Uno che legge i giornali o vede la TV, ma anche uno che legge Saviano immagina Napoli come una città divisa in due, o che è tutta una monnezza. Il che è. Politiche sociali e sentimenti dell’insicurezza spingono a polarizzare la città in due parti, quella maledetta e quella delle gathed communities, quella della plebe delinquenziale e quella colta e europea (‘a verità!, si dice a Napoli).
Anche se il che è, non è tutto così. Perché c’è anche un Che. La città è attraversata da una serie di pratiche, soprattutto giovanili, che disegnano una vera e propria tela del ragno, dentro e oltre le due città. Parlo soprattutto dei giovani che fanno lavoro sociale. Entrano nelle case della gente, vi sono bene accolti per un caffè e una discussione sui figli, salutano, si sfottono, si pigliano confidenza reciproca, si pigliano sul serio, cercano di far diventare costume le politiche sociali, creano uno spazio pubblico più pubblico di quello che creano le istituzioni pubbliche. Provano a costruire beni veramente comuni.
In queste relazioni lo stigma è sospeso. La relazione avviene in una miriade di spazi della socievolezza, come descrive Simmel: ognuno, i bravi ragazzi del lavoro sociale e i cattivi ragazzi dell’altra città, è veramente se stesso, anche se non tutto se stesso. Sono spazi della sospensione del giudizio, dell’ascolto e della curiosità reciproca, piazze che diventano luoghi popolati della mixitè. Non c’è folklore, non c’è populismo, non c’è assistenzialismo, vediamo che possiamo fare.
La città è fatta dai legami, dalle tele di ragno di questi legami, non di pietre e piazze simboliche per turisti disprezzati. La politica simbolica che doveva sostenere il rinascimento non sostiene nulla più. Deboli fili delle tele dei ragni sostengono anche le piazze della televisione. Qui dentro si cerca un destino, lo si aspetta come se Lauro stesse sempre lì. I ragni delle nostre tele invece cercano strade, in mezzo al vuoto e contro la disperanza; lavorano nei progetti con una passione che le istituzioni non meriterebbero, cercano strade per il lavoro. Strade che portino al lavoro anche se non subito – san Gennaro non ha voluto lavorare nei progetti – ma con un duro allenamento a costruire altre regole, altre pazienze, altre ricerche e altre speranze. E succede che diversi ragazzi vengono infine apprezzati, e essi stessi si apprezzano, e restano anche a lavorare presso gli artigiani dove hanno fatto gli stage. Questi progetti, per i giovani che la scuola non ha saputo tenere o che hanno SCELTO di non andarci più, non sono fatti per trovare immediatamente la fatica, ma per costruire dignità, scelte che possano piacere ai ragazzi. Al di fuori dei giudizi moralistici e colpevolizzanti – ‘a fatica ce sta’, so lloro ca’ nun vonno faticà – si tratta di costruire destini possibili, capacità perché le vite dei ragazzi possano funzionare, nei modi, nelle misure e nei progetti che con loro, non al posto loro, si possono fare.
I giovani di Napoli cercano lavoro e tanti fanno lavoro nero, emigrano, s’arrangiano e non entrano in nessuna forma di illegalità; nessuno parla di loro, a loro nessuno parla. Nessuno parla delle decine di ragazzi che fanno lavoro nero e ci chiedono un aiuto per emanciparsene ma senza allontanarsene, perché loro hanno la testa al suo posto, cioè sul collo. E la usano per pensare: il reddito mi è indispensabile, non mi chiedete di lasciare il lavoro; mi tengono solo a portare i caffè, mi fanno solo spazzare i capelli, mi mettono a tangente sulle mazzette: è questa la tragedia, non il fatto che fatico; la tragedia è che non tengo speranza di impararmi un mestiere perché quasi nessuno me lo vuole imparare, mi vogliono solo come schiavo. Me la date una mano?
I ragazzi tutor dei progetti ci provano. Ma per fare questo la tela non basta più, ci vuole un telos, un fine; ma la politica sembra averlo perso e lascia soli anche quelli che ci lavorano, per questo telos. (salvatore pirozzi)
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