Alcuni difensori preferiscono condurre “controesami” aggressivi, stressano emotivamente il teste smontando e rimontando le risposte rese. Oltre al tentativo di indebolire la ricostruzione offerta dai testimoni della Procura, l’obiettivo è di recuperare agli occhi della Corte lo svantaggio iniziale provocato dalla notifica dell’ordinanza cautelare. In quella fase del procedimento, la Cassazione, pronunciandosi sulle esigenze che motivavano le misure, ha espresso una posizione netta indicando la Mattanza come un cruento episodio di tortura. Il tempo del processo ha raffreddato gli animi e la macchina procedurale, che ha la finalità di comporre i conflitti riaffermando l’ordine costituito, ha trasformato il collasso umano e istituzionale del 6 aprile 2020 in una asettica partita di scacchi.
Tuttavia, nonostante la vivisezione dei frammenti del giorno della perquisizione, tentativo degli avvocati degli imputati per assorbire gli eventi più pesanti, alcuni elementi fattuali emersi in questi primi mesi di dibattimento non passano inosservati. L’inquadramento offerto dal magistrato di sorveglianza, il dott. Puglia, è molto preciso. Dopo aver effettuato video-colloqui con i detenuti qualche ora dopo la “perquisizione”, il giudice si era accorto dell’atteggiamento ostile di alcuni agenti e ha ispezionato l’istituto pochi giorni dopo la Mattanza.
P.M.: Che tipo di comportamento hanno assunto nei suoi confronti nell’espletamento della visita ispettiva?
Teste: Non collaborante.
P.M.: In che senso non collaborante?
Teste: Diciamo che c’è un episodio, una circostanza che per me fu all’epoca rappresentativa, perché io devo ammettere che nella concitazione del momento dimenticai scioccamente di portare con me una penna. Per cui avevo necessità di una penna per scrivere, per appuntarmi ancora una volta i nominativi, se c’erano dei nuovi che dovevo segnarmi, per appuntarmi anche ciò che stavo vedendo. Chiesi più e più volte di avere una penna, questa penna non arrivava mai, non mi fu mai data, tant’è che a un certo punto io sbottai e dissi: “Va bene, non mi serve più la penna, scrivo sul mio cellulare”, per cui presi il mio cellulare e iniziai a scrivere sugli appunti, sull’app degli appunti del mio cellulare.
P.M.: Quindi proseguendo nel racconto di questa visita ispettiva?
Teste: Quindi io continuai, dopo aver avuto questo breve dialogo con Irollo, continuai a camminare sul piano, come dire, nel corridoio constatando poi le condizioni in cui si trovavano i soggetti ivi ristretti. In particolare, richiamò la mia attenzione il detenuto Cocozza e la richiamò chiedendomi di potermi parlare e durante questo breve dialogo mi mostrò che aveva indosso una maglia sporca di sangue e stracciata e mi disse che quella maglia la indossava dal lunedì, quindi dai fatti del lunedì 6 aprile, che non gli era stato consentito di recuperare i propri beni personali al Nilo, non gli avevano sostanzialmente fornito il cambio di biancheria intima, ma neanche gli indumenti necessari. Per cui io durante questo dialogo entro nella cella di Cocozza e vado in bagno e in bagno verifico che non c’è nulla…
P.M.: Ha avuto modo di constatare se avevano la biancheria da letto?
Teste: No, non c’era biancheria da letto, in nessuna delle celle che ho visto c’era biancheria da letto.
P.M.: E ha avuto modo di constatare direttamente le lesioni che riportavano i detenuti?
Teste: Sì, ovviamente la prima cosa che pure fece Cocozza fu quella di mostrarmi la maglia piena di sangue e di mostrarmi poi abbassando la maglia i lividi che aveva anche sulle spalle e quindi sì, aveva effettivamente dei lividi che mi mostrò.
Lo scontro istituzionale è riportato senza mezzi termini. L’amministrazione penitenziaria e il corpo di polizia stavano portando a termine un piano risolutivo, una sorta di “soluzione finale” per placare il reparto dei diavoli e lo stavano facendo nello spazio ritenuto di loro esclusiva “appartenenza”. Lì dentro “buttano il sangue” tutti i giorni portando a termine la delicata missione sociale di smaltire e neutralizzare la crescente massa degli esclusi. Sanno quando, come e cosa fare. L’ingresso del magistrato non era previsto, le reazioni sono state evidenti. Il dott. Puglia si era presentato al posto giusto nel momento sbagliato.
Nel nostro modello processuale – che riproduce internamente principi, schemi e valori dell’attuale sistema di classe – la testimonianza di un professionista ha un enorme valore conoscitivo sia per una questione di “riconoscibilità interna” da parte degli operatori giuridici, che per una chiarezza di ragionamento difficilmente riscontrabile nelle dichiarazioni dei testimoni provenienti dal “sottomondo” (ci torneremo tra un po’), per questo quella offerta da Puglia è molto importante.
Le smorfie scandalizzate impresse sul viso dei giudici non togati della Corte hanno mostrato l’impatto emotivo della video-analisi effettuata dal teste Medici. Il carabiniere ha selezionato secondo criteri di efficienza e di rilevanza le tante ore videoregistrate per proiettarle in sede di esame. Il controesame si è fondato anche sulla validità della selezione che restituirebbe, secondo le critiche delle difese, una visione faziosa… ma questa valutazione è rimandata all’esito del dibattimento. Anche se non riusciamo a comprendere come possano influire le ore in cui, comprensibilmente, non si sono verificate violenze rispetto alla valutazione delle torture. Non è possibile far scomparire alcune immagini. Detenuti trascinati e presi a calci, alcuni messi in ginocchio con la faccia rivolta verso il muro e colpiti da raffiche di manganellate e pugni.
Teste: Alle 16:28:38 abbiamo la scena che prima avevo annunciato, ossia il Loffredo Antonio che, portato all’interno dell’area della rotonda, ha un mancamento, sviene; questa cosa gli ha permesso di evitare di essere portato al passeggio.
P.M.: Andiamo avanti.
Teste: Alle 16:29:14 il Loffredo sviene. Dopo qualche secondo, prima che qualche agente si accerterà se gli sia veramente successo qualcosa, riceverà dei calci.
Nelle ultime udienze di luglio hanno iniziato a deporre i detenuti, persone offese del processo. Il primo a essere esaminato è stato Esposito Ciro, uno dei quattordici detenuti deportati dal Nilo al Danubio all’esito della “perquisizione”. Il dialogo è stato difficile. Esposito, classe ’78, si espone in modo disordinato, porta con sé l’etichetta della “doppia diagnosi” di “tossicodipendente psichiatrico” come tanti che affollano la detenzione comune. Durante le prime ore di udienza sembrava intimorito e smarrito, non è abituato ai maxiprocessi in Corte di Assise. Non è stato sempre preciso, alcuni ricordi risultano un po’ sfocati, altri dimenticati per proteggersi dalla memoria delle violenze. Pesano anche i tentativi di suicidio fatti dopo il 6 aprile, ma nonostante tutto questo alcune scene sono assolutamente chiare:
P.M.: Dove siete scesi, dove siete andati?
Teste: Giù, giù.
P.M.: Piano terra?
Teste: Piano terra, dove sta l’ispettore. Abbiamo parlato, dice: “Fate una cosa pacifica, non scassate niente, che al Volturno successe un casino, facciamo venire il Magistrato di sorveglianza”. Noi l’abbiamo fatta fino a mezzanotte, poi stanno i video, a mezzanotte abbiamo levato le brande, ce ne siamo entrati: è venuto il Magistrato, dopo che se n’è andato è successo un macello.
Esposito ha ricordato i dettagli della protesta del 5 aprile evidenziando l’accordo organizzativo con i dirigenti della polizia penitenziaria per richiamare l’attenzione della magistratura di sorveglianza. Nonostante i toni accesi, il rientro di tutti i detenuti in cella segnò la fine pacifica dei disordini. Infatti, il prosieguo degli eventi ha dimostrato che la rottura del patto non è avvenuta per motivi di sicurezza.
Dif. Imputato: Quindi la protesta era per lei di dover parlare con il Magistrato?
Teste: Stavo anche io.
P.M.: Mi oppongo, è stata ripetuta cinquecento volte questa cosa, che lo scopo era quello di voler parlare con il Magistrato di sorveglianza, l’ha detto tante volte, abbiamo parlato del Covid.
Dif. Imputato: Presidente, io ho chiesto se la sua motivazione fosse parlare con il Magistrato di sorveglianza, non di tutti, la sua.
Teste: Avvocato, ma a me che me ne fotteva, tutti i detenuti sono scesi e hanno parlato e si risolveva la cosa e si è risolta perché ci hanno dato mascherine e tutta questa roba. Non ho capito io il giorno dopo perché è successo tutto questo.
Dalla prospettiva di Esposito al massimo qualcuno avrebbe potuto avere qualche sanzione per qualche “malaparola”, ma l’odio mostrato nella rappresaglia del giorno successivo rimane inspiegabile. Riteniamo che l’“incomprensibile” possa trovare senso solo quando si osserva l’“operazione finale” nel complesso: l’obiettivo non era reprimere una situazione eversiva ma terrorizzare la sezione, sedare il reparto, punire i rompicoglioni e trasferirli.
* * *
Un’istituzione al collasso segna delle traiettorie non sempre prevedibili, converge verso il proprio centro ripetendo gli stessi movimenti in modo scomposto, clonando grottescamente le ideologie, e comincia a ricadere su sé stessa. Eppure, quello che accade nelle discese ripide è spesso inaspettato.
La routine sterilizzata del processo si è interrotta bruscamente quando un avvocato ha preso la parola prima che la Corte iniziasse i lavori previsti per la giornata.
Presidente, ne approfitto dell’organizzazione solo per comunicarvi che l’avvocato Lucio Marziale, che difende la posizione della parte civile Fakhri Marouane mi ha appena notiziato, quindi mi sembra opportuno notiziare anche la Corte qui, che il suo assistito purtroppo si è dato fuoco in carcere a Pescara. È in condizioni gravissime, tanto gravi che è stato trasportato in eliambulanza sabato a Bari, dove attualmente è ricoverato.
Il ragazzo marocchino aveva trent’anni ed è morto dopo due mesi di agonia in quell’ospedale. Era nel gruppo selezionato dei quattordici il giorno della Mattanza, prelevato con la forza dalla sua cella, aveva percorso il “corridoio umano” prendendo diversi pugni e calci. Un frame della videosorveglianza ha colpito anche il carabiniere Medici: dopo il corridoio, giunto nella saletta della socialità, Fakhri è costretto a inginocchiarsi al cospetto degli agenti e a strisciare fino al muro della stanza; alzarsi in piedi e poi inginocchiarsi di nuovo dinanzi all’altro agente di polizia. Trasferito al Danubio ebbe qualche scambio con Hakimi prima della morte di quest’ultimo.
Persone che lo hanno seguito durante il trascorso detentivo ci hanno riferito che non parlava spesso delle torture subite perché era deciso a mettersi quel passato alle spalle. Rappresentava il prototipo del detenuto modello che ogni tanto viene sponsorizzato dall’amministrazione quando, come un buon magliaro, tenta di rivendere l’immagine di un’istituzione efficiente, funzionante e rispettosa dei principi costituzionali ed europei. Andava a scuola, era appassionato della Divina commedia e stava assaporando la libertà con permessi premio. Dopo Santa Maria Capua Vetere era stato trasferito nel carcere di Ariano, dove aveva intrapreso la strada che lo avrebbe probabilmente espulso dal buco nero dell’esecuzione penale. Era stato tradotto da quasi un anno all’istituto di Pescara e lì si è dato fuoco. In che modo e perché lo ha fatto? Le ustioni gravi coprivano il corpo per il settanta per cento circa; quindi, la sua carne ha dovuto bruciare per qualche minuto: una torcia umana in sezione. Lo hanno soccorso? In quanto tempo? Il fratello ha presentato un esposto alla Procura competente.
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