Agricoltura biologica e biodinamica, omeopatia, vegetarianesimo e veganesimo, antivivisezionismo, rispetto degli ecosistemi e in generale della natura, sono ideali e pratiche che suonano da sempre come progressiste. Sarebbe una sorpresa per molti scoprire che la storia delle politiche ecologiste non ha sempre avuto questa direzione né tanto meno intenti benefici.
Quando parliamo di “ecofascismo” intendiamo quell’ambientalismo che si propone di usare metodi fascisti per far fronte ai problemi ecologici. Un esempio concreto arriva in questi giorni convulsi: esultare per l’abbassamento delle emissioni nocive a causa del Coronavirus, considerare gli alti tassi di mortalità un male necessario per salvare i più giovani e forti, per esempio, sono derive che partono dalla stessa matrice dell’eugenetica nazista. Ma discriminazione e morte non dovrebbero essere un metodo contemplato per ridurre le nocività nell’ambiente. È difficile a credersi, eppure il collasso ecologico viene visto dall’ambientalismo di estrema destra come un’occasione per mettere in pratica piani genocidi. La deriva moderna dell’ecofascismo, viva e vegeta all’interno di cerchie attive anche online, si riassume nell’inquietante metafora usata da Pentti Linkola, un filosofo ecologista finlandese: se c’è una barca che affonda e lo spazio è limitato, chi ha più diritto a rimanere a bordo? Chi ha sviluppato una coscienza ambientale e senso di responsabilità collettiva o chi ancora non è a quel punto?
Janet Biehl e Peter Staudenmaier si occupano dell’origine storica e dello sviluppo di queste teorie e politiche nel libro Ecofascism revisited. Lessons from the German Experience (Ecofascismo rivisitato. Lezioni dalla esperienza tedesca). Biehl, saggista statunitense che si occupa perlopiù di municipalismo libertario e di ecologia sociale, studiosa del confederalismo democratico in Kurdistan, offre un saggio sull’ecologia e la modernizzazione del fascismo nell’ultradestra tedesca. Staudenmaier, attivista anarchico e professore di storia tedesca moderna all’università del Milwaukee, si concentra invece sulla branca verde del partito nazista e sui suoi predecessori storici. Staudenmaier propone inoltre una trattazione sul significato passato e presente dell’ecologismo nazista. Il titolo è stato tradotto in castigliano nel 2019 dalla casa editrice Virus, riconoscendone la valenza nell’ambito del dibattito sull’ecologismo contemporaneo.
Le prime teorizzazioni sulla possibilità di recuperare il valore della cura dell’ambiente ricorrendo a politiche autoritarie e dittatoriali si sono fatte spazio tra alcune élite naziste già tra gli anni Venti e Trenta. “Blut und Boden” è la cosiddetta dottrina “del sangue e della terra”, teorizzata ufficialmente nel 1930 da Richard Walther Darré, indicando una connessione mistica tra la razza e il contesto naturale, che sarebbe specifica del popolo tedesco e di nessun altro (il popolo nativo che reclama il legame con la propria terra per preservare sia essa che il suo sangue, mentre gli ebrei, per esempio, popolo nomade e senza radici, sarebbero incapaci di un rapporto autentico con la terra e le radici). Si tratta di slanci romantici ed ecologisti parte da sempre dell’ideologia e della politica nazista, in costante tensione con l’impulso tecnocratico e industrializzante del Reich, che comunque conservava al suo interno una significativa componente ambientalista. È un dato di fatto che queste convinzioni trovarono conseguenza in concrete politiche governative.
Sebbene le iniziative degli ecologisti nazisti fossero destinate a non avere lunga vita tra gli altri membri del partito, l’ala verde si occupò di introdurre misure significative tra il 1933 e il 1942 quando Darré fu ministro dell’agricoltura. Darré immaginò una ruralizzazione della Germania che permettesse la “salute razziale” e la sostenibilità ecologica. Introdusse l’agricoltura biologica su larga scala e l’agricoltura biodinamica, una pianificazione nell’uso delle terre che nessun governo prima e dopo avrebbe replicato. Nello stesso periodo furono introdotte misure di protezione dei boschi, delle foreste, delle aree naturali sensibili. È cosa nota che Hitler fosse vegetariano, meno noto è che le diete vegetariane e vegane furono adottate strettamente da molti dei leader nazisti per convinzioni politiche ben precise, che gli stessi si opponevano alla vivisezione e facevano convintamente uso dell’omeopatia. La legge di protezione della natura del 1935 introduceva linee guida per la salvaguardia di tutta la fauna e la flora dei territori del Reich.
Versioni successive e sviluppi nel presente di queste teorie vengono trattate approfonditamente dagli autori, segnalando il rischio di infiltrazioni di questo pensiero nelle correnti progressiste contemporanee. Si cita l’esempio di Rudolf Bahro, politico che entrò nei Verdi tedeschi affermando la necessità di “un po’ di ecodittatura” per uscire dalla crisi ecologica. Ciò che gli autori cercano di dimostrare è che la pulsione non è nuova e segue una corrente che non si è mai interrotta.
La minaccia della catastrofe ecologica è oggi palpabile, mentre la geopolitica ci mostra centinaia di conflitti votati all’accaparramento di materia prima ed energetica, e sempre più, di terre fertili. Davanti all’esaurimento delle risorse, l’ecofascismo irrompe con l’obiettivo di assicurare la sopravvivenza e il mantenimento di un alto stile di vita a una ristretta cerchia di privilegiati, tramite regimi politici autoritari e le fantasie genocide che rimangono alla base della risoluzione del problema.
I conflitti ecologici possono essere animati tanto da sinistra che dall’estrema destra, ed è per questo che, affermano gli autori, è importante che includano un concetto sociale esplicito. “L’ecologia da sola non prescrive la politica da sviluppare, deve essere interpretata e mediata attraverso un modello teorico perché acquisisca un significato politico”: ci si riferisce qui alla tendenza dei movimenti ambientalisti nell’affermare la propria estraneità ai concetti di destra e sinistra. E si aggiunge: “La necessità di una sinistra ecologista è urgente, specie di una fermamente compromessa con una visione chiara e coerente, anticapitalista, democratica e antigerarchica. Deve avere ferme radici nell’internazionalismo di sinistra e nutrirsi di una critica genuinamente egualitaria davanti all’oppressione sociale. […] Quando il rispetto per la natura si trasforma in ‘riverenza’, può convertirsi in una religione che gli ‘Adolf verdi’ possono manipolare per fini autoritari. Quando la natura diventa una metafora che legittima la ‘moralità dei geni’, la ‘gloria della purezza razziale’, ‘l’amore per la Heimat’, ‘le donne che sono uguali alla natura’, allora il panorama è pronto per la reazione. Le mistificazioni autoritarie non devono diventare il destino del movimento ecologista attuale, come dimostra l’ecologia sociale”.
Tutto ciò dovremmo tenerlo a mente ogni volta che salta fuori l’idea maltusiana che la sovrappopolazione sia alla base dei problemi ambientali. Basterebbe ricordare che una persona in Gran Bretagna produce in media in dodici giorni le emissioni che una persona in Burkina Faso produce in un anno. Evitare di cadere in queste trappole sarà fondamentale per il futuro dell’ambientalismo. (giusi palomba)
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