Martedì 20 giugno. È quasi ora di pranzo quando il giudice per l’udienza preliminare Pasquale D’Angelo dichiara chiuse le discussioni e decide di ritirarsi in camera di consiglio. Gli agenti che hanno scelto di procedere con il rito abbreviato per le accuse ricevute in seguito alle violenze perpetrate sui detenuti nell’aprile 2020, al carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono due (su centosette imputati). Rispondono per numerosi capi di imputazione, tra cui abuso di autorità – aggravata dalla minorata difesa – lesioni, maltrattamenti e tortura.
Nel corso della discussione il pubblico ministero aveva ritenuto che la responsabilità dei due fosse provata e ne aveva chiesto la condanna a sei anni di reclusione, nel caso di Angelo Di Costanzo, e tre anni e otto mesi, per Vittorio Vinciguerra. A quest’ultimo, tra le varie accuse, era contestata l’aggressione ai danni di un detenuto avvenuta il 10 marzo 2020, quasi un mese prima dei pestaggi di aprile, episodio che ha messo in evidenza il senso di impunità, la violenza cieca e sistematizzata che attraversa quotidianamente i reparti detentivi, e che si era ulteriormente acuita durante i primi mesi di pandemia. Il recluso aggredito, nel caso specifico, era stato appena trasferito a Santa Maria dal carcere di Velletri, ma era stato accolto in Campania da una valanga di insulti, calci e pugni.
In sede di repliche alle discussioni delle difese, per provare il coinvolgimento di Di Costanzo e Vinciguerra, i pm avevano proiettato alcuni video dai quali era possibile riconoscere e individuare almeno uno degli agenti imputati. La loro partecipazione ai fatti contestati era stata inoltre provata dalle deposizioni di alcuni detenuti, tutte coerenti tra loro anche perché, per uno degli imputati, tutti ne avevano indicato senza esitazione la qualifica di “addetto alle domandine”. C’erano inoltre, a sostegno della tesi d’accusa, gli ordini di servizio che attestavano la presenza degli agenti nella struttura sammaritana quel 6 aprile 2020, così come confermato da altri coimputati escussi durante le indagini. Uno di loro, in particolare, è l’autore di un messaggio di “chiamata alle armi” su Whatsapp indirizzato ai propri colleghi, in cui chiedeva con veemenza agli altri agenti di recarsi in tuta operativa al carcere per “chiudere il (reparto) Nilo”, dal momento che “il tempo delle buone azioni” era finito.
È quasi ora di pranzo, al bunker di Santa Maria, ma il dispositivo viene annunciato per il pomeriggio, non prima delle cinque, a seguito di un’attesa che risulterà snervante per tutti, considerando anche il caldo insopportabile. Passate anche le cinque, ci vorrà più di una ulteriore ora prima che il giudice entri in aula e legga velocemente la sentenza. La formula è netta: assolti per non aver commesso il fatto. Certo i reati contestati esistono, sono stati commessi, ma non vi è certezza, “oltre ogni ragionevole dubbio”, che siamo stati gli imputati giudicati in questa sede a esserne colpevoli.
La pronuncia del dispositivo è preoccupante, anche alla luce del dibattimento che vede imputati tutti gli altri agenti e dirigenti, dove l’eco di quest’assoluzione avrà di certo un peso. Questa sentenza ci dice infatti (in attesa delle motivazioni, attese entro novanta giorni) che potrebbero non essere sufficienti i riconoscimenti dei detenuti, le precise descrizioni delle condotte perpetrate a loro danno, i resoconti dei coimputati, per una condanna. A eliminare i “ragionevoli dubbi” su quanto accaduto vi dovranno essere immagini inconfutabili, estratte dai video, e se queste non dovessero essere ritenute tali, gli agenti potrebbero essere assolti.
Gli sforzi investigativi di questi mesi e l’importante mole di prove fornite non sono stati ritenuti abbastanza per sferrare al “sistema carcere” un colpo che evidentemente si teme troppo destabilizzante. La sentenza di martedì rende chiaro come al complesso e compatto blocco di potere finito sul banco degli imputati sarà concessa la possibilità di mettere in campo tutte le strategie esistenti, così come è possibile notare rileggendo le precedenti puntate di questa rubrica. Strategie che renderanno arduo e vacillante il percorso di accertamento delle responsabilità, e più profonde, e frustrate, le sofferenze psicologiche e i traumi inferti alle centinaia di detenuti torturati nella Mattanza della Settimana Santa. (napolimonitor)
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