Napoli Monitor propone ai suoi lettori, per i mesi di luglio e agosto, alcuni degli articoli pubblicati su Lo stato delle città nel corso di questi tre anni di attività della rivista.
Dall’omicidio Masslo allo sciopero dei braccianti. La lunga estate del 1989, è un articolo di Michele Colucci, pubblicato all’interno del numero 3, nell’ottobre 2019
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“Noi immigrati clandestini siamo venuti in questo paese non solo spinti dalla miseria ma anche dal desiderio di vivere in un luogo dove i diritti umani e del lavoro siano rispettati. Purtroppo, in questa terra, la lentezza dei poteri pubblici ha reso difficile la realizzazione dì questo sogno. L’incomprensione, l’atteggiamento di alcuni nei nostri confronti, ha reso difficile la nostra permanenza qui, in questo paese di emigranti che adesso ci accoglie, sempre più spesso con ostilità se non con odio, anche per il colore della nostra pelle. La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che voi, lavoratori italiani, avete saputo conquistare sin dalla Resistenza. Sappiamo che l’ostilità che ci è stata a volte dimostrata è dettata dalla paura e non dalla malvagità. Noi, immigrati clandestini, non siamo perciò disposti a essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Per questi motivi oggi scendiamo in sciopero. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta”.
Le prime luci dell’alba non sono ancora visibili quando il 20 settembre 1989 alla Rotonda di Villa Literno inizia a girare questo volantino. Discusso ed elaborato dopo giorni di riunioni e assemblee, rappresenta il messaggio più forte che i lavoratori impegnati nella raccolta della frutta e della verdura vogliono comunicare a tutti coloro che incontrano. Riunitisi insieme a gruppi di solidali nei pressi della rotonda, presidiano il luogo che simboleggia da decenni le modalità e i rapporti di forza che dettano le regole nel collocamento agricolo.
Il lavoro nelle campagne ha attirato nella zona di Villa Literno generazioni di braccianti, che soprattutto nei mesi estivi si dirigono alla rotonda per accaparrarsi un ingaggio, procurato e gestito dai cosiddetti “caporali”, mediatori che godono della fiducia dei proprietari terrieri e organizzano il mercato del lavoro. Si tratta di un sistema di regolazione del mercato del lavoro antichissimo, ferocemente combattuto dai braccianti e dalle loro organizzazioni soprattutto all’indomani della seconda guerra mondiale ma destinato a ripresentarsi ciclicamente con maggiore o minore intensità. Proprio negli anni che precedono quel fatidico 1989 la crescita dell’offerta di lavoro nella zona aveva provocato una notevole impennata del caporalato, favorita dalle caratteristiche colturali di quello che nel giro di pochi anni era diventato il principale prodotto agricolo del territorio: il pomodoro. Se fino a pochi anni prima la maggior parte dei braccianti che si affollavano alla rotonda erano provenienti dai paesi vicini, nel corso degli anni Ottanta era cresciuta in modo rapido la presenza di lavoratori stranieri, soprattutto africani e mediorientali.
I primi a ricevere il volantino sono proprio i lavoratori stranieri, che condividono le ragioni della protesta e si associano allo sciopero. Lo ricevono anche i caporali, che si trovano costretti a tornare indietro con i furgoni vuoti e devono inventarsi qualcosa da riferire agli imprenditori e ai proprietari terrieri. I presenti si rendono conto che stanno scrivendo un pezzo di storia: bloccare la produzione agricola con uno sciopero improvviso sembrava impossibile fino a poche settimane prima.
Ma non c’è nessuno spazio per poter gioire o condividere questa soddisfazione, poiché la giornata è solo agli inizi: bisogna preparare la manifestazione che dovrà attraversare il paese e soprattutto bisogna rispettare il lutto che è alla base dell’iniziativa. L’intera giornata del 20 settembre, infatti, è dedicata alla memoria di uno dei tanti che durante tutta l’estate e anche durante l’estate precedente aveva passato giorni e giorni a lavorare nella raccolta del pomodoro e a seguire le iniziative di protesta che i braccianti avevano avviato per opporsi a quelle durissime condizioni di sfruttamento: Jerry Masslo. Esule sudafricano, era stato ucciso poco meno di un mese prima durante un tentativo di rapina a vico Gallinelle, una delle strade dove si affollavano in alloggi precari centinaia di immigrati stranieri. Un gruppo di giovani provenienti dal paese lo aveva ucciso a colpi di pistola, nel tentativo di impadronirsi dei soldi che gli immigrati tenevano con loro dopo essere stati pagati sui campi.
La manifestazione si muove dalla rotonda durante la mattinata. Il corteo si dirige innanzitutto al cimitero, dove è sepolto Masslo. Con stupore e rabbia, i manifestanti prendono atto che il loro compagno sudafricano non ha ancora una lapide o una tomba, ma solo un mucchio di terra che ne sovrasta la sepoltura. Si muovono quindi verso il Municipio, dove il sindaco si impegna innanzitutto a provvedere alla tomba e viene incalzato sulle numerose questioni aperte: la casa, ma anche i trasporti, l’assistenza sanitaria, l’irregolarità sul lavoro, lo strapotere dei proprietari terrieri. Alcuni giornalisti presenti vengono contestati da una parte della cittadinanza, che mette in dubbio l’esistenza stessa della manifestazione degli immigrati e l’eccessiva attenzione mostrata dagli organi di informazione ai problemi degli stranieri.
Grazie alla determinazione degli immigrati che avevano vissuto e lavorato con Masslo, nelle settimane successive la vicenda perde le caratteristiche di una questione locale e viene assunta come una grande battaglia nazionale. Il modo in cui Masslo era morto ma soprattutto le condizioni in cui era giunto in Italia e nelle quali aveva vissuto rivelavano uno spaccato drammatico, mostrando allo stesso tempo l’assenza di una cornice legislativa adeguata a regolare lo sviluppo dell’immigrazione straniera. Nonostante l’impegnativo articolo 10 della Costituzione, che annuncia la tutela del diritto di asilo, per decenni l’Italia aveva posto restrizioni pesantissime alla possibilità di richiedere tale diritto. All’arrivo di Masslo – atterrato a Fiumicino esausto, dopo numerose tappe, nel marzo 1988 – l’Italia contemplava ancora la cosiddetta “riserva geografica”. Potevano chiedere asilo, a parte pochissime eccezioni, solo coloro che dimostravano di venire dall’Europa dell’est, nello spirito della guerra fredda. Masslo appena giunge in Italia racconta di essere stato perseguitato dal regime sudafricano dell’apartheid. La sua testimonianza cita episodi precisi, puntualmente confermati da Amnesty International, che si occupa immediatamente del caso. In particolare, viene descritta la manifestazione del 2 marzo a Umtata, dove risulterebbe uccisa anche la figlia di Masslo. Tutto ciò non basta. Masslo entra in Italia senza una richiesta di asilo ma solo con la prospettiva di una permanenza breve in attesa di un possibile visto per il Canada, permanenza garantita da Amnesty e dalla comunità di Sant’Egidio, dove viene ospitato. Impossibilitato ad avere documenti che gli permettano di poter sottoscrivere contratti di lavoro, inizia a lavorare in nero, prima a Roma e poi in estate a Villa Literno. Incrocia la sua strada con quella di tanti che vivono una condizione simile: esuli politici non riconosciuti come rifugiati provenienti da Zaire, Mozambico, Somalia; studenti universitari di nazionalità straniera che in estate vanno a lavorare nelle campagne; immigrati tunisini e marocchini che non riescono ad avere documenti in regola perché sono rimasti fuori da quella che fino a quel momento era stata la prima e unica legge sull’immigrazione (la Foschi del 1986).
La provincia di Caserta e in particolare Villa Literno diventano il contesto in cui matura in modo molto veloce la dinamica di sfruttamento organizzato di questa manodopera straniera, facilitato dalle lacune legislative e sostenuto dal ciclo economico. Ma allo stesso tempo matura il movimento opposto. I datori di lavoro hanno di fronte persone combattive, pronte a rendersi visibili anche all’interno del paese, disposte a non cedere di fronte alle provocazioni più odiose, come quella che si trova di fronte Masslo nell’estate del 1989, al suo ritorno – dopo un anno – a Villa Literno, quando lo stesso cassettone di pomodori raccolti che l’anno precedente veniva pagato 1.000 lire “scende” a 800 lire. Quell’estate è in realtà costellata di conflitti piccoli e grandi, nei quali i lavoratori stranieri vengono sostenuti dai militanti antirazzisti della zona, dalla Cgil e dalla Caritas. Proprio a Villa Literno, nel 1952, un bracciante italiano, Luigi Noviello, era stato ucciso dalle forze dell’ordine mentre protestava per la lentezza nell’assegnazione delle terre ai contadini, a testimonianza della durezza e della radicalità di uno scontro che non inizia certo con l’immigrazione straniera. L’omicidio di Masslo, il 24 agosto 1989, rappresenta il punto di non ritorno. La lotta si fa ancora più dura, i pochi lavoratori rimasti decidono di continuare a portare avanti ciò che anche Masslo aveva richiesto. Il successo dello sciopero del 20 settembre fa capire a tutti che ci sono i margini per proseguire.
Le tappe successive della mobilitazione sono sicuramente più note dello sciopero del 20 settembre. Il 7 ottobre 1989 una manifestazione di centinaia di migliaia di persone attraversa la città di Roma. In testa ci sono proprio i compagni di Masslo, che chiedono “una legge giusta” sull’immigrazione. La lotta contro il razzismo prende le caratteristiche di una tendenza globale, sostenuta proprio dalle mobilitazioni eccezionali che prendono corpo nel paese di Jerry Masslo, il Sudafrica, dove si infiamma la campagna per la liberazione di Nelson Mandela e la fine del regime dell’apartheid. Era stato lo stesso Masslo a mettere in evidenza i legami tra la situazione italiana e ciò che aveva vissuto in Sudafrica. Intervistato poche settimane prima di morire dalle telecamere del TG2 nell’ambito di un’inchiesta sullo sfruttamento del lavoro immigrato nelle campagne, aveva detto: «Il mio vero problema è che quello che ho sperimentato in Sudafrica non voglio vederlo qui in Italia. È proprio qualcosa che sta accadendo qui in Italia. Nessun nero, nessun africano dimentica che cosa è il razzismo e io l’ho sperimentato qui: una cosa inaccettabile. Ho visto con i miei occhi cose che non dovrebbero accadere qui in Italia. Qualsiasi nero, qualsiasi africano non può sopportare questa situazione, non può capire il razzismo. Noi siamo tutti uguali».
In Italia, dopo mesi di mobilitazioni, inizia la discussione parlamentare che porterà all’approvazione, nel 1990, della legge Martelli, che pur non raccogliendo tutte le istanze provenienti dalle piazze, riconosce per la prima volta il diritto d’asilo svincolandolo dalla “riserva geografica”. Proprio a Villa Literno, il 10 ottobre, all’indomani della manifestazione nazionale, si erano recati per la prima volta i componenti della Commissione lavoro del Senato. Di fronte a loro, il Coordinamento immigrati extra-comunitari aveva diffuso i dati elaborati insieme alle organizzazioni sindacali: su cinque milioni di ore lavorate in provincia di Caserta risultavano versati contributi per sole due milioni di ore, su 4.264 iscritti al collocamento provinciale solo tre erano stati i lavoratori avviati regolarmente al lavoro come braccianti agricoli.
Esattamente trent’anni dopo, la strada da percorrere nell’orizzonte di un pieno riconoscimento dei diritti dei lavoratori delle campagne, degli stranieri e dei richiedenti asilo sembra ancora molto lunga e piena di insidie apparentemente insormontabili. Ma proprio dal mondo del lavoro giungono segnali che come trent’anni fa potrebbero prefigurare un’inversione di tendenza, come dimostrano i conflitti aperti nei comparti della logistica o nel settore agroalimentare.
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