Sono state annullate dalla Corte di Cassazione, la scorsa settimana, perché il fatto non sussiste, le condanne per G. Afewerki, G. Abraha, M. Hintsa e G. E. Kidane. I quattro cittadini eritrei erano stati giudicati colpevoli in primo e secondo grado per favoreggiamento dell’emigrazione clandestina, con pene dai due ai tre anni e mezzo di reclusione, in quanto complici di Hagos Awet, considerato il capo della cellula romana di un’organizzazione internazionale dedita al traffico di esseri umani. Scagionato Awet in sede d’Appello, è caduta anche per i quattro eritrei l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, dopo ben diciotto mesi di carcere preventivo. Gli uomini erano stati accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a causa dell’acquisto da parte dei quattro uomini di biglietti di autobus diretti dalla Sicilia a Roma, del prestito di piccole somme di denaro a connazionali appena arrivati in Italia, dell’ospitalità offerta in case di fortuna o palazzi occupati della capitale. Il procedimento aveva già in primo grado appurato che gli imputati non avevano tratto alcun vantaggio economico da queste condotte, ma ciò non era bastato a scagionarli, essendo secondo l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione il favoreggiamento di “emigrazione illegale” punibile anche in assenza di profitto. Secondo i legali dei migranti, la decisione della Cassazione dimostra che gli uomini avrebbero “agito secondo normali pratiche di solidarietà tra persone in fuga da un regime e spesso provenienti dagli stessi villaggi, legate da vincoli di parentela e amicizia”.
Sulle questioni legate all’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, alla ventennale criminalizzazione a livello politico e mediatico dei cosiddetti “scafisti” e alle esistenze dei migranti che finiscono in carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, abbiamo intervistato Richard Braude, attivista dell’Arci Porco Rosso di Palermo. Gli attivisti e i ricercatori della sezione siciliana dell’associazione hanno infatti prodotto e pubblicato nell’ottobre 2021 un report che attraverso un elaborato lavoro di inchiesta prova ad aprire un dibattito a livello nazionale su queste questioni.
Quando e come avete cominciato a lavorare su questi temi?
«Dal 2016 all’Arci Porco Rosso di Palermo abbiamo uno sportello di ascolto e orientamento per la cittadinanza straniera, uno spazio informale, con un approccio di comunità, dove cerchiamo di costruire una rete per dare una mano alle persone, tanto quelle che vivono nel quartiere di Ballarò da vent’anni, quanto quelle che si trovano a passare occasionalmente. Con il passare degli anni abbiamo consolidato un rapporto con le persone in uscita dal carcere con un foglio di via e con l’accusa o la condanna di essere uno “scafista”. Si tratta di un fenomeno dalla portata consistente a Palermo, che ha un carcere enorme ed è una città-porto dove avvengono gli sbarchi, in un paese dove un terzo dei detenuti è straniero. Abbiamo conosciuto negli anni egiziani, tunisini, libici, gambiani, senegalesi, ivoriani, ucraini, russi, bengalesi, nigeriani, somali… e moltissimi sono i casi di presunti “scafisti” che non hanno avuto adeguata difesa: non ci sono stati mediatori e traduttori, gli accusati non sono riusciti a spiegare che ruolo hanno avuto nel viaggio, o ancora altre volte ci sono stati degli scambi di persona.
Chi sono le persone che comunemente vengono chiamate “scafisti”?
«La figura dello scafista è una figura mediatica. Una delle cose che abbiamo cercato di fare è stata guardare chi è questa persona e cosa fa. Abbiamo individuato tantissime situazioni diverse, che vanno dalle persone pagate a quelle costrette con la violenza. Ci muoviamo partendo dalla necessità dell’abolizione o della totale riforma dell’articolo 12 del Testo unico dell’immigrazione e su questo stiamo cercando e trovando delle alleanze. I casi di chi finisce in galera sono diversi tra loro, nel report parliamo di uno “spettro di capitani”. Ci sono quelli che arrivano a processo per uno scambio di persona o quelli che sono stati costretti a guidare: tra il 2014 e il 2017 ne abbiamo visti tantissimi, ragazzi molto giovani, soprattutto del Gambia e del Senegal. Parliamo di anni in cui c’erano tantissime partenze dalla Libia e non si trovavano abbastanza persone capaci di guidare una barca. Così i pescatori che avevano pagato il biglietto per viaggiare venivano minacciati di morte e costretti a fare il tragitto da “capitani”, i cosiddetti “scafisti forzati”. Spesso questi ragazzi hanno avuto difese inadeguate. A Messina, per esempio, ci sono state tantissime persone condannate a cinque e sei anni di carcere praticamente senza una difesa.
«Nel 2013 lo stato ha deciso di investire risorse dell’antimafia, il che vuol dire anche i servizi, gli agenti sotto copertura, eccetera, per indagare sulle organizzazioni internazionali per il traffico di persone e la tratta. L’intenzione era quella di arrestare gli autisti per ottenere informazioni sulle organizzazioni criminali, che naturalmente sono a monte, non è chi guida che organizza il traffico. Ma questo obiettivo è stato accantonato in fretta. Nel 2014 sono state arrestate 770 persone, ma non si è riusciti a risalire praticamente mai ai vertici. Quando l’hanno fatto, per esempio con un cittadino eritreo che è stato estradato dal Sudan con i servizi, portato a Roma e processato… hanno preso la persona sbagliata! Dopo quattro anni si è capito che c’era stato uno scambio di persona, anche grazie a un’inchiesta giornalistica fatta da Lorenzo Tondo, che ha parlato con le famiglie, e proprio la madre del vero trafficante ha ammesso che quel ragazzo non c’entrava niente. Insomma, anche quando hanno cercato di mettere all’opera questa linea l’hanno fatto malissimo, e così a oggi quello che è importante è arrestare e condannare due-tre persone per ogni barca, chiunque siano e a qualunque costo.
Quand’è che avete deciso di sistematizzare questo tipo di ragionamento in un’inchiesta?
«Un paio d’anni fa siamo stati contattati dalla rete Alarm Phone, una rete transnazionale che da sette anni gestisce un numero verde per le persone in mare e fa tutto dal basso, con attivisti in quattro continenti: ricevono segnalazioni da chi si trova in mare e le girano alle guardie costiere, mettendo pressione rispetto alla necessità di intervento. Ci hanno chiamato e abbiamo ragionato sulla necessità di fare delle campagne rispetto alla criminalizzazione dei migranti in viaggio. L’ultimo report sulla situazione dei cosiddetti “scafisti forzati” era stato redatto nel 2017 da Borderline Sicilia. Così un gruppo tra noi attivisti del Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline Europe, abbiamo lavorato per quasi un anno per produrre Dal mare al carcere, uscito nel 2021, che racconta dieci anni di criminalizzazione. Abbiamo contato più di 2.500 fermi dal 2013 in seguito agli sbarchi: abbiamo analizzato i dati della polizia, abbiamo fatto una ricognizione delle cronache, per capire anche qualcosa su queste persone, su chi è stato arrestato e come. Un terzo delle persone sono dell’Africa del nord, un quarto dell’Africa occidentale, un quarto dell’Europa dell’est e altri vengono da altri paesi del mondo. Abbiamo deciso di parlare con tutti, dagli arrestati alle guardie costiere, dagli avvocati agli assistenti sociali e di produrre un report che fosse leggibile per un pubblico largo, che entrasse nel merito di queste situazioni.
«Un socio senegalese del Porco Rosso ha fatto due anni in carcere, condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e ci ha fatto capire un sacco di cose. Da cinque anni abbiamo avviato uno scambio di lettere con persone in carcere. Queste persone ci hanno spiegato molto delle condizioni di detenzione, a cominciare dalla mancanza totale di mediazione linguistica e traduzione. Pensiamo a un cittadino ghanese sessantenne, analfabeta, che appena arrivato viene arrestato e messo in carcere: non avere un mediatore di riferimento è un problema devastante. C’è un signore che dopo due anni e quattro mesi in carcere è uscito assolto in primo grado, ha chiamato la sua famiglia e loro pensavano che fosse morto, gli avevano fatto il funerale, perché poi lui essendo anche analfabeta non aveva nemmeno la possibilità di rivendicare i suoi diritti.
Le condanne per chi è accusato di traffico di esseri umani sono molto alte, ma sembra che il livello di indagine da parte delle forze dell’ordine e della magistratura sia decisamente superficiale…
«Dopo la pubblicazione del report stiamo andando avanti con interventi più pratici. Stiamo cercando le persone, stiamo scrivendo più lettere, parlando con più avvocati e attivisti per capire dove sono i detenuti, che esigenze ci sono, e come possiamo essere d’aiuto. Abbiamo il sostegno dalle navi di soccorso, dalla parte più radicale della comunità antirazzista che ha capito che questo è un tasto molto delicato e che questa criminalizzazione va combattuta. In questo periodo c’è una signora che mi scrive ogni giorno dall’Afghanistan mandandomi le foto dei suoi bambini. Suo marito è in carcere da un anno in Calabria, sempre per favoreggiamento, ed è una persona partita dal suo paese per motivi politici, faceva il magistrato prima che arrivassero i talebani… più profugo di quello non c’è!
«L’intersezione tra il mondo dell’immigrazione e il mondo del carcere è un punto decisivo, e la questione dei “capitani” è lì. Da sei mesi stiamo lavorando molto sul carcere: parliamo con Antigone, con le associazioni cattoliche, le cooperative di ex detenuti, cerchiamo di formarci. Le storie dei detenuti le abbiamo raccolte perlopiù tramite lettere. C’è un ragazzo con cui siamo in contatto dal 2017, gambiano, condannato a otto anni e uscito due settimane fa a Palermo. Oppure c’è il caso di otto persone arrestate nel Ferragosto 2015: cinque libici, due marocchini e un tunisino. Siamo in contatto con sette tra loro, condannati a venti e a trent’anni di carcere, perché se poi c’è un naufragio e le persone muoiono la polizia cerca in ogni modo di arrestare, indagare e condannare l’equipaggio. Prendiamo questo caso in particolare: il tunisino, che non sappiamo dov’è, nelle carte giudiziarie dice di aver guidato la barca da solo, di non aver avuto un equipaggio. Eppure hanno accusato e condannato altre sette persone, solo perché erano nella parte superiore della barca e alcuni dei sopravvissuti avendoli visti lì, li hanno indicati come equipaggio (oppure perché qualcuno ha sostenuto che loro avevano passato delle bottiglie di acqua ad altre persone e quindi potevano far parte dell’organizzazione, oppure ancora perché potevano aver spinto qualcuno a mare, cosa che quando la barca sta affondando è purtroppo abbastanza scontata). Insomma, prove non ce n’erano, eppure stiamo parlando di condanne pesantissime, perché le accuse sono quelle di far parte di una organizzazione criminale internazionale.
«2014, 700 arresti; 2015, 500 arresti; 2016, altri 500 arresti. Sono gli anni in cui Minniti stringeva gli accordi con la mafia libica per salvaguardare gli interessi italiani sul petrolio. Ormai, anche quando la gestione politica è cambiata, quella linea di condotta è diventata prassi. C’è uno sbarco? Devi arrestare un paio di persone e chiudere la pratica, con tanto di permessi di soggiorno regalati in omaggio a chi ti indica il guidatore. Ogni tanto c’è un’inchiesta un po’ più approfondita, qualcuno con un po’ di cervello che apre un fascicolo più ampio, ma non ho mai sentito un caso di qualche capitano che è stato arrestato e ha avuto un premio per aver dato informazioni sull’organizzazione: non esistono i pentiti, il che vuol dire che non li cercano più di tanto.
Quante sono le persone attualmente nelle carceri italiane, tra i cosiddetti scafisti?
«Difficile da dire, ma si potrebbe trattare di un numero non lontano dai 400, con una media di 100-150 persone arrestate ogni anno, più quelli che hanno le pene più lunghe, tra cui pure gli ergastolani. Gli arrestati in otto anni, dal 2013 sono 2.500, questo è un dato certo. Altri dati disponibili non ce ne sono, abbiamo dovuto crearli, e ancora stiamo cercando di ottenere informazioni.
Avete rapporti con altri attivisti in paesi d’Europa e del mondo? Il livello di criminalizzazione è alto quanto in Italia?
«Sì, decisamente. In Grecia, Borderline Europe sta facendo un gran lavoro, anche perché le pene sono altissime, si arriva a dare anche duecento anni di carcere, perché aumentano le condanne per ogni persona trasportata, e altri anni ancora li aggiungono per ogni persona morta nel viaggio. Parliamo soprattutto di curdi, siriani e turchi. Nelle Canarie la criminalizzazione è stata molto alta nell’ultimo biennio, quando i cittadini dell’Africa occidentale hanno virato lì più che su Lampedusa: abbiamo rapporto con un’avvocata che va nelle carceri a parlare con i “capitani” senegalesi cercando di lottare per la loro libertà. Ma in Spagna se ne parla pochissimo, in Francia non se ne parla, e invece questi sono fenomeni internazionali. A dicembre siamo stati a Berlino a raccontare il nostro lavoro, e grazie ad Alarm Phone abbiamo una rete in tantissimi paesi, dall’Egitto all’America.
È un tema che sta lentamente entrando nella coscienza pubblica, tra le comunità antirazziste. Stiamo lavorando per creare più rete in Puglia e Calabria, dove ci sono molti casi di afghani, iraniani, curdi, ucraini, ma c’è bisogno di un lavoro di sensibilizzazione. E ora abbiamo la consapevolezza che si deve intersecare con il discorso sul carcere, contro il carcere, per l’abolizione del carcere». (intervista di riccardo rosa)
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