E lucevan le stelle è un progetto fotografico¹ curato da Irene Angelino, che diventerà un libro, in uscita in autunno, per la casa editrice 89books di Palermo. Pubblichiamo a seguire uno dei testi che si trovano nel volume e una selezione di alcune fotografie.
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Quando con lentezza ho ripreso la mia vita dopo un lungo ricovero in psichiatria, la fotografia ha preso il posto delle mie parole. Camminavo solo per fotografare e ho incontrato dolori e persone che sentivo in me più profondamente. Star bene dopo un trattamento sanitario obbligatorio doveva rappresentare qualcosa di più grande. Uscire dalla solitudine, ringraziare i tanti amici che si sono allontanati, riuscire a perdonare il mio stupratore.
Conoscevo molto della cooperativa che ho fotografato. Ne avevo letto nei libri, avevo conosciuto alcuni dei suoi tanti soci; un consorzio di cooperative che fa il verso alla camorra e si chiama Nuova Cooperazione Organizzata. Il primo approccio fu alla Fattoria Sociale Fuori di Zucca, in manicomio, l’ex ospedale psichiatrico di Aversa, Santa Maria Maddalena, dove Giuliano Ciano mi fece dono della propria storia e di tanti piccoli oggetti che conservo e porto con me in tutte le case dove vado a vivere.
Alla presentazione del libro di Antonio Esposito, Le scarpe dei matti, ho incrociato gli occhi sinceri del rappresentante della cooperativa, Simmaco Perillo e mi sono presentata a lui un fine settimana viaggiando da Sant’Antimo, il mio paese, fino a Sessa Aurunca, nell’alto casertano, ai confini con il Lazio, dove ha sede la NCO. Gli parlavo di cosa credo sia giusto fare con il tso, lui mi apriva un mondo di possibilità e concretezza su cosa fanno con le persone, i budget per la salute mentale, le sperimentazioni con Franco Rotelli, il lavoro nel sociale e la rete che provano a tessere per ogni fortunato o sfortunato che accolgono.
Hanno un ristorante a Casal di Principe, il paese di don Peppe Diana, hanno una casa di incisione discografica, un frantoio, producono conserve e vini e hanno avviato al lavoro decine di persone passate per le case famiglia. Simmaco era un fiume in piena, citava a memoria le leggi 328/2000 e 833/78, parlava di scienza, di filosofi, io pensavo alla malattia a cosa volevo raccontare.
La pandemia era in corso. E stavo iniziando. All’incontro con Simmaco seguì quello con una prima cooperativa. Stavo per entrare in casa famiglia. Giravo con le lettere del mio maestro Antonio Biasiucci in tasca e un tampone fatto per giustificare i miei spostamenti nel caso in cui la polizia m’avesse fermata. Biasiucci ha supervisionato ogni scatto. Avrei voluto tanto seguire il suo Lab/irregolare ma non ci sono riuscita, così l’ho seguito a Belle Arti a Napoli per diplomarmi in fotografia. In realtà ho completato solo questo progetto: era un maestro, un metodo di ricerca quello che cercavo. In casa famiglia ho trascorso un anno, tutti i sabato e a volte le domeniche. Siamo rimasti in ascolto del tempo che non passava, dei silenzi, delle mancanze, del vuoto. Ho visto indossare le scarpe a questi uomini e non avere il coraggio di uscire o non avere qualcosa da fare fuori, o peggio qualcuno che li aspettasse o li invitasse.
Il momento dei pasti era una festa. La gioia era in tavola in ognuna delle tre case famiglia che ho visitato. Divise per alta, media e bassa funzionalità ospitano uomini capaci o meno capaci di badare a se stessi. Alcuni soli, altri con una famiglia fuori. Qualcuno giovane, qualcun altro della giovinezza non ne ricorda il passo. Un giorno quando uscii con uno di loro per andare a prendere un caffè al bar del paese mi accorsi di quanto fosse disabituato a uscire di casa. Sul mio diario appuntai queste memorie:
R. aveva i pantaloni troppo larghi. Scendevano sotto la vita nonostante la cintura. Voleva stringerla e invece tirava continuamente su. Ho pensato che quei pantaloni sono la conseguenza del non uscire più di casa. Del non camminare più per strada. Solo quella sedia in cortile. Solo il divano in casa famiglia. L’auto da passeggero per quei piccoli spostamenti.
F. mi ha detto di essersi dato una coltellata dopo avermi parlato per un tempo aperto, una continua sorpresa, dicendo di doversi dedicare a me, arricchendomi con la spiritualità e la sua filosofia, soprattutto il suo sguardo.
A. mi ha chiesto come mi chiamo diventando un bambino. Mi ha chiesto solo questo e ha chinato la testa. Poi è stato male. L’ansia non lo faceva respirare.
R. non si ricorda più la storia della sua famiglia. A. si sdraia sul divano. Sta peggio.
Io sto qui. Non ho più nessuna paura. Riesco a stare vicina alla malattia.
Vorrei ci riuscissero le famiglie.
Mangiano velocemente perché quel cibo è riappropriarsi di vita. Ha forma, ha un profumo, è caldo. Non so se in quella velocità sono contenti del sapore.
Non hanno ringraziato chi cucina per loro ma quel pasto è tutto. Dopo c’è di nuovo il letto. Immediatamente. Hanno perso tutto queste persone.
Mi piace quel silenzio. Ora capisco di più le mie fotografie.
Il più giovane dei pazienti scriveva lettere alla sua psichiatra. L’altro, bello come non mai, mi parlava di filosofia e mi ha concesso un ritratto solo alla fine dell’estate. I dettagli delle case sono fondamentali per capire quello che manca. Quanto manchino gli affetti, le presenze, gli abbracci. Gli operatori li ho visti pieni d’amore. Credo sia raro in casa famiglia per pazienti psichiatrici. Io volevo urlare alle famiglie perché li avete abbandonati, poi la mia rabbia si è trasformata. Non conosco le loro storie e conosco solo mia. Quindi il mio lavoro ha smesso di essere uno schiaffo ed è diventato un messaggio per tutti. E lucevan le stelle è un modo per mostrare la parte dolorosa di ognuno di noi, quella che fa paura. È un prendere per mano chi soffre. Far rinascere bellezza là dove tutti vedono solo la malattia. Il titolo di questo lavoro è una dedica alla musica. Se sono guarita lo devo anche a lei. Quest’aria della Tosca di Giacomo Puccini è tutto quello che si perde: i profumi del mondo, un amore, la vita.
Tutto quello che ho fotografato l’ho fatto con un bene che supera la distanza. (irene angelino)
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¹ Riproduzione riservata su concessione dell’autrice
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