Qualche anno fa due ragazze hanno litigato ferocemente durante il cambio dell’ora.
Quando i ragazzi litigano in classe, ho imparato ad applicare un metodo piuttosto efficace di risoluzione dei conflitti. Funziona così: si siedono l’uno di fronte all’altro separati da un banco (la foga delle mazzate può essere sempre dietro l’angolo, quindi un distanziatore è necessario), poi dò loro un evidenziatore che funge da discriminatore visivo. La regola è: chi ha l’evidenziatore ha il diritto di parola. Quando il primo ha finito di parlare, lascia l’evidenziatore sul banco e il secondo può prenderlo per rispondere. Dover associare la detenzione dell’evidenziatore all’articolazione della parola prevede l’utilizzo di un pensiero complesso, di una doppia operazione, che porta il litigante a riflettere per articolare meglio il litigio e quindi a concentrarsi, a mettere da parte l’istinto per fare spazio alla coordinazione logo-motoria. Ne consegue che chi parla tende a calmarsi, l’altro ad ascoltare, mentre attende che gli venga dato l’evidenziatore per poter controbattere. Il resto della classe – cui non è permesso di intervenire o di parteggiare – ride, qualcuno una volta ha detto che «sembra l’esterna di Uomini e Donne», in genere funziona ed è la sola cosa che conta. Insomma, il punto è lasciarli litigare, a patto che imparino a farlo in maniera socialmente accettabile, senza venire alle mani e soprattutto ascoltandosi.
Uno dei compiti più complessi quando si lavora con gli adolescenti è lasciare che imparino nel confronto tra pari, senza intervenire sempre dall’alto. Dico questo perché, una delle cose che sembra oggi mancare di più, stando ai discorsi dei ragazzi, è il contatto, il conforto dei compagni.
La didattica a distanza ha aperto una serie di questioni che riguardano in maniera profonda il modo di intendere la docenza, la sinergia troppo spesso mancante tra scuola e famiglia e la solitudine del docente che improvvisamente si è trovato, pur in un periodo difficile che riguarda tutti, a dover rimodulare il suo lavoro talvolta senza tutele sindacali.
La retorica da libro Cuore su cui si è fatto leva parlando dell’eroismo dei docenti, della loro abnegazione, del loro spirito di sacrificio ma anche dell’impossibilità di bocciatura e valutazione, appare doppiamente rischiosa. Da un lato perché non tiene conto della preparazione che il lavoro con bambini e adolescenti richiede; dall’altro perché ha pericolosamente posto su fronti opposti docenti e studenti. Eppure, siamo tutti concordi nel credere che, in uno stato di emergenza, ritrovare gli studenti al di là dello schermo è sicuramente più utile che ritrovarli direttamente a settembre o nel futuro anno scolastico, abbandonati a loro stessi per un intero quadrimestre. Così, la didattica a distanza è parso a tutti l’unico modo per cercare di assicurare il diritto allo studio e alla formazione. Il rischio percepito e poi concretizzatosi è che la Dad ricada prepotentemente sulle famiglie già nella fase della sua attivazione.
In alcune scuole, le ore di lezione sono state ridotte della metà: tre ore per cinque giorni a settimana. In alcune classi però alcuni studenti non partecipano alla didattica a distanza. I motivi per cui i ragazzi e le loro famiglie non accedono alle piattaforme sono molteplici e la scuola non riesce a intervenire su tutti. Allo svantaggio economico di alcuni, cui si è cercato di rimediare dando in comodato d’uso dei supporti elettronici che comunque sono arrivati in ritardo rispetto all’avvio delle lezioni, si somma il rifiuto di alcune famiglie che, soprattutto in una fase iniziale, hanno risposto con un atto di ribellione di tipo luddista e si sono opposte ad attivare le procedure di iscrizione alle piattaforme scelte (sulla cui poca trasparenza circa le registrazione e gestioni dei dati ci sarebbe peraltro molto da dire). La conseguenza più grave è che il rapporto con queste famiglie si è incrinato e la scuola è diventata la causa della loro frustrazione, l’oggetto contro cui si è riversato l’odio per un sistema che non aspetta chi rimane indietro.
La mancata partecipazione alle lezioni a distanza accresce l’esclusione di questi ragazzi che vengono così estromessi dal conforto della presenza dei compagni, seppure in schermo. Nei casi di alunni con svantaggio socio-economico, l’esperienza ci insegna che la frequenza scolastica e la presenza durante la didattica sono fondamentali. Ti accerti che l’alunno non resti troppo distante dai compagni di classe e sia incluso sotto tutti i punti di vista. Ma se la tua presenza fisica e il supporto pedagogico e didattico vengono meno questi ragazzi rischiano di restare pericolosamente indietro.
L’altro dato a mio avviso interessante, che offre un quadro dello stress psicologico cui sono sottoposti i ragazzi, è che molti di loro fanno lezione con gli animali domestici nascosti sulle gambe. La dimensione domestica dell’insegnamento di certo non è un’alleata. Il docente irrompe nelle camerette molto spesso condivise con i fratellini e il vociare familiare della cucina dove si sta preparando il pranzo si mescola a quello di chi al pc narra le gesta di Enea.
Il legame emotivo necessario a qualsiasi rapporto pedagogico efficace, da non intendersi con l’idea melensa del docente sensibile cui mancano i “propri ragazzi”, passa inevitabilmente anche per la prossemica o attraverso la disposizione dei corpi nello spazio dell’aula. La lezione fatta in cerchio, la possibilità di spostarsi nel giardino scolastico per l’ora di letteratura, l’utilizzo dei laboratori di scienze e arte, il peer tutoring, sono tutte condizioni difficilmente riproducibili. Inoltre le piattaforme ti consentono di oscurare il video degli alunni, di silenziare le loro voci, di escluderli dalla lezione, creando una dimensione fortemente gerarchica fin nello scambio comunicativo. Per quanto innovativa si voglia far passare la didattica a distanza, essa si configura come quanto di più frontale si possa immaginare e costringe la scuola e l’insegnamento a una regressione.
Alla domanda se gli piacesse questo nuovo modo di fare scuola due ragazzi hanno risposto: «A me piaceva quando ci mettevi in cerchio, prof»; «è come se ci fosse un recinto intorno a noi che non riusciamo a oltrepassare». D. ed S. articolano con la saggezza dei dodicenni tutto il mondo-problema della Dad. Ci stanno parlando della mancanza di socializzazione tra pari, del venir meno del patto formativo e di una scuola realmente inclusiva. E questo accade nonostante la scuola ci sia e ce la stia mettendo tutta per essere presente. (marilisa moccia)
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