È a Milano fino al 2 giugno, presso lo Studio Museo Francesco Messina (via San Sisto, 4/a), Decade, una mostra di cyop&kaf.
Sarà possibile visitare la mostra dal martedì alla domenica, dalle 10:00 alle 17.30 (ultimo ingresso alle 17), con prenotazione obbligatoria per i fine settimana e i giorni festivi (ci si prenota 24 ore prima attraverso il circuito Vivaticket). Pubblichiamo dal catalogo in uscita un testo scritto da Luca Rossomando.
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Dieci anni fa – era una mattina di sole – accompagnai cyop&kaf a casa di Mario Persico, in fondo a una strada silenziosa e ombreggiata nel quartiere Vomero. Il vecchio pittore, classe 1930, ci fece accomodare in un ristretto soggiorno, occupato quasi per intero da un divano, due poltrone e una libreria calpestabile. Alle pareti le opere sue e quelle di altri protagonisti della pittura napoletana del dopoguerra, in gran parte sconosciuti alle nuove generazioni. Dal canto suo, Persico contrastava l’oblio prodotto dal tempo, dalle mode e dalle politiche culturali, sollecitando gli artisti più giovani a contribuire al Patapart, foglio aperiodico dell’Istituto patafisico napoletano, di cui lui stesso è il Magnifico Rettore. Gli chiedemmo di registrare l’incontro. Non ebbe niente in contrario e incominciò così: «Io posso parlare a lungo, so rubacchiare dal cassetto del critico d’arte, dello storico, del filosofo, però sono profondamente convinto che le arti plastiche e figurative siano arti del silenzio. Un silenzio che spesso viene letteralmente alluvionato dalla parola, perché sulle cose che meno sappiamo possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa, inventarci le teorie più suadenti… Certo, anch’io faccio parte della tribù umana, anch’io mi servo del linguaggio, eppure sono convinto che esista un sapere alternativo a quello logico-lineare, un sapere fatto di relazioni sotterranee, un flusso di echi e rispondenze della sensibilità, ed è questo sapere che ci permette di comunicare in modo più attendibile…».
In quel periodo cyop&kaf disegnavano ancora assiduamente sui muri. Non più lo spray, i vagoni ferroviari, le tag ripetute e ossessive di quando, ancora minorenni, si confondevano nel magma indistinto dei graffitari metropolitani. Il pennello e l’acrilico avevano sostituito le bombolette, le lettere e le immagini seriali erano diventate figure antropomorfe, sempre nuove, mutanti – come la loro identità di artisti, ormai separata del tutto dall’ambiente in cui era sbocciata, sebbene l’etichetta di writer gli sia rimasta appiccicata addosso ancora oggi. Nei Quartieri Spagnoli stavano realizzando – notte e giorno – una costellazione di più di duecento dipinti, utilizzando come supporto muri di pietra e di mattoni, porte di ferro e di legno, saracinesche arrugginite e vecchi portoni. Un omaggio al quartiere sotto forma di enigmi, di ipotesi ironiche, talvolta inquietanti, ma anche di interrogazioni che – giorno dopo giorno – diventavano esplicite domande, richieste agli abitanti dei luoghi di raccontare le loro storie, infine raccolta, trascrizione e assemblaggio di quelle voci, per formare, accanto alle immagini, uno stratificato “catalogo” che desse conto al pubblico, all’intera città, di un progetto polifonico, aperto – duplicato l’anno seguente in un altro luogo “universale”, esposto e allo stesso tempo invisibile, del meridione d’Italia: il centro storico di Taranto.
Due progetti complessi, eppure silenziosamente, meticolosamente autorganizzati; due “opere-mondo”, sofisticate eppure accessibili a tutti, anzi disponibili alla correzione, all’integrazione, perfino alla cancellazione degli abitanti dei due quartieri, che quasi ogni mattina – a Napoli come a Taranto – riconoscevano le modificazioni del loro habitat pubblico e non si facevano certo pregare per dire la loro. Gli artisti, sempre presenti, incoraggiavano questo dialogo, soprattutto se si trattava della richiesta di utilizzare i pennelli puntualmente avanzata dai più piccoli. Oggi, chi avrebbe mai l’ardire, ma anche solo la possibilità materiale, di “correggere” i nuovi edificanti murales sovvenzionati dal potere pubblico e privato, opere monumentali di venti o trenta metri d’altezza, inattaccabili, univoche, mute, che impongono la propria presenza sul diminuito paesaggio umano ai loro piedi?
Dal rapporto sempre più stretto con bambini e adolescenti dei Quartieri Spagnoli nacque Il segreto, un film girato in presa diretta nell’arco di quindici giorni, il tempo della raccolta infantile della legna da ardere nel grande falò del 17 gennaio, il giorno di Sant’Antonio. Costato i soldi di qualche panino, il documentario vinse il premio opera prima al festival Cinema du Réel a Parigi e arrivò in cinquina al David di Donatello.
Le musiche del Segreto sono di Enzo Avitabile. Nel libretto che accompagna il dvd, l’attore e regista Enzo Moscato, che in quei luoghi ha vissuto traendo ispirazione per molte delle sue opere teatrali, ha scritto: “Al di là di questo specifico e circoscritto significato bambinesco, sospeso tra stupori e umili magie d’infanti – paria, e ieri come oggi figli adottivi de’ Maronne (e dei Demòni) della strada –, io penso che il segreto latente e sottinteso che il film vuole suggerire (facendolo per di più con sottile ed elegante discrezione, senza inutili proclami politico-ideologici) è anche un altro, ed è l’eterna e incoercibile doppia natura o contraddizione genetica di Napoli: il suo presentarsi ogni volta così come uno se l’aspetta – così come uno l’ha sentita ‘leggendariamente’ raccontare – e, nello stesso tempo, il suo fuggire sempre, inafferrabilmente, a ogni attesa, a ogni riconferma di stantie e abusate convenzioni, di sterili e stantii luoghi comuni”.
Negli ultimi anni cyop&kaf hanno spinto più a fondo la loro ricerca, moltiplicando le forme espressive e mettendosi alla prova con linguaggi sempre nuovi. Non è un paradosso che a questo moto centrifugo dallo stile che a lungo li ha definiti, sia corrisposto un movimento in direzione opposta, rivolto verso l’interno: una maggiore profondità di scavo, un’ulteriore adesione ai loro temi d’elezione, alle ragioni ultime di una poetica.
I libri e gli articoli sulle miserie dell’arte pubblica, sui mutamenti della lingua, sul martirio dei giovani, dei poveri, dei marginali – pubblicati in libri e riviste di Napoli Monitor, l’impresa editoriale di cui sono ideatori e responsabili ormai da quindici anni; i laboratori con i bambini per il carnevale dei Quartieri Spagnoli; le serigrafie; le ceramiche; i film in preparazione; gli interventi mimetici sul monte Faito, in Basilicata, in Francia; le sculture di Solidi, messe in mostra per la prima volta nelle grotte di un acquedotto romano sotto il rione Sanità; sono tutti momenti di un’indagine in corso, sempre più coerente e compatta quanto più va sfrangiandosi e disseminandosi; un’indagine artistica fondata sulle relazioni e le rispondenze più intime, come direbbe Persico, ma svolta caparbiamente in pubblico, assolutamente immersa nel presente, senza timore di affrontarne la violenza e l’ipocrisia.
Una pratica artistica che ha come primi interlocutori i bambini, i ragazzi ribelli, qualche vero artista e pochi vecchi maestri non dovrebbe avere cittadinanza nel mondo com’è, come ci viene venduto; eppure sopravvive, al riparo di piccole cerchie accoglienti, nella loro capacità di espandersi e ritrarsi al momento opportuno, di mantenere vivo il fuoco del dialogo e della creazione, di salvaguardare il “silenzio” dal rumore delle istituzioni, delle sovvenzioni, della chiacchiera mondana.
A un certo punto della conversazione, un po’ desolati, lui dalla vecchiaia impietosa, noi dalle difficoltà del presente, ci ritrovammo a girare intorno al solito, inevitabile punto. «Cosa fare? – scandì il vecchio pittore, afferrando la domanda nell’aria – Ci sono scienziati, letterati, poeti che denunciano il collasso di questo pianeta, ma non accade nulla, la parola non ha più la capacità di costituirsi come azione, è stata svuotata di senso; d’altra parte, se perdessimo anche la volontà di cambiare questo mondo saremmo proprio fottuti; per lo meno tentiamo di fare qualcosa con i mezzi che ci ritroviamo, mezzi impotenti, gli unici che abbiamo».
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