadi del 2006, è stato criticato da una mozione di tre consiglieri di minoranza del Movimento Cinque Stelle, respinta il 27 aprile dalla maggioranza Pd (con Sinistra Ecologista astenuta). I firmatari appartengono al partito che ha governato la città fino al 2021 e che aveva accolto con entusiasmo l’ipotesi di ospitare il festival. L’oggetto della mozione era: “Eurovision Song Contest a Torino: la presenza dei volontari non mascheri il lavoro che deve essere retribuito”. Secondo la mozione, le attività di cui si sarebbero occupati i volontari richiedono “formazione specifica e spesso titoli di studio che si acquisiscono con tempo e dedizione”.
Nei mesi scorsi ho parlato con una decina di volontari di questo festival per capire che cosa li abbia spinti a partecipare e, soprattutto, quali mansioni abbiano svolto, a quali condizioni. Ho parlato soprattutto con chi ha lavorato con le delegazioni e nel backstage. A tutti loro è stata richiesta, durante il processo di selezione, una buona o ottima conoscenza della lingua inglese; i delegation host (i DH, gli “attaché”) erano scelti anche in base alla conoscenza della lingua straniera parlata dalla delegazione estera.
Per prima ho incontrato Barbara, DH della Polonia. «Dal punto di vista pratico – mi racconta – noi al mattino arrivavamo, prendevamo il programma della giornata e seguivamo la delegazione. Andavamo a bussare in camerino se erano in ritardo, gli stavamo dietro minuto per minuto, prendevamo l’appuntamento per la zona make up… Era divertente. L’idea era di avere tre volontari per delegazione, in modo che si potessero dividere la giornata, purché ci fosse sempre una persona con loro. Il problema della nostra delegazione è che sono arrivati in diciannove. Cantante, ballerine, cameraman, costumista, vocalist… Se alcuni stavano nel Pala Olimpico a fare le prove, il resto della delegazione era altrove, nella Bubble di solito [la struttura costruita appositamente per ospitare gli artisti e i DH]. Alla fine abbiamo deciso di rimanere sempre tutte e tre. Ci facevamo compagnia».
Barbara di professione è traduttrice. «Non stavo facendo assolutamente il mio lavoro. Non lo faccio gratis. Stavo facendo un’esperienza diversa. Noi ci appoggiavamo al desk, dove erano i lavoratori. Eravamo di supporto. Per esempio: la delegazione voleva un autobus per una certa ora e noi andavamo a chiederlo e a verificare se si poteva fare». Ancora, mi spiega: «Io l’ho fatto per me, più che altro. Ho un lavoro in cui posso permettermi sia di assentarmi che di non guadagnare per due settimane. È un privilegio, non lo so… però posso farlo. Le altre due ragazze [della delegazione] erano molto più giovani. Loro studiano, ed erano tentate di capire come fosse il mondo dello spettacolo, il funzionamento di un evento di questo tipo. Tanti avevano questa motivazione. È come fare uno stage, ti fa capire. Io, per esempio, ho ricevuto più di quello che mi aspettavo. L’ho vista proprio come un’opportunità. A me piace l’Eurovision, mi piace questo ambiente internazionale».
L’esperienza – per Barbara come per molti altri, positiva – è stata fatta come avventura personale, e d’altra parte la scelta di fare volontariato è pur sempre – almeno con riguardo a “termini e condizioni” – consapevole; il punto non è quello di giudicare i singoli individui. Mi sembra ora che le voci dei volontari si sovrappongano e si incrocino.
COMPENSO ESISTENZIALE
Valentina (nome di fantasia), trentaquattro anni, ha deciso di fare questa esperienza a seguito di alcune delusioni professionali. Arrivava da lavori nel campo del marketing, analisi di tendenze e comunicazione, con un passato in grandi enti del territorio, bancari e non solo, ambienti che tiene a descrivermi come insostenibilmente competitivi e misogini. «Nel mio momento di tristezza – mi racconta – ho dovuto prendere atto di questo periodo buio. Allora vedo il post della città di Torino che annuncia l’Eurovision e la ricerca dei volontari. Mi faccio due calcoli, mi dico: “Due mesi di stop dall’ultimo lavoro, e poi a maggio faccio questa esperienza e mi ricarico di energia”. Anche io penso che questo tipo di lavoro debba avere un certo tipo di corrispettivo. Io mi sono detta: “Se mi prendono a ricoprire quel ruolo lì, lo faccio”, perché era un’opportunità, mi dava un valore; non in denaro: umano, relazionale. Ma anche – avendo in precedenza lavorato nei grandi eventi – di respiro internazionale nel mio campo».
Davanti a un caffè, chiedo, anche a lei, delucidazioni sulle mansioni svolte. «Dovevamo essere a loro disposizione per qualsiasi necessità di mediazione con la città, con la stampa, con Ebu, con magari dei negozi e quant’altro; quindi andare in macchina con l’autista per prendere le attrezzature, oppure organizzare un tour nei posti più interessanti della città, anche per la Tv straniera, da riprendere. Abbiamo iniziato a prepararci su questo già prima del loro arrivo, fino a quando non siamo andati a prenderli in aeroporto, che è stata un’emozione bellissima. Il cantante della nostra delegazione ci ha permesso di entrare nel suo sogno insieme a lui. Non avevamo proprio dei turni, a differenza di altri volontari. Nel nostro caso, forse perché eravamo privilegiati dal fatto di stare a contatto con gli artisti, forse uno ha più facilità ad accettare certe condizioni. Per chi magari è stato a un infopoint, otto ore al giorno, sotto il sole, è ragionevole voler essere in qualche modo pagato. Le mansioni non erano tutte uguali, ma ho visto che c’erano tanti che non vedevano l’ora di mettersi a disposizione. Anche gli anziani, che facevano i volontari al Covid center, dove si poteva andare a fare i tamponi. Fin quando è una scelta personale penso che nessuno debba criticarti».
Maria, Erica e Melisa, sono rispettivamente spagnola, uruguaiana e argentina: la prima è in Erasmus, le ultime sono migrate a Torino da poco. Tutte sono grandi appassionate del contest dell’Eurovison e soprattutto per questo hanno deciso di partecipare come volontarie. Così Andrea, che mi dice: «Con altri amici Eurofan saremmo stati disposti anche ad andare a Roma o Milano: prenderci un mese e farlo». Anche Mikhail, DH per la Moldavia, è un appassionato del contest, dice di seguirlo dal 1999. «Quando hanno vinto i Maneskin, ho subito iniziato a sognare che l’Eurovision sarebbe stato a Torino. Dopo poco la sindaca Appendino ha dichiarato di voler ospitare l’Eurovision… Abita qua vicino, e ogni volta quando la incontro: “Chiara, grazie! Grazie!”. Noi eravamo con loro h/24, non eravamo solo volontari per la nostra delegazione, eravamo parte della famiglia: le cene, i pranzi, le serate, facevamo tutto insieme. Ho letto articoli riguardo al fatto che i volontari lavorano gratis. Non è così. In realtà stai lavorando, sì, e fai un bel lavoro, perché noi eravamo lì dalla mattina fino alla sera tardi. Ma facendo i conti… solo una maglietta costa sul sito dell’Eurovision 35 euro – hanno dato due magliette, una felpa. E i buoni pasto – anche lì da fare un conto… Il Comune ha regalato ai volontari un biglietto per le prove dello show che sarebbe costato, mi pare, sui 100 euro. Il punto è che noi sapevamo a cosa andavamo incontro. Non eravamo obbligati a stare sempre, era nostra la volontà di restare».
Questi ultimi aspetti ritornano nelle voci di diversi volontari. Il lavoro oltre gli orari stabiliti per proprio volere viene visto in termini di compenso esistenziale, come una “bella esperienza”, oppure si tiene conto dei vantaggi materiali. Mi dice Valentina: «Se uno poi va a vedere, tra i biglietti dell’autobus, il fatto di poter andare alle prove del concerto, il merchandising e tutti i regali che la delegazione ti lascia… alla fine, volendo monetizzare queste cose, c’è un compenso. E poi comunque c’è anche un risvolto professionale. Io sono in attesa che mi arrivi una lettera di referenze da due tv straniere, mi hanno detto che me la manderanno. Avevo deciso di vivere un’esperienza con più spensieratezza e ho riguadagnato anche la fiducia in me stessa».
Ho avuto l’occasione di parlare anche con Alessandra, volontaria nel ruolo di responsabile dei centoventicinque DH (tre per delegazione, più le riserve). Lei mi dice: «Lo fai per l’esperienza, più che per il gadget, però le magliette diventano un cimelio. E poi si creano dei rapporti umani interessanti, e delle volte anche dei rapporti di lavoro. Nel proprio curriculum avere fatto il volontariato serve tantissimo. Anche quando ho fatto le Olimpiadi: intanto per conoscere gente che arriva da tutto il mondo; se non hai avuto altre occasioni prima, è un elemento fondamentale della formazione».
Per Alessandra i primi contatti con il volontariato risalgono all’esperienza delle Olimpiadi 1992 a Barcellona, anche se solo in qualità di osservatrice interessata. In quell’anno sono stati impiegati volontari olimpici per la prima volta. In seguito, come architetta, ha partecipato alle Olimpiadi di Torino «dal dossier, alla progettazione di una parte del villaggio, e poi, naturalmente, facendo la volontaria». Alessandra fa parte di Volo 2006, una delle associazioni di ex volontari olimpici, che nel 2007 (tra l’altro, anno delle Universiadi) «decide di mettere a sistema quella che poi gli inglesi hanno chiamato la legacy, quindi l’eredità olimpica». Volo 2006 da allora «ha continuato a raccogliere intorno a sé dei volontari per collaborare – non solo in città ma anche in regione e in altre aree – a manifestazioni, sportive, culturali, sociali».
«Io parlo diverse lingue, dovevo coordinare i DH – spiega Alessandra –. Erano quasi tutti giovani. Avevo una chat, dalle sei di mattina cominciava a trillarmi il telefono e finiva verso le due di notte. È un compito che richiede flessibilità, conoscere bene la città e sapere a chi chiedere per risolvere un problema: raccogliere quello che non funzionava e coordinare tutti i rapporti tra settori. Il principio del volontariato è che lo fai se hai piacere di farlo. È una scelta: c’è chi prende le ferie e va al mare, e chi invece vuole incontrare gente da tutto il mondo».
Siamo in piazza Delpiano, sedute su una panchina all’ombra. Intorno a noi alcuni volontari del vicinato (che Alessandra fino a poco prima del mio arrivo stava aiutando) strappano e raccolgono erbacce, spazzano le gradinate che formano un piccolo anfiteatro in un angolo della piazza, sul retro di un supermercato. «Vedi – mi dice –, le persone mettono a disposizione il proprio tempo per la collettività, e anche perché vogliono far vedere al meglio la loro città. Il volontariato è un supporto, ma non si deve sostituire a una professionalità. Di gente che lavorava ne abbiamo vista tanta e, tra l’altro, bravissima. Il backstage era una cosa incredibile. Molte persone lavoravano per la Rai, ma altre sono state assunte per l’occasione. Ci hanno spiegato che era la manifestazione più complessa dal punto di vista organizzativo e più vista dopo i grandi eventi sportivi. È chiaro che la Rai non ha disposizione uno staff del genere. Quello che fa il volontario è rendere l’esperienza di chi arriva il più piacevole possibile».
I RAGAZZI DELL’ACQUA
Alessandra non sembra prendere in considerazione il fatto che anche nel backstage sono stati impiegati molti volontari. Io ho parlato con Andrea ed Emanuela. Le loro voci, con gradi diversi di entusiasmo, evidenziano tratti materiali dell’organizzazione. «Come Backstage Assistants si lavorava a contatto con le delegazioni, più delegazioni alla volta per accompagnare gli artisti, portare gli strumenti, eccetera». Andrea racconta in videochiamata. «Arrivavamo, collegavamo il nostro microfono (che ci metteva in contatto tra volontari) e si decideva show per show chi dovesse accompagnare quale paese – un paese soltanto ha richiesto di avere sempre la stessa persona. Una mezzora prima ti presentavi dicendo: “Io oggi sono il vostro assistente backstage, dovete dare retta a me, io vi porto, vi dico dove dovete andare e quando, vi darò i tempi, vi accompagno sotto e poi da lì sarete presi e portati direttamente al palco”. È anche una responsabilità, in un certo senso. La gestione, per esempio, di un attacco di panico, che è capitato… Le nostre mansioni erano queste. Dai camerini alla sala d’attesa, poi a mettere il microfono, poi il percorso era diverso se si trattava di una prova o di uno spettacolo. Accompagnavamo dietro le quinte, ecco. La suddivisione e la gestione erano fatte dai nostri backstage manager – volontari anche loro, se non ricordo male. Gente che aveva una capacità di organizzazione maggiore rispetto a noi altri, che magari aveva già fatto altro lavoro manageriale in un concerto o in un evento, persone più preparate».
«Io ho amici che si stanno specializzando in questo settore, vedono di cattivo occhio questa dinamica del volontariato, questo è un discorso che ancora oggi alimenta tra noi dei bei dibattiti», mi racconta Emanuela. «Eravamo un gruppo di circa settanta volontari. Avvicinandoci alla semifinale e alla finale, ci siamo resi conto che quello che facevamo era molto importante dal punto di vista dello scheduling e del timing dello show. E che probabilmente doveva essere svolto da esperti del settore. E quindi da lavoratori stipendiati. Perché a noi veniva data la scheda della giornata, quindi della turnazione delle persone che dovevano alternarsi sul palco, noi dovevamo avvisarle per tempo, dar loro i tempi nel vestirsi, portarli giù, nella fase di attesa, dove loro facevano un breve sound check, dopo di che li lasciavamo al manager Rai. Non era una cosa scontata, bisognava essere svegli. È stato un po’ più faticoso del previsto. Però eravamo felici… Far parte di questa cosa gigante è stato davvero prendere una boccata d’aria. Però spesso dimenticandoci che fossimo volontari. Per esempio, per i DH… quel taglio di volontariato è già diverso. Un giorno in cui pioveva, ricordo che una ragazza del desk è stata impiegata come porta ombrelli… Io non so come l’abbia presa. Ma i ragazzi del desk avevano ruoli molto flessibili, si adoperavano in base a quello che succedeva. Poi c’erano i portabottiglie. Ragazzi che si occupavano di assicurarsi che ci fosse sempre l’acqua nelle zone dove passavano gli artisti. I manager li chiamavano “i ragazzi dell’acqua”».
Anche Melisa, volontaria del gruppo del Delegation management office, mi racconta, con un bell’accento spagnolo, di mansioni flessibili: «Al mattino la prima cosa era sistemare i camerini per le delegazioni, controllare che ci fosse tutto – ovviamente non facevamo pulizie, ma preparavamo le cose che potevano servire. E mentre eravamo lì per controllare che tutto funzionasse bene, eravamo a disposizione se c’era qualche necessità».
Edoardo ha scelto di fare quest’esperienza anche per avere occasione di esercitare la lingua inglese. «Il mio è stato un ruolo particolare, perché non mi hanno assegnato a una squadra. Nella prima mail che ho ricevuto mi si diceva che avrei dovuto essere team leader dei Props, che sono quelli che portano gli oggetti in scena, sul palco, poi li tolgono… Però poi è uscita questa polemica rispetto al fatto che noi non eravamo assicurati. Quindi il mio ruolo, la prima settimana – non erano ancora arrivati i cantanti qua a Torino – è stato fare il figurante. La regia doveva fare delle prove con le inquadrature, con le luci… e quindi prendevano dei figuranti, dei volontari, e li mettevano a fare “i cantanti”. Non ero mai salito su un palco così grande, con tutte queste luci, i macchinari scenografici…».
Mentre parliamo, seduti al tavolino di un bar, incomincia un temporale estivo. Ci rallegriamo per l’ombrellone che ci copre, poi Edoardo riprende a raccontare: «Il figurante stava lì quattro o cinque ore. Poi magari ne “lavoravo” due, due e mezza – perché ci dicevano di arrivare magari un’ora e mezza prima. E questo è stato la prima settimana. Poi la seconda mi hanno messo in Viewing Room, una stanza dove gli artisti vanno dopo l’esibizione – e all’interno ci sono i tecnici delle luci, i tecnici del suono e c’è uno schermo; i cantanti guardano su questo schermo l’esibizione come verrà vista in Tv, con tutto il loro staff, e dicono: “No, questa inquadratura non mi piace, la voglio più dall’alto”; “Questa luce cambiamola, mettiamola di un altro colore…”. E io aiutavo questi tecnici – i cambiamenti si facevano tramite computer –; ovviamente per le cose base, come stoppare o fare ripartire il video, riuscivo a farle… È successo anche che dopo il lavoro in Viewing Room dovessi tornare a fare il figurante, quindi magari stavo dalle dieci di mattina fino alle sei-sette e poi dalle otto fino alle undici-mezzanotte sul palco. Vabbè, ci avevano detto di meno, però io più o meno l’avevo previsto, anche perché era segnato sul form di iscrizione che gli orari erano flessibili. Avevo messo in conto di prendermi queste due settimane. Gli ultimi giorni ho fatto backstage assistance, ero un jolly, se mancava qualcuno magari andavo io».
LO RIFARESTI?
Incontro anche Alis al tavolino di un bar, è molto giovane e la sua testimonianza mi sembra la più adatta a concludere la mia piccola ricerca. Alis ha vent’anni ed è alle superiori, inoltre lavora come scaffalatrice notturna. «Sono venuta a conoscenza del link per l’iscrizione per caso. Mi sono detta: “Proviamo. È un’esperienza bella, fa curriculum, stai a contatto con persone influenti”. Ho dato la disponibilità per fare la DH su tutti i turni, perché in quel periodo non lavoravo. Sono madrelingua romena. Accompagnavamo la delegazione, se avevano bisogno facevamo un po’ da traduttori, se c’era qualcosa che non andava entravamo in gioco noi. Eravamo in tre e potevamo gestirci i turni, ma in realtà, a meno che una di noi non avesse un impegno, si rimaneva lì tutto il giorno».
Alis mi fa notare che i “benefit” offerti come compenso non sono stati privi di criticità. Anche altre DH, prima di lei, mi hanno raccontato di come, nella Bubble – dove si trascorreva spesso l’intera giornata – mancassero spazi a disposizione dei volontari, e al bar interno un’insalata fosse più costosa del valore del buono pasto. Conveniva organizzarsi altrimenti per il pranzo e poi spendere i buoni altrove o per la spesa. Alis me lo conferma: «Verso la fine ci sono stati un paio di messaggi che un po’ minacciavano che ci sarebbe stato tolto il badge, perché i divanetti della Bubble erano per le delegazioni e noi non dovevamo stare li. Ma questo è accaduto perché noi DH e volontari non avevamo uno spazio nostro. Non tutte le delegazioni ti lasciavano stare con loro nel camerino, anche perché erano troppo piccoli… Poi, all’inizio, ci avevano detto che i buoni pasto non potevano essere usati nella Bubble e neanche nel ristorante interno, invece nei giorni dopo ci è arrivata comunicazione che si poteva. Quindi alla fine i ristoranti erano due. Io i buoni pasto li ho usati là. Ce ne hanno dati dieci, e poi altri cinque, quindi un buono per ogni giorno. Ma già solo per il pranzo, andavi a usare due buoni più un euro di tasca tua, perché il pranzo costava quindici euro, i buoni sono da sette. E magari anche chi non ha la macchina e doveva spostarsi con i mezzi… Ovviamente avevamo i biglietti giornalieri, ma durante la semifinale o la finale, che si è finito molto tardi, a una certa ora non ci sono più i mezzi e magari bisognava prendere un taxi, ma ci hanno dato un solo voucher taxi… Io abito in Barriera di Milano. Sono stata fortunata perché la mia delegazione aveva l’albergo proprio in Barriera, quindi partivo al mattino con loro e tornavo la sera con loro. Ma c’era anche chi veniva da fuori Torino».
Le ho chiesto se ripeterebbe la scelta e che cosa pensa delle critiche che sono state fatte all’impiego di volontari in questo evento. «Lo rifarei, perché alla fine è stata una bella esperienza. Vedi un po’ come funziona il dietro le quinte, stai a contatto con tante persone, si creano anche dei rapporti. Scopri anche tante sfumature degli artisti… come sono nella realtà. Ci hanno dato un biglietto per il Family Show, in un settore abbastanza vicino al palco, è stato bello. A quanto pare alcune esibizioni sono state fatte in playback, ci siamo rimasti un po’ male. Diciamo che le critiche ci possono anche stare. Ho letto: “Il volontario viene sfruttato”. Per quanto riguarda la mia mansione, posso dire di no, però ci sono state altre mansioni dove credo siano stati trattati peggio. Comunque io come DH mi aspettavo qualcosa di più. Non mi aspettavo di passare magari tutta la giornata in un camerino o fare avanti e indietro nella Bubble in maniera un po’ inutile. A me, dopo questa esperienza non è rimasto niente. Sono entrata in un modo e sono uscita con le stesse competenze con cui ero entrata. Però è stato bello il lato umano, poter aiutare, vedere come funziona».
Mi sembra che la voce di Alis sia la più lucida, perché non è la voce di una appassionata del festival o di una imprenditrice di sé stessa, non è pregna della retorica dei grandi eventi; è la voce di una giovane ancora non toccata dall’università. Da queste mie settimane di interviste, emergono forse alcuni spunti utili a considerare la macchina dei grandi eventi criticamente, non solo in relazione alla città e al suo modello di sviluppo spettacolare e turistico, ma anche in relazione al lavoro volontario e alla sua dimensione esistenziale. La quarta di copertina di un libro che attende la mia lettura (Sarah Jaffe, Il lavoro non ti ama) mi ricorda che il neoliberismo è anche un progetto di manipolazione delle emozioni. Si può quindi ragionare intorno a questi aspetti, intorno alla crisi del lavoro, anche a partire da Eurovision? “Torino, che spettacolo!”, si leggeva a maggio sugli azzurri manifesti affissi in città. (stefania spinelli)
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