Ora che la domenica è andata e con essa le elezioni e le partite di calcio, lo posso dire: ci avevo sperato. Non ci ho creduto neanche per un istante, ma speravo che Mélenchon passasse il primo turno. Non perché creda alle elezioni, ma perché cinicamente, mi ero preparato tutta una serie di pezzi giornalistici, fonti e lavori che ora non hanno più alcun senso.
Anche Angelo ci aveva creduto. È la persona più appassionata da questa tornata elettorale che abbia incontrato, nonostante non voti da trent’anni. Insegnante di italiano in un liceo parigino, si è trasferito in Francia quasi tre decenni fa. Da allora alle urne non si è recato manco una volta, contrario com’è al voto all’estero e non avendo mai acquisito la cittadinanza francese. Ieri ero a casa sua, con alcuni suoi ex-allievi. Rollava canne su canne mentre il suo gatto, Félix, cercava di risollevargli il morale. Sperava in un secondo turno Mélenchon-Macron, o Mélenchon-Le Pen.
All’annuncio dei primi risultati, è un disastro. Un coro di «Nooo!» si alza dal salotto, mentre Angelo bestemmia nel suo patois misto genovese-italiano-francese. Chiamo i compagni riuniti al Lieu Dit, un bar con vasta terrazza vicino a Ménilmontant e sento sullo sfondo, mentre parlo al telefono, i primi cori. Si muoveranno in manif sauvage attraversando i gas lacrimogeni e i cordoni di polizia fino a Bastille.
E pensare che al mattino di domenica, davanti alla sede di Mélenchon, a due passi dalla Gare du Nord, la speranza era tangibile. Curiosi, tossici, passanti, pusher si fermavano volentieri a fare due chiacchiere davanti al Belushi’s, là dove Mélenchon aveva spostato il suo quartier generale.
Li intorno, i voyou del quartiere erano molto contenti di questa tappa ricreativa, nonostante l’ingombrante dispositivo poliziesco schierato nei dintorni. Giornaliste in tiro, personaggi famosi, telecamere. Ma c’era qualcosa di più, c’era un certo rispetto. Ironico, certo, ma passando lì di fianco, i piccoli teppisti di quartiere dimostravano un vago interesse. Alcuni dicevano di aver votato, raramente svelavano per chi. Un tossico dall’aria imbarazzata mi ha confidato di aver votato Front National. Gli ho chiesto perché. «Non lo so. Non voglio parlarne. Non me lo chiedere», e ha girato l’angolo in direzione La Chapelle. Uccello del malaugurio col cappuccio tirato sul naso e la sigaretta succhiata, anche lui, visibilmente d’origine maghrebina, aveva messo la croce sull’unica candidata che quelli come lui li metterebbe volentieri in un altoforno. Forse è proprio per questo. Forse la gente vota Le Pen perché si odia, “si vuole male”.
Eppure lì intorno la vittoria era nella testa di tutti. Giornalisti, osservatori, staff. Due uomini d’origine straniera, uno maghrebino e l’altro nero, sulla quarantina, Michel e Bel, avevano votato Mélenchon. «Mi ha convinto perché sa quello che dice, e quando parla dice cose importanti», aveva detto Bel. Cosa ti ha convinto? «La sua idea di società». Nella sua idea di società, cosa ti ha convinto? «Perché parla bene».
Sacha è un altro che era appassionato, e che ora è distrutto. Un tempo era cameraman, girava video per gruppi rap come la Scred Connexion. Poi si è riconvertito all’informatica. L’ho conosciuto perché desideravo scrivere un pezzo sui gruppi di sostegno alla France Insoumise, il movimento di Mélenchon. Questi gruppi sono sparsi un po’ ovunque per la Francia. Sacha vive da vent’anni nel quartiere di Marx-Dormoy, nel diciottesimo arrondissement, tra La Chapelle e il Périphérique. «È un quartiere isola, chiuso dalla ferrovia per tre lati, con un unico sbocco sulla metro». Un quartiere complesso, immerso fra palazzine popolari e negozi vegan, sintomi dell’ondata della gentrificazione.
Sacha è convinto che Mélenchon sia un vero rivoluzionario. «Il suo obiettivo è la conquista del potere». Adesso si chiede se andare a votare al secondo turno per Emmanuel Macron. Sacha, che è un po’ paranoico, è convinto che ci sarà una grande guerra all’orizzonte. Mélenchon era per lui l’ultima possibilità per la “pace”.
L’avevo incontrato perché a Marx-Dormoy c’è un altro gruppo della France Insoumise, che si chiama Comité Autodéfense et Reconquête 18. François, ricercatore sulla quarantina, e la sua compagna, Keda, freelance, sono i due animatori del gruppo. Li ho incontrati in un bar del quartiere alla vigilia del primo turno, durante gli apéro insoumis che hanno chiuso la campagna elettorale di Mélenchon. Nel loro manifesto fondatore, scritto da François, si legge che il gruppo intende agire “per l’accoglienza decente dei rifugiati”, ma anche che sono “radicalmente in favore della laicità repubblicana”, e “militanti per la sicurezza locale basata sul rispetto della legge”. Dichiarazioni d’intenti quantomeno ambigue, in un quartiere dove convivono da decenni numerose comunità religiose e immigrate, dai sudanesi agli indiani e pakistani, dagli arabi ai maliani. Un quartiere che, secondo Sacha, è controllato da molto tempo dalla criminalità organizzata.
François e Keda sono arrivati tre anni fa. «Siamo una famiglia recomposée», ovvero hanno dei figli non in comune, «e avevamo bisogno di un appartamento più grande». Prima vivevano nel decimo arrondissement, non molto lontano, giusto al di là del boulevard de La Chapelle. Eppure già un altro mondo. D’altronde, ammette Keda, «noi non mettiamo i nostri figli nelle scuole del quartiere», che sarebbero di pessima qualità. Come molti parigini, fanno in modo di aggiustare le dichiarazioni di residenza per mandare i figli in scuole più reputate, nel quadro di un’istruzione pubblica votata al credo della competizione.
Il loro sostegno a Mélenchon non è casuale. Erano già nel Parti de Gauche nel 2012, quando Mélenchon raccolse un buon undici per cento. Sono le loro priorità a lasciarmi interdetto. Quando glielo dico, François risponde che «non c’è nessun motivo per cui il tema della sicurezza debba essere lasciato alla destra». Quando gli chiedo di specificare cosa intende per lotta al “degrado”, che qui si chiama proprété, François argomenta che non è ammissibile che sul Canal Saint-Martin, dove i giovani vanno a bersi le birre, abbiano messo i pisciatoi in plastica mentre a Marx-Dormoy ci sono volute tre settimane per fare lo stesso per i migranti.
Nella speranza di riprendermi raggiungo la folla a Bastille. Dopo il movimento contro la loi travail è stata lanciata dal mondo dei movimenti la parola d’ordine génération ingouvernable. Da qualche mese, piccole iniziative si moltiplicano fra la contestazione delle elezioni e le manifestazioni contro il FN. Fino agli scontri successivi ai risultati.
Qualche migliaio di persone, di cui buona parte ha già battagliato tra Stalingrad e Belleville, scandisce in coro slogan contro Macron, Mélenchon, Le Pen, Fillon e le elezioni in generale. Il fatto che Benoît Hamon non sia citato la dice lunga sul crollo del PS, fermato al sei per cento e rotti.
La polizia ha già circondato la piazza, parte qualche lancio di oggetti, risposta di lacrimogeni e flashball, corsa, puzza, naso che brucia, slogan, l’accerchiamento della polizia antisommossa si fa più vicino, la gente si sveste e nasconde i k-way, sperando di non essere arrestata, poi la piazza si svuota.
Rimaniamo io e uno di quei signori un po’ pazzi che girano nelle manifestazioni, lui ha costruito una specie di bicicletta che è un piccolo castello di fontane che si autoalimentano: tunica blu e barba grigia, sorride a tutti e sembra un mago saggio. Mi protegge dall’accerchiamento poliziesco, mentre attorno piovono manganelli.
Un poliziotto si avvicina e gli comunica che deve andarsene. Lo seguo verso lo schieramento di poliziotti all’incrocio col boulevard Voltaire. La polizia antisommossa, schierata in linea con gli scudi alzati, assume un’espressione di stupore mentre il mio stregone si avvicina col suo castello di acqua e ruote. «M’han detto di passare di qua», dice. Silenzio. Risatina di un ufficiale. Poi, tutti assieme, sempre in linea, i poliziotti in antisommossa scoppiano a ridere, prima di lasciarci passare. È la prima risata che sento da quando sono usciti i risultati. (filippo ortona)
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