Il titolo del volume di Sandro Moiso e Giulia Strippoli, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico 1974-1975 (Mimesis 2024), evidenzia le chiavi di lettura attraverso cui gli autori hanno affrontato la Rivoluzione dei garofani portoghese. Oltre a occuparsi di quella che è stata, è bene ricordarlo, l’unica rivoluzione che si è data in Occidente nel secondo dopoguerra e che ha messo fine al più antico regime fascista europeo, gli autori si focalizzano sulle speranze e sull’immaginario politico ed esistenziale con cui, fuori da quel paese, si guardò all’evento portoghese, soprattutto tra i militanti di Lotta Continua, diversi dei quali decisero di viverlo in prima persona recandosi sul posto.
Moiso e Strippoli riflettono sia sull’incidenza di quella rivoluzione sulle speranze e sull’immaginario della sinistra extra-parlamentare italiana, sia sulla “differenza che intercorse tra le aspirazioni di una generazione che del ribaltamento delle istituzioni sociali pregresse aveva fatto quasi la sua ragione di esistere e gli effetti concreti, e troppo spesso indesiderati oltre che inaspettati, che questo desiderio conseguì nella realtà dell’epoca e degli anni successivi”.
Analizzando il caso portoghese a partire dalla messa in discussione della guerra coloniale in Africa da parte di militari, gli autori evidenziano come, analogamente a quanto avvenuto in altri paesi nel corso del Novecento, la ribellione in seno alle forze armate abbia avuto un ruolo importante nella radicale messa in discussone della carneficina bellica. È forse anche per questo, per la rivolta dei soldati, che i fatti portoghesi, più di altri, sono stati accompagnati all’oblio. Insomma, su ammutinamenti e diserzioni all’interno delle forze armate è sempre meglio far scendere il silenzio.
Tanto i saggi di Strippoli e Moiso, quanto il diario “personalissimo” di quest’ultimo, presenti nel volume, intendono “abbattere il muro di omertà e rimozione che per quasi cinquant’anni ha fatto sì che della rivoluzione portoghese si parlasse poco oppure si tacesse del tutto. Così come si è anche fatto per il concreto agire e l’immaginario collettivo, spesso pre-politico, che accompagnò e fondò le grandi rivolte sociali e generazionali a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta”.
Dunque la scelta di dare ampio spazio alle “esperienze sviluppatesi dal basso e vissute con entusiasmo, dedizione e volontà di immaginare un mondo ‘altro’. Per descrivere la nascita di un nuovo paradigma politico non più basato soltanto sulla critica marxiana dell’esistente o, se si vuole, cercando di allargare quest’ultima a territori da cui si è spesso tenuta lontana, ritenendoli sovrastrutturali e secondari. Per dare vita a una storia dal basso, si potrebbe dire, che è l’unica e sola capace di illuminare non solo i vertici, ma anche il contorno sociale, culturale e politico di ogni singola vicenda e dei suoi protagonisti anche minori e meno noti”.
Nel saggio di Giulia Strippoli, ricercatrice presso l’Istituto di storia contemporanea dell’Universidade Nova di Lisbona, intitolato Partiamo per Lisbona e facciamola finita, vengono ricostruite le fasi principali che condussero ampi settori militari, stanchi della guerra coloniale, a un rapido processo di politicizzazione che pose le basi per il golpe prima e la successiva, e non prevista, rivoluzione che finì per avere “effetti sorprendenti e profondi sia per i suoi contenuti, sia per la straordinaria e inattesa mobilitazione popolare”. Si deve proprio al protagonismo popolare, andato ben oltre le aspettative della Giunta di Salvezza Nazionale, l’avvio di un processo teso a cambiare le condizioni lavorative, abitative e la partecipazione democratica alla vita del paese.
A partire dalle ricerche condotte sulla militanza di sinistra, in un secondo saggio, Lotta Continua e “il paese più libero d’Europa”, Strippoli approfondisce il rapporto dell’organizzazione italiana, che aveva iniziato a interessarsi della lotta contro il fascismo e il colonialismo portoghese da prima del 1974, con la Rivoluzione dei garofani, un colpo di stato pianificato che sfociò in una rivoluzione non pianificata, “in cui non solo le masse diventarono protagoniste, ma la storia sembrò prendere la direzione del socialismo, per le pratiche – i collettivi di democrazia partecipativa, le commissioni di lavoratori, le occupazioni, etc. – e per i contenuti – le nazionalizzazioni, la riforma agraria, la decolonizzazione, nonché per l’insistenza con cui i principali attori storici indicavano il socialismo come l’unico orizzonte politico possibile”.
Il ruolo giocato dai militari nella rivoluzione portoghese indusse Lotta Continua a guardare alla possibilità di una trasformazione interna delle forze armate italiane, dunque a dare vita alla stagione dei “proletari in divisa”. Fin dal colpo di stato, scrive Strippoli, Lotta Continua ha guardato al caso portoghese proiettandolo su scala europea e al lungo periodo, vedendo in esso il segnale di una possibile trasformazione del Sud Europa.
Eravamo giovani treni lanciati in corsa.
Eravamo trickster innocenti, abili bricconi.
Eravamo surfisti incoscienti che cavalcavano onde
più grandi del mondo che ci aveva generati.
Eravamo potenziali delinquenti giovanili,
ma, in un attimo e per caso, diventammo rivoluzionari.
Così inizia il corposo capitolo finale del libro, Riti di passaggio. Diario (personalissimo) di una rivoluzione occidentale e dell’immaginario che l’accompagnò, di Sandro Moiso, studioso di storia, questioni belliche e politica internazionale, oltre che attento indagatore dell’immaginario letterario, cinematografico e musicale nordamericano. Come evidenzia il titolo, il racconto riprende le vicende personali dell’autore che, come altri militanti di Lotta Continua, partì alla volta del Portogallo per vivere in prima persona quell’esperienza. Queste pagine, come sottolinea Moiso stesso, “non devono essere lette come nostalgiche memorie di una singola vita ma, piuttosto, come un tentativo di ricostruire il percorso di formazione di un nuovo immaginario politico collettivo e delle conseguenze e scelte che, nel bene e nel male, ne derivarono. Immaginario che si appropriò di parole e simboli che già erano presenti nella poesia, nel cinema, nella letteratura, nella musica e nelle canzoni, ma che tardavano a manifestarsi in forma autonoma nello specifico territorio del discorso politico”.
Quello di Moiso e Strippoli è anche un omaggio a chi, in quel periodo, ebbe l’ardire di girare le spalle alla noia e all’oppressione dell’esistente, all’arretratezza politica, culturale e ideologica di un’Italia ridotta a palude tradizionalista incline a perpetuare la messa in scena di una contrapposizione tra cattolicesimo conservatore e populismo perbenista democratico, in fin dei conti, del tutto speculari.
Estate 1975.
La strada si apriva davanti a noi srotolando paesaggi che rimandavano a Sergio Leone, Sam Peckinpah e John Ford.
D’altra parte la sacra triade del western aveva costituito per noi la vera scuola quadri.
Il Che e Camilo Cienfuegos, con le loro pistole al fianco, le barbe incolte e i cappellacci in testa ricordavano gli eroi del West riletti in chiave politica.
Destinazione Lisbona, dove la rivoluzione c’era davvero.
La sconfitta, scrive Moiso, non comporta per forza di cose “la fine di un viaggio ma, al contrario, può rivelarsi come l’inizio della ricerca di un altro percorso, per il quale il passato può costituire un bagliore che, per quanto labile, è capace ancora di fornire una luce di riferimento per i successivi cicli di lotte. Sempre diversi e sempre imprevedibili poiché sempre originati da nuove identità collettive, differenti generazioni, nuove contraddizioni e nuovi modi di immaginare il mondo a dispetto del tentativo continuo, e fortunatamente mai pienamente riuscito, di uniformarlo globalmente alle esigenze del modo di produzione dominante e al suo miserabile modo di vita e di consumo”. (gioacchino toni)
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