In queste giornate, cupe e desolanti, continuo a ripensare alla protesta nel carcere di San Vittore, in particolare a due immagini che col passare del tempo invece di rarefarsi diventano sempre più nitide ed eloquenti. La prima ha come protagonista una bambina, probabilmente la figlia di un detenuto, che gioca nei giardinetti di piazzale Aquilea. Siamo in viale di Porta Vercellina, in una zona centrale di Milano, dove termina uno dei bracci della Casa circondariale di San Vittore, una struttura costruita alla fine dell’Ottocento secondo il modello del panopticon con una torre centrale e sei raggi ciascuno di tre piani.
La rivolta è iniziata da qualche ora, le strade che circondano il carcere sono state chiuse al traffico dalla polizia, che ora presidia la zona, mentre all’esterno delle mura si sono raggruppate alcune persone. Ci sono giornalisti che riprendono e commentano la protesta in diretta, un gruppo di anarchici che sta organizzando un presidio, familiari o amici dei detenuti che dalla strada cercano di comunicare con chi è all’interno della struttura. Al termine del braccio che affaccia su piazzale Aquilea ci sono tre finestre, strette e alte, alle quali è appeso un lenzuolo con la scritta “Libertà”. Dietro le finestre, nell’oscurità che contrasta con la luce del giorno, si percepiscono appena alcune figure umane. La loro voce al contrario ci arriva chiara e forte. «Vai a casa!», urla un detenuto. «Mo’ vado», gli risponde una giovane donna. «Libertà, libertà!» grida un altro. «Libertà, libertà», gli fa eco la voce esile di una bambina. E poi di nuovo: «Libertà, libertà», ripete quella stessa voce con un tono sempre più sfumato e distaccato. Mi volto per capire chi pronuncia quei suoni simili a una preghiera, e nel farlo mi immagino di vedere una bambina che stringe la mano della mamma, con il volto triste rivolto a quelle finestre che incombono sulla strada, e invece scopro che a emetterli è una bambina che gioca da sola nel piccolo giardino dando le spalle al carcere e a tutto quello che le sta accadendo intorno.
La seconda scena si svolge a poche centinaia di metri dalla prima. Siamo davanti a un altro braccio del carcere di San Vittore, quello che affaccia su via Gian Battista Vico. Qui alcuni detenuti sono riusciti a salire sul tetto, e ora sono pacificamente seduti sul colmo. Sotto di loro, ma al di fuori delle mura, la polizia in tenuta antisommossa si è disposta davanti a un accesso della Casa Circondariale. Poco distante, gli anarchici gridano: «Fuoco, fuoco alle galere! Tutti liberi, tutte libere!». Intorno a loro, giornalisti, fotografi e videomaker documentano quello che sta accadendo. Alla protesta assistono in silenzio alcuni familiari dei detenuti. Dal basso guardo i movimenti dei detenuti sul tetto, osservo i volti parzialmente coperti, ascoltando distrattamente le cronache dei giornalisti e le domande che alcuni manifestanti rivolgono ai detenuti con un megafono. Poi i ragazzi sul tetto, come se fossero appagati da quel momento di libertà, ci salutano e in fila indiana si allontanano uno alla volta. Sembra la conclusione della rivolta, invece, inaspettatamente, uno di loro torna indietro, si sporge verso di noi, allarga le braccia, porta il petto all’infuori e con tutta le energie che ha grida disperatamente: «Aiuto! Aiuto! Aiuto!».
Qualche giorno dopo la rivolta incontro Ileana Montagnini, responsabile area carcere della Fondazione Caritas Ambrosiana, che da molti anni segue percorsi di reinserimento sociale di persone in esecuzione penale esterna. «Il carcere convince un po’ tutti – mi confida –, forse perché l’idea di prendere, chiudere e isolare parla alla pancia delle persone. Eppure così com’è non funziona. In Italia abbiamo una recidiva che sfiora il settanta per cento e ci sono organismi come Antigone, come la Conferenza nazionale volontariato e giustizia che denunciano sistematicamente il mancato rispetto dell’art. 27 della Costituzione, che parla di esecuzione penale in termini di rieducazione. Già è difficile usare la parola “rieducazione” con gli adulti, però se ci atteniamo al testo costituzionale, noi dovremmo avere delle strutture volte a questo scopo. Invece, a noi sembra che le condizioni di sovraffollamento, di precarietà e di carcere vissuto come discarica sociale non rispettino questo articolo. Al contrario ci sembra che funzioni meglio l’esecuzione penale esterna. Sulla quale però non ce la sentiamo di dire che la recidiva crolla al venti per cento, perché è un dato che si basa su un campione per il momento poco rappresentativo, quello di coloro che accedono alla misura alternativa. Quindi è vero che la recidiva crolla, però sarebbe più corretto fare degli studi su campioni più vasti».
In Italia, aggiunge, ci sono circa 67 mila persone che eseguono la pena intra-moenia, cioè all’interno di strutture circondariali o penali, e 45 mila che eseguono la pena extra-moenia. I progetti della Caritas si rivolgono soprattutto a questi ultimi, cioè a chi è fuori dal carcere o chi ha diritto a uscire ma, per mancanza di requisiti sociali, resta all’interno delle strutture penitenziarie. Sono gli educatori, i cappellani e i volontari che segnalano alla Caritas le persone che possono accedere ai progetti esterni, abitativi o di orientamento al lavoro. L’accesso alle misure alternative è fortemente legato a condizioni sociali, come per esempio la presenza di un’abitazione idonea per richiedere la detenzione domiciliare. Per questo la Caritas mette a disposizione una rete di appartamenti, dando la possibilità di usufruire di una comunità per gli arresti domiciliari e offrendo un servizio di orientamento al lavoro.
«Tante persone in carcere – continua Montagnini –, azzardo una cifra, il trenta per cento, hanno problemi di natura psicologica o psichiatrica, un altro trenta per cento è costituito da persone dipendenti da sostanze, alcol o comportamenti. Un numero crescente è costituito da persone straniere prive di mezzi. Non tanto perché le persone straniere commettono più reati, le statistiche dimostrano il contrario, quanto perché le condizioni di precarietà dovute alla criminalizzazione del fenomeno migratorio, hanno creato un substrato favorevole alla commissione di reati. Tutte queste categorie hanno poco a che fare con quello di cui dovrebbe occuparsi il carcere, cioè la delinquenza. In più di dieci anni di esperienza ho incontrato principalmente poveri, malati, persone ignoranti – nel senso che ignoravano anche i propri diritti –, persone con problemi di dipendenza, persone senza reti. E queste non mi sembrano che siano le categorie che studiano i criminologi. Almeno, non è quello che ho studiato io».
Queste condizioni di inadeguatezza per alcuni istituti e indecorose per altri, hanno fatto sì che in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo non ci fosse uno spazio per il dialogo e che le preoccupazioni delle persone in carcere – alimentate dall’unica fonte di informazione che hanno: la tv – sfociassero in rivolte. A San Vittore, racconta Montagnini, circa quindici giorni fa, per evitare contagi da coronavirus, gli ingressi sono stati fortemente contingentati, così come in altri istituti lombardi e poi italiani; dopo pochi giorni, per gli stessi motivi i colloqui con i familiari sono stati sospesi, e tutte le attività sociali, come la scuola, sono state interrotte. Queste restrizioni hanno fatto crescere ansia e tensione fino all’esplosione di giorni scorsi. «Se si toglie un beneficio così importante – dice Montagnini – come quello di vedere i propri familiari, è chiaro che si innesca una miccia, che va spenta con il dialogo ma anche con la concessione delle misure ordinarie, non solamente quelle straordinarie, che già si possono mettere in campo. Più di un anno fa, per esempio, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha emesso una circolare in cui concede la possibilità di effettuare videochiamate tramite Skype e gli istituti si devono attrezzare per poterle garantire. A San Vittore l’accesso alle telefonate per tutti è stata un’assicurazione che ha fatto rapidamente placare l’ansia».
«È naturale – aggiunge infine – che in questi momenti di crisi si avanzino delle richieste particolari. Ma non ci dovrebbe essere bisogno di questi momenti per chiedere misure di riduzione del sovraffollamento delle carceri. Oggi in Italia ci sono 17 mila detenuti sotto i due anni di pena che potrebbero essere tutti fuori dagli istituti, questo lo dice la legge, non lo dice la Caritas, non lo dicono le associazioni». (salvatore porcaro)
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