Venerdì 29 novembre 2019. Arrivo in corso Lucci un po’ in ritardo per via del traffico di piazza Garibaldi – ogni giorno passano di lì 36 mila automobili. È il giorno in cui si celebra, dopo anni di cantieri, l’apertura del lato nord della piazza alla presenza del sindaco de Magistris e del ministro dei trasporti De Micheli. L’ingresso in stazione, il parcheggio, duecento alberi, aree attrezzate, un campo di basket, uno di calcetto e un’arena per spettacoli; la piazza ha un volto nuovo e per la prima volta sembra poter essere abitata dai residenti oltre che attraversata dal traffico; tra loro i musulmani che negli anni hanno aperto negozi e ristoranti halal, e che si ritrovano nelle moschee della zona.
È giorno di preghiera e vedo arrivare da piazza Garibaldi molti uomini in piccoli gruppi, tra loro si salutano e si baciano, camminano verso la moschea storica della città. Io sono all’ingresso, al civico 58 di corso Lucci; aspetto Amar Abdallah, imam e presidente della Comunità Islamica di Napoli che arriva dopo poco accompagnato dal figlio Hareth. Ci salutiamo velocemente e ci diamo appuntamento alla fine del rito al quale mi invita ad assistere.
C’è un certo ordine nel traffico di uomini che entrano in moschea, tolgono le scarpe da riporre sulle mensole, si lavano nella sala per le abluzioni rituali e scendono le scale per sedersi in fila ad ascoltare la khutba, il sermone del venerdì, prima della preghiera. Gli ultimi si affrettano ma c’è ancora qualche posto nella sala grande, coperta dai tappeti disposti in direzione di Mecca. Il rito è fatto di parole e gesti che si ripetono e che ripetendosi si trasmettono per esistere nel tempo e in uno spazio altro, non islamico, a Napoli. Un uomo entra accompagnato dal figlio che imita e ripete i movimenti, le parole e le genuflessioni del padre; è la trasmissione del sapere religioso da una generazione a un’altra. Parla Amar Abdallah e parla in arabo, la lingua del Corano, del rito, ma non della maggioranza degli astanti – sono più di venti le nazionalità presenti. Hareth, quindi, ripete le parole del padre e le ripete in italiano. È la trasmissione del sapere e dell’autorità religiosa.
Finita la preghiera Amar Abdallah è circondato dai fedeli che lo salutano e scambiano qualche parola con lui. Lo raggiungo e mi presenta agli altri prima di invitarmi nell’ufficio al piano di sopra per continuare a parlare. Se la Comunità Islamica di Napoli è l’associazione e il luogo storico dei musulmani della città, Amar ne è la memoria. Io ne approfitto per fare domande, prendere appunti, ricordare e ricostruire le trame.
Quella della Comunità di Napoli ricalca la storia dei musulmani in Italia. Risalendo alle sue origini si notano le trasformazioni comuni alle altre organizzazioni islamiche sul territorio nazionale nonostante la peculiarità della città. La prima organizzazione di musulmani in Italia è quella degli studenti, l’USMI (Unione degli Studenti Musulmani in Italia), che negli anni Settanta oltre alle sezioni nelle università apre piccole sale di preghiera in diverse città, quasi esclusivamente nel nord, e a Napoli in piazza Garibaldi e poi in piazza Dante. I musulmani sono ancora pochi, provenienti soprattutto dal Medio Oriente e da poche altre aree per motivi di studio.
Negli anni Ottanta e Novanta il numero dei musulmani cresce, soprattutto maghrebini, senegalesi, egiziani e poi albanesi. Raggiungono l’Italia – e la Spagna – dopo la chiusura delle frontiere dei paesi dell’Europa nord-occidentale in seguito alla crisi economica e al riassetto politico globale degli anni Settanta. L’intenzione è di raggiungere l’Europa del nord ma poi decidono di restare in maniera definitiva. Come è ovvio, cambiando le prospettive cambiano le esigenze e le richieste. All’inizio degli anni Novanta nasce l’UCOII (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia), che ingloba l’USMI e che, prima tra le altre e con più forza, organizza le richieste dei musulmani per il soddisfacimento dei diritti relativi al culto. Nasce contemporaneamente il primo vero e proprio luogo di culto islamico a Napoli, la Comunità Islamica del Sud – poi Comunità Islamica di Napoli – nei pressi di piazza Nazionale, in via Parma 54. È il 1990. Passano quattro anni, la comunità dei fedeli cresce e la sede si sposta in corso Lucci.
L’USMI, l’UCOII e la Comunità Islamica di Napoli sono fili della stessa trama. Amar Abdallah mette in fila le date, i nomi e le attività della Comunità di Napoli che dichiara autonoma e con buone relazioni con tutte le organizzazioni islamiche e con gli altri luoghi di culto della città. A emergere sono le tracce della storia dei musulmani a Napoli, storie di migranti e di figli dell’esperienza migratoria. Ai primi la moschea distribuiva la traduzione in arabo della legge Martelli (legge n. 39/1990), il primo provvedimento normativo per regolare l’immigrazione e la presenza degli stranieri sul territorio nazionale italiano. Ai secondi si impartiscono lezioni di arabo e di cultura islamica nei locali ampi di corso Lucci.
È lì, in una delle classi, che incontro Hamid, studente di medicina che siede in uno dei banchetti con i suoi libri aperti e i quaderni pieni di appunti. Mi dice che è cresciuto tra quei banchi e ora ci va anche per studiare in vista degli ultimi esami universitari. La scuola esiste da sedici anni, oggi un centinaio di persone segue i corsi tra gli adulti del sabato e i ragazzi della domenica. Amar Abdallah accompagnandomi verso l’esterno mi mostra la divisione delle aule e mi dice che la moschea offrirà questo servizio fino a quando non sarà possibile studiare arabo e cultura islamica nella scuola pubblica italiana. Questa è la prospettiva dei musulmani che hanno deciso di restare in Italia, a Napoli, di quelli che ci sono nati e cresciuti. È la prospettiva di chi abita una città e decide di farne il luogo dove abiteranno i propri figli. È anche per questo che la Comunità Islamica di Napoli ha comprato dei locali in via Spaventa dove si trasferirà nel prossimo futuro lasciando la sede in affitto di corso Lucci.
Prima di salutarci andiamo al bar di fronte alla moschea dove ci aspetta Hareth per un caffè. Provo a pagare ma il barista rifiuta le mie monete. Sono ospite di Abu’l-Hareth, l’altro nome con cui è noto il presidente della Comunità tra i confratelli. Abu’l-Hareth significa il padre di Hareth, a testimoniare che nel figlio il padre esiste, e a me sembra ancor più chiaro che l’islam a Napoli – e altrove – esiste e si trasmette di padre in figlio. (nicola di mauro)
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