Ci siamo passati tutti, più o meno. I giovedì universitari all’epoca erano i mercoledì. Una manciata di euro per entrare e alcool economico. Il Rising, il Velvet e lo Sputnik. Non sono passati dieci anni, o forse si, ma quel casino, quella musica, quella puzza di fumo sembrano lontanissimi. Probabilmente la storia si ripete anche ora, in quei buchi che erano underground solo perché scendevi davvero sotto terra. Ma a tutti piace pensare di essere stati gli unici, o almeno i primi, e così non si va a controllare cosa succede oggi lì dentro.
Quando vai all’università e hai come unica preoccupazione quella di (non) seguire i corsi, il mercoledì non è troppo differente dal venerdì. Basta della musica decente e quattro mura. Qualche amico la chiamava ’a musica d’e nire, per qualcuno più sofisticato o che era appena tornato dagli Stati Uniti, era Urban Sound. Hip hop, bashment, soprattutto. Ma pure funk, soul, e qualsiasi cosa che suonasse a “vibrazioni positive”. «Una musica un po’ emarginata», raccontano loro oggi. «I centri sociali la boicottavano perché Capleton, perché i testi omofobi, e roba di questo genere. Noi le parole nemmeno le capivamo, ci piaceva la musica. Anzi qualcuno le riusciva a capire, diciamo la verità e gli piacevano pure. Dai locali eravamo fuori perché eravamo considerati poco “produttivi”. Il nostro pubblico si fumava le canne e beveva poco, dicevano. Tante grane e pochi soldi».
All’epoca dei mercoledì sera al Rising, due o tre anni pieni di gente a metà dei Duemila, quelli della banda erano già i Contrabbandieri d’ammore. Prima c’era stata la crew della Ma.Gi.Ca. Riddim, gli Orfanelli Push in Town e il Comitato Lavori Proibiti. La linea era sempre la stessa: prendere dischi, suoni “proibiti” e contrabbandare. Le regole ferree, sancite da volantini e manifesti. Siamo, vogliamo, facciamo. Paghella detta la linea: «Un po’ come i futuristi». A rileggerli ora sembra fanatismo, e forse lo era davvero:
Siamo diventati ciechi, sordi e muti
da soli siamo incompleti
troppo occupati a risparmiar energia per produrre
che ci siamo completamente scordati
che l’amore è rumore.
Anche le regole erano ben definite. Sempre insieme, nei locali e fuori, sempre uno di fianco all’altro; se qualcuno ha problemi economici, per ascoltare, fare, suonare, ci si aiuta a vicenda; per le serate non si prendono soldi, o meglio quelli che si prendono si reinvestono nelle cose della banda. Oggi, che intorno tutto è cambiato perché nulla cambi, serate così non ce ne sono troppe. «Col CLP facemmo il primo concerto dei Sangue Mostro. Oggi abbiamo un letto a disposizione in tutte le capitali d’Europa», dicono spavaldi. In effetti tanti contrabbandieri sono andati via. Studenti che ora sono professionisti o comunque lavoratori e rispettabili cittadini. Anche chi è rimasto è diventato assistente di volo, grafico, guida turistica. Ma la banda è in piedi anche se non suona più così spesso.
Il Papa, Paghella, Dea, Bomber, Pica, Binnu, Leone, Stellina, Marsigliese. Intervistarne uno è intervistarli tutti, come quando volevi mangiare una pizza con il Papa e ti ritrovavi al tavolo trenta persone. Per cui le date si accavallano, i ricordi, i dischi. I riti e gli aneddoti che se non c’eri non capisci nulla ma va bene così. «Eravamo diventati tanti, ma mai troppi. C’è chi la chiama family, chi factory, noi la chiamiamo banda». Quando c’è troppo casino parla il Papa per tutti: «Una banda abbastanza cazzuta. La paranza iniziale frequentava la Fonoteca, al Vomero, che all’epoca era solo un negozio di dischi. Poi c’erano altri venuti dal mondo hip hop, che ruotavano attorno ai 13 Bastardi. Li conobbi quando Zin distrusse il Tempo Rosso a Caserta, perché non gli avevano pagato la serata. Tutta gente che sapeva fare. Tufano, che faceva con i dischi delle cose assurde. E noi ci chiedevamo perché questo non dovesse suonare nei locali, e perché posti dove fare la musica che piaceva a noi, come piaceva a noi, non ce n’erano».
Frassanito, l’isola del reggae. Estate, birra, un sacco di fumo e quaranta gradi. Jovine avvicina il Papa. Dobbiamo fare qualcosa quest’inverno. E facciamola. «Così tornati a Napoli ci presentiamo al Rising». Vogliamo fare qualcosa, dacci la serata in cui lavori meno. Pigliati il mercoledì, non c’è mai nessuno. E così nasce il contrabbando. «Per due anni, tutti i mercoledì, non si è capito niente. Tre-quattrocento persone ogni volta. A quel punto ci inventiamo un reality: chi salta un mercoledì, è eliminato. Arrivati a una quarantina la cosa non finiva più. Sempre tutti presenti, e per scremare ci si inventava roba assurda. Eliminazioni perché si era andati via un quarto d’ora prima della fine, o un altro perché lo scoprimmo a comprare un libro! Lui si giustificò dicendo che lo doveva regalare, ma ormai era fuori. Una volta uno della banda fece un incidente col motorino, e portò i documenti dell’assicurazione come giustifica. Solo che era il barman del locale… non si preoccupava del posto di lavoro, ma del reality».
Quel reality lo vince Dea, nella banda dai tempi dello Sputnik. Spiegare delle “macchine gialle” tocca a lei, ma se non hai fumato abbastanza non può farti ridere come a loro. «Ci cacciavano dai locali, diventavamo molesti. A Pozzuoli una volta ci hanno mandato via tre volte dallo stesso locale». Continua il Papa: «Quella sera arrivo in consolle, metto un disco: Major Lazer prestato da Zio Binnu. Parte e accendo la canna. Cacciati. Seconda volta, in pista, cacciati. Terza, fuori il locale, perché ci mettemmo ad aprire torte e bottiglie varie. Alla fine ci mandano via anche dal parcheggio, ma perché dovevano chiudere».
Nella nostalgia del ricordo, buchi come il Sanacura, lo Sputnik, il MuMu e il Velvet diventano templi della musica. «Di solito andavamo a rifondere, e quando i soldi c’erano si reinvestivano in dischi, materiale, magliette, adesivi. Una volta facemmo un festival stupendo, N.I.C. – Nati in canotta, al lido don Pablo a Ischitella… e ci rimettemmo un sacco. La regola era che gli artisti, tutti, potevano bere quanta birra volevano. Nelle foto di quella serata Tonia e Luisa, che erano al bar, stanno sempre coricate per terra, fradice. E ognuno degli artisti ha almeno tre birre in mano».
Alle serate del contrabbando c’è di tutto. I pankabbbestia, chi ascolta il reggae, lo studente, lo studente che frequenta il centro sociale, lo studente che va a ballare, il tizio che va in curva allo stadio. Anzi tutte e due le curve, e in quegli anni i rapporti non erano sempre ottimi. «Poi una sera al Rising c’è il concerto di Jovine. Arrivo e trovo biglietto di ingresso, transenne, privé, tutte cose che noi rifiutavamo. Ci fu una specie di scissione. Col tempo capimmo che le cose stavano cambiando, per vari motivi. Primo: ci speculavano addosso. I proprietari dei locali si facevano i soldi su di noi che invece portavamo avanti un discorso di non lucro. Secondo: a una serata nostra, tutti i contrabbandieri dovevano poter entrare e uscire senza pagare, e chi aveva un locale non sempre era d’accordo. Terzo: per qualcuno di noi, intanto, la musica era diventata un lavoro e non era più il caso di chiedere, a chi ci viveva, delle serate gratis. Nel frattempo c’eravamo avvicinati all’ambiente dei centri sociali. Qualcuno veniva alle nostre serate, come i ragazzi di Bababoom, Bruciatown. E così abbiamo iniziato a suonare nei posti occupati».
Come per le sigarette, i contrabbandieri oggi non ci sono più. O forse si, sono solo meno visibili. L’ultima parola la mette ancora il Papa: «Una vera fine non è stata sancita, perché in fondo la banda è in piedi, e perché sarebbe stato solo auto-celebrativo. Di fatto chiunque di noi può usare quel nome, rispettando le regole. Ma qualcosa negli ultimi due o tre anni è cambiato: chi è andato via, chi si è fatto una famiglia, io che per un periodo ho aperto un pub ed ero pieno di lavoro… non eravamo più in grado di portarla avanti come si deve, e ci siamo fermati. Ma serate brutte con poche persone non ne abbiamo mai fatte, ci siamo fermati prima».
Metto la chiave nella toppa. Sfilo il giubbotto, appoggio le chiavi sul tavolo. Apro l’armadio per appenderlo. Istintivamente mi trovo a rovistare in un cassetto. Sulla stoffa nera c’è un’immagine gialla. Lo schermo di un video-poker, il video-poker del contrabbando. I volti stilizzati di Maradona-Giordano-Careca. La Ma.Gi.Ca. Poi un’altra faccia, coperta a metà, che a chi non la conosce non ricorda nulla. Qualcuno dice che le opere d’arte e le fotografie non vanno spiegate, perderebbero di senso. Questa roba è più profana, ma vale la pena lasciarla com’è, senza dir nulla. Alcune lettere gialle sono un po’ sbiadite, ma si legge chiaramente: NON È UN SOUND, NON È UNA PARTITA. È UN SEMPLICE STILE DI VITA. Rimango a guardare per qualche secondo la maglia che mi ha regalato mio fratello. Sono contagiato dal contrabbando, ormai. La piego, e la rimetto al suo posto. Come tutte le cose belle che vale la pena ricordare. (riccardo rosa).
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Ce ne sarebbero voluti molti più di 13 di Bastardi per distruggere il Tempo Rosso. Io mi ricordo di una grande figura di merda che fecero questi signori e della loro rocambolesca fuga mentre i compagni del TR li inseguivano prendendoli a calci nel culo.