«Non ce la faccio proprio a guardare la televisione». ‘Ala è un ragazzone di ventidue anni che ha dovuto lasciare l’Egitto quando ne aveva dieci, ma il suo sguardo è sempre rivolto verso quella che rimane la sua casa. Tranne che in questi giorni: «Non posso pensare di essere qui, comodo a fare niente, mentre la gente lì muore e combatte per strada, capisci, mi sento troppo in colpa». Invece di stare con gli occhi fissi su Al Jazeera, come la maggior parte dei suoi connazionali, preferisce quindi farsi aggiornare da qualche amico egiziano che come lui abita a Napoli, per esempio Said. Oltre a cercare di parlare direttamente con la famiglia ad Al Fayym, un centinaio di chilometri a sud-ovest del Cairo; ma le linee in questi giorni sono spesso interrotte, e da cinque giorni non riesce a mettersi in contatto con loro. Said invece ha parlato con moglie e figli ieri mattina: «stanno bene, a El Mansura – a nord della capitale – dicono che gli uffici e i palazzi pubblici sono tutti sprangati, molti negozi sono stati saccheggiati. La polizia ha aperto le carceri e ha pagato ladri e criminali perché facessero razzie in giro; l’altro giorno hanno finto di arrestarne trecentocinquanta, per rilasciarli poi subito dopo». Oggi è il giorno della grande manifestazione con cui gli egiziani cercheranno di spingere Mubarak a lasciare finalmente la sua poltrona dopo trent’anni di regno, e anche per chi guarda da lontano paure e speranze si alternano in continuazione. «Se Mubarak se ne va cambierà tutto», dice ‘Ala. Secondo Said, più anziano e prudente, bisogna vedere però «che fine farà tutto il suo apparato di potere, a partire dal figlio Jamal, e bisognerà affrontare la crisi economica».
L’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, è stato detto più volte sui giornali di tutto il mondo, è stato il fattore scatenante della rivolta. ‘Ala e Said non sono esperti di economia, ma raccontano quello che ha visto la gente ogni giorno per anni. «La crisi internazionale non c’entra niente, o è solo una piccola parte. E’ stato il governo a rendere la vita impossibile a milioni di persone. L’Egitto è un paese pieno di risorse: agricoltura, turismo, industrie; ma almeno la metà dei profitti viene sottratta alla gente e mandata nei conti delle banche europee intestati ai familiari e agli affiliati del presidente. È così per i guadagni derivanti dal canale di Suez, per gli aiuti che arrivano dall’estero, è così anche per le piccole imprese private: si dice che il figlio del presidente “è il socio di tutti gli uomini d’affari in Egitto”, perché qualsiasi nuova attività tu voglia aprire ti verrà imposta una qualche forma di sua partecipazione, e se non accetti danno fuoco al tuo negozio o minacciano i tuoi familiari». Anche la diffusione e la vendita dei prodotti agricoli è stata diretta e incanalata in modo tale da garantire un profitto elevato a pochi beneficiari. «Quand’ero piccolo lavoravo la terra insieme alla mia famiglia, nella regione di Al Fayym, e le coltivazioni che ci permettevano di vivere erano soprattutto il riso e il cotone», racconta ‘Ala. «All’improvviso lo Stato ha deciso che era illegale coltivare riso e cotone nella nostra zona; lo fanno piantare solo al nord, lo comprano come a prezzi stracciati e lo rivendono a cifre che diventano sempre più alte. Alla mia famiglia e alle altre della regione non è rimasto che coltivare le verdure dell’orto, che rendono molto meno, e anche in quel caso poi gli acquirenti sono grossisti che si accordano tra loro per comprare a prezzi bassissimi e rivendere a caro prezzo, impoverendo sempre più sia chi produce sia chi compra al mercato».
Per questo, dice Said, quella che stiamo vedendo «non è una rivolta politica, è una lotta per la sopravvivenza. In cinque anni i prezzi sono aumentati di quattro, sei, otto volte. Un chilo di carne mista costa dieci euro, un chilo di pollo due, un pacco di zucchero un euro; ma gli stipendi rimangono da fame, io come insegnante di scuola pubblica dieci anni fa guadagnavo l’equivalente di neanche venti euro al mese. Perciò sono scesi in piazza tutti. Persino i gatti!». I più giovani però sono ancora più colpiti degli altri perché la mancanza di soldi, oltre che di beni di prima necessità, impedisce di affrontare le tappe canoniche previste per l’ingresso nella società degli adulti. «Sposarsi in Egitto è molto costoso», spiega ‘Ala. «Nella mia città bisogna offrire alla fidanzata un minimo di duecentocinquanta grammi di polvere d’oro, oltre a regali e a una casa dignitosa. Io e mio padre abbiamo dovuto aiutare mio fratello a raggiungere la somma necessaria, altrimenti con il suo stipendio non ci sarebbe mai riuscito. Per chi non può farsi aiutare dai parenti due sono le scelte: andare a lavorare fuori – come ha fatto Said, che ha lasciato il posto di professore per andare a fare il muratore in Giordania – oppure ci si sposa a un’età che in Italia è normale ma per noi è tardissimo, a trentacinque-quarant’anni. Mio fratello minore era preoccupato, mi ha detto “sposati prima tu che sei il più grande”, ma io non ci penso proprio a sposarmi in Egitto, oggi in Italia è molto più conveniente».
Che succederà oggi al Cairo? Dai discorsi di ‘Ala e Said uno degli elementi chiave sembra essere il ruolo della polizia e dell’esercito. «La polizia è ancora tutta con Mubarak. L’esercito è con lui solo per metà», sostiene Said. Forse anche perché l’esercito comprende molti ragazzi giovani finiti sotto le armi per obbligo di leva, o solo perché sperano in uno dei pochi lavori garantiti. È il caso di uno dei fratelli minori di ‘Ala, che negli ultimi mesi si è trovato a fare addirittura da guardia personale al presidente. «Ha accettato questo incarico perché gli permette di stare più tranquillo rispetto a quelli che devono pattugliare le strade. Ci pensi? Ventiquattr’ore su ventiquattro a guardare Mubarak, e a pensare “vorrei solo scaricargli contro tutto il caricatore del fucile”. Anche tutti i suoi colleghi la pensano così. Ma per ora sono ancora troppo soggetti ai comandi della polizia, hanno ancora paura di incorrere nelle punizioni militari se si discostano minimamente dagli ordini».
Ogni cittadino comune nella sua vita ha avuto più di uno scontro con l’apparato poliziesco di Mubarak, con lo strapotere di una legge di emergenza che da trent’anni permette di vessare impunemente chiunque e ovunque, spesso deviando il corso delle vite delle persone. «Mi ricordo ancora le elezioni del 1998, quando Mubarak risultò vincitore all’ottanta per cento. La polizia controllava che uno per uno scrivessimo il suo nome sulla scheda. E poi i sequestri, i pestaggi, i mercenari assoldati per fare il lavoro sporco, come in questi giorni…». Il caso di ‘Ala è particolarmente difficile. «Quando avevo dieci anni stavo lavorando il campo, è arrivato un mio coetaneo e abbiamo cominciato a litigare per l’acqua, ci siamo scontrati ed è successo un incidente, lui è morto. Sono rimasto in prigione per quindici giorni, ero l’unico bambino, dormivamo in venti sul pavimento di una cella. Ogni tanto i secondini ci buttavano addosso secchiate di acqua, poi mettevano i cavi della corrente e ci guardavano prendere la scossa. A un certo punto il mio avvocato è riuscito a farmi uscire temporaneamente puntando sulla legittima difesa. Sono rimasto in ospedale due mesi, come fossi morto. Poi mi hanno detto che o partivo o rischiavo di rimanere in galera a vita, e sono arrivato prima in Libia, poi in Italia, insieme a duecentocinquanta altre persone su un barcone di quindici metri. A Milano c’era mio zio, pensavo fosse un grande imprenditore, invece aveva solo una piccola impresa per montare ponteggi, e lì sono rimasto per qualche anno».
A piazza Tahrir al Cairo intanto cominciano a convergere i manifestanti arrivati da tutto il paese. ‘Ala ribadisce che non ha intenzione di seguire le evoluzioni in televisione. Gliele racconterà Said, che pensa di andare all’internet point tunisino vicino alla stazione centrale. «Se Mubarak se ne va torno in Egitto di corsa!», dice ‘Ala. «Se invece non se ne va, pensi che posso chiedere l’asilo politico e fare venire qui la mia famiglia?». (viola sarnelli)
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