Con circa il 44% dei voti validi, il centrodestra ha vinto le elezioni politiche ottenendo 115 senatori (su 200 seggi) e 237 deputati (su 400 seggi). Un risultato schiacciante per effetto del meccanismo della legge elettorale, che premia oltremodo la coalizione più forte, ma non un travaso altrettanto importante in termini di voti a destra provenienti da sinistra (che si è presentata frazionata alla competizione elettorale). A guidare il centrodestra c’è Fratelli d’Italia che ottiene il 26% delle preferenze, ben distante dai suoi alleati (Lega e Forza Italia) fermi al di sotto del 10%. Una crescita esponenziale rispetto al 2018 quella del partito guidato da Meloni, quando non giunse nemmeno al 5% dei voti (+5.871.078 voti), ottenuta innanzitutto “cannibalizzando” il consenso dei propri alleati.
Dal punto di vista delle coalizioni, che il centrodestra vincesse le elezioni era un risultato più o meno annunciato dai sondaggi, che da mesi ormai davano Fratelli d’Italia, e il centrodestra in generale, in vantaggio rispetto alle altre formazioni. La crescita del partito di Giorgia Meloni avviene soprattutto al Nord a spese della Lega di Salvini, di cui FdI ha cavalcato le parole d’ordine del sovranismo e della centralità della famiglia tradizionale. Clamorosa, da questo punto di vista, la debacle della Lega che perde terreno anche rispetto alle previsioni dei sondaggi: molto lontano il 17% circa dei voti ottenuto nel 2018 e ancor più l’exploit alle elezioni europee di appena tre anni fa che le consentirono di raccogliere oltre un terzo dei voti validi (-6.689.462 voti).
Rispetto alle politiche del 2018 (18,7%) il Partito Democratico fa leggermente meglio (19%) ma esce comunque sconfitto poiché i sondaggi lo davano come possibile primo partito in Italia e flette in termini di voti assoluti (-806.810 voti). Il leggero avanzamento percentuale è dovuto all’astensionismo massiccio, senza precedenti per una elezione parlamentare.
In crescita rispetto ai sondaggi è il Movimento Cinque Stelle, che dimezza i voti del 2018 ma resiste al Sud dove si qualifica come primo partito in molte regioni e dove, tra l’altro, riesce a ottenere anche alcuni collegi uninominali.
Si attesta intorno all’8% il terzo polo guidato da Calenda e Renzi e al 3,6% l’Alleanza Verdi-Sinistra. Grande esclusa di questa tornata elettorale Emma Bonino la cui lista, + Europa, si ferma sulla soglia dello sbarramento (2,8%) impedendo l’accesso al Parlamento dei candidati al proporzionale, ma non di alcuni suoi candidati di coalizione (centrosinistra) nei collegi uninominali.
L’ultimo dato da segnalare è quello dell’affluenza, in caduta di libera, come accennato, di circa dieci punti percentuali. Si è passati dal 72,9% del 2018 al 63,9 di domenica scorsa. Il calo di affluenza non è un fenomeno nuovo in Italia. Dalle elezioni del 1979 questa è in caduta più o meno costante. Tuttavia, finora non si erano mai persi così tanti elettori da una tornata all’altra, con una chiara associazione statistica con il disagio sociale. Ed è questo dato, congiuntamente al risultato politico, che dovrebbe far ampiamente riflettere sullo stato di salute della democrazia in Italia.
I RISULTATI DI NAPOLI
Per quel che riguarda Napoli, i risultati delle urne restituiscono, sotto certi aspetti, una geografia elettorale molto simile a quella del 2018.
Partiamo dall’affluenza (visualizza la mappatura dell’affluenza in figura 1), così come in Italia anche a Napoli l’affluenza è calata di circa dieci punti percentuali passando dal 60,52% delle politiche del 2018 al 49,68% di domenica scorsa. È la prima volta che in città, alle elezioni politiche, si recano al voto meno della metà degli aventi diritto. Dopo le regionali e le ultime comunali, anche nelle elezioni ritenute più importanti, metà degli elettori ha preferito stare a casa. Inserendosi in una tendenza più generale, così come nel 2018 anche in questa tornata le periferie napoletane hanno partecipato di meno al momento elettorale, con scarti rispetto ai quartieri centrali fino a venti punti percentuali: è quello che emerge se confrontiamo l’affluenza al Vomero (62,7%) con quella di Pianura (42,7%). Anche in alcuni quartieri del centro storico si è andati al di sotto del 40% (Mercato: 38,1%).
Con riferimento alla “scelta”, a Napoli rivincono i Cinque Stelle con una percentuale complessiva del 43,2%, inferiore al 52,4% ottenuto nel 2018 ma che comunque permette al Movimento di Conte di guadagnare tutti e tre i collegi uninominali della città tra Camera e Senato. Segue il PD con il 16% e il partito della Meloni al 12,3%, ben distante dal risultato ottenuto a livello nazionale.
La città di Napoli conferma la sua preferenza per i Cinque Stelle e lo fa principalmente nelle periferie. Così come nel 2018, nei quartieri con più alto disagio sociale i pentastellati raccolgono ampie preferenze superando il 60% in quartieri come Barra, Miano e Scampia (Fig. 2). Di meno nei quartieri “bene” della città, maggiormente orientati verso un’offerta politica più liberal e conservatrice.
Fratelli d’Italia (Fig. 3) e il Terzo Polo (Fig. 4) ottengono i migliori risultati a Posillipo e Chiaia mentre all’Arenella e al Vomero il PD (Fig. 5). In questi due quartieri, congiuntamente ad alcuni quartieri del centro storico, Unione Popolare (Fig. 6) ottiene un sostengo maggiore rispetto alle altre zone della città. Forza Italia (Fig. 7) invece mostra una geografia elettorale abbastanza traversale alla frattura centro-periferia, caratteristica questa non del tutto nuova del partito di Berlusconi.
La geografia elettorale di questi partiti non sorprende molto perché in parte ricalca quanto si era visto nel 2018, con il PD che va bene nei quartieri alti e di media borghesia (Vomero) e le formazioni di centrodestra più forti nei quartieri bene (in specie Posillipo). Fratelli d’Italia, inoltre, ottiene consenso laddove una volta, prima della fondazione della Casa delle Libertà, Alleanza Nazionale raccoglieva un buon numero di preferenze. Unione Popolare ricalca la distribuzione geografica del consenso a de Magistris (amministrative 2016) e a Potere al Popolo (politiche 2018), mostrando una constituency fortemente personalizzata sul leader e sui ceti medi, ma incapace di intercettare il bisogno meno politicizzato, e attestata sulla dorsale che va dal Vomero al centro storico.
Nel complesso l’analisi territoriale del voto mostra una divaricazione delle preferenze secondo le condizioni sociali, ed è dunque nettamente leggibile secondo un asse centro-periferia, o meglio, per dirlo in modo più chiaro, nei termini di una differenziazione di classe. Emblematico da questo punto di vista il caso della campagna elettorale dei Cinque Stelle che ha insistito sul reddito di cittadinanza ottenendo il consenso nelle zone dove maggiore è il disagio sociale. Quello che è stato definito un “voto di scambio” collettivo, si mostra dunque per quello che tecnicamente è quando il “collettivo” è decisamente connotato in termini sociali: un voto di classe. Una tendenza che pare riemergere prepotentemente in barba alle tradizioni politico-culturali dei territori (si veda la rottura degli argini da parte degli stessi Cinque Stelle nei quartieri ex operai a Est e a Ovest della città) e anche ad alcuni tentativi minoritari di frazionismo a sinistra (ci sembra significativo il caso di Unione Popolare, il cui consenso è apprezzabile solo nei quartieri centrali). Un dato del quale l’analisi e la proposta politica futura non possono non tenere conto. (luciano brancaccio / ciro clemente de falco)
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