Napoli Monitor propone ai suoi lettori, per i mesi di luglio e agosto, alcuni degli articoli pubblicati su Lo stato delle città nel corso di questi tre anni di attività della rivista.
Dai cantieri navali al turismo. Come Bilbao cambiò pelle in vent’anni, è un articolo di Ciro Colonna, pubblicato all’interno del numero 3, nell’ottobre 2019
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Studiato nelle università di tutto il mondo, il modello Bilbao, anche conosciuto come “effetto Guggenheim”, è guardato con invidia e ammirazione da decine di città che dopo la fine dell’industria pesante che ne aveva determinato lo sviluppo, sono cadute in disgrazia. Ma come è avvenuto il miracolo Bilbao? Come un luogo descritto dai propri stessi abitanti come grigio, inquinato e senza alcuna attrattiva turistica, è potuto diventare nel giro di due decenni una delle mete che riscuote maggiore interesse a livello europeo?
Nella memoria di ogni bilbaino c’è il momento in cui ha incrociato il primo sparuto e disorientato manipolo di turisti. Tra il divertito e l’incredulo, ciascuno narra il proprio scetticismo nell’imbattersi in queste creature aliene che mai avrebbe pensato potessero formare parte del paesaggio cittadino. Eppure, a vederla oggi, Bilbao sembra essere fatta apposta per attrarre i turisti. Un turismo rilassato, educato, relativamente colto, con discreta disponibilità economica. Per farsi un’idea di come si presenti lo spazio urbano al visitatore non c’è luogo migliore che la passeggiata che dal Palacio Euskalduna conduce fino al Guggenheim Museum. Il chilometro scarso che separa i due edifici-emblema della riconversione della città è un continuo andirivieni di turisti e locali, che passeggiano e praticano sport. In un’atmosfera di pacato civismo nordeuropeo, biciclette e monopattini sfilano rispettosi tra la folla di passanti, salendo e scendendo sui vari dislivelli che rompono ad arte la monotonia del percorso. Tre campi da basket molto frequentati coronano l’area giochi per bambini, opportunamente sovrastata da una struttura in vetro e metallo che protegge dalla pioggia, che la prossimità dell’Oceano rende eventualità sempre presente. Approssimandosi al museo il profilo del ragnone di Louise Bourgeois si staglia all’orizzonte e s’intravedono le decine di persone che s’immortalano ai suoi piedi. Giochi d’acqua animano i margini del sentiero pavimentato in legno e offrono frescura nelle rare giornate di afa estiva. Le palme disseminate lungo il cammino non costituiscono l’elemento più stonato per chi conosce la storia del luogo. I lampioni, il cui disegno vagamente ricorda le enormi gru industriali dei cantieri navali che fino a tre decenni fa dominavano questo tratto del Nervión, non distante dalla città antica, sono tra i pochi elementi che la ristrutturazione dello spazio urbano ha concesso alla memoria del recente passato industriale.
LA FINE DEL CANTIERE
Per capire di cosa stiamo parlando è bene fare un passo indietro, senza per altro spostarci dal tratto di strada su cui abbiamo focalizzato la nostra attenzione. Dal Palacio Euskalduna al Guggenheim Museum: la storia che vogliamo raccontare è in buona parte racchiusa in queste poche centinaia di metri della riva sinistra del fiume Nervión. Se il valore di quest’area è in gran parte simbolico, è proprio all’interno di questo tratto di antico molo che si svolge uno dei momenti cruciali del racconto. Siamo alla fine del 1984 e il Puente de Deusto – ponte levatoio per il passaggio di navi di grande cabotaggio in entrata e uscita dai cantieri navali che costituiscono il paesaggio industriale della Ría (così viene chiamato il Nervión) – è teatro delle proteste degli operai dell’Astillero Euskalduna. I lavoratori si oppongono alla ristrutturazione aziendale che prevede centinaia di licenziamenti e il progressivo esautoramento di uno degli stabilimenti più rappresentativi della storia industriale del paese. Il cantiere, di proprietà dello stato, impiega 2.471 persone (a metà degli anni Sessanta erano quasi 4.000), di cui circa 1.700 – viene comunicato dal ministero – resteranno senza impiego. Anche senza calcolare l’indotto su cui si fonda gran parte dell’economia dell’area, si tratta di un colpo durissimo per la città – non certo il primo negli anni della dismissione industriale. I sindacati reagiscono compatti e le proteste si dispiegano incessanti per settimane, con punte di conflittualità molto alte, l’occupazione a singhiozzo del ponte (all’epoca arteria insostituibile di comunicazione tra le due sponde della Ría), barricate e violenti scontri con la polizia. Il governo socialista di Felipe González mantiene la linea dura e i sindacati iniziano a dividersi. Solo gli operai, con il sostegno della rete di solidarietà familiare e sociale, non sembrano fiaccarsi di fronte alla catastrofe che significherebbe la chiusura dei cantieri. Poi, il 23 novembre, viene inviata un’unità di reparti speciali della Policia Nacional che senza troppe formalità irrompe nel cantiere mitra in mano e distrugge quanto trova sul proprio cammino: diversi colpi vengono esplosi ad altezza d’uomo e un operaio rimane ferito. Un altro operaio, rifugiatosi insieme ad altri compagni sulla cima di una nave in costruzione, viene colto da infarto. I soccorsi, trattenuti dalla polizia, tardano ad accedere al cantiere. Quando i medici riescono a raggiungerlo, Pablo González Larrazábal è già morto. La notizia fa infuriare gli operai che ricacciano la polizia fuori dal cantiere, ma alla lunga avviene un cambiamento di strategia nella lotta. Gli operai si barricano nel cantiere e inizia un’estenuante guerra di nervi, fatta di assemblee interminabili e scioperi della fame. Nel frattempo le trattative ristagnano e alcuni sindacati firmano gli accordi proposti dal governo. Il 28 dicembre gli operai abbandonano il cantiere accettando il piano di cassa integrazione imposto dal ministero. L’Astillero Euskalduna chiuderà definitivamente i battenti nel 1988, ma la sua storia può dirsi conclusa già alla vigilia del capodanno 1985.
Quali le motivazioni di tanta determinazione nel chiudere il cantiere, che a detta degli operai, aveva commesse più che sufficienti per continuare la produzione? Gli argomenti del governo – sostenuti dalla retorica neoliberista sul baraccone pubblico che non ha ragione di esistere senza le continue iniezioni di denaro da parte dello stato – sono tutti economici. La ristrutturazione del mercato globale e la concorrenza di altri paesi, principalmente Corea e Brasile, sarebbero ragioni inappellabili per chiudere il cantiere e voltare pagina. «È stato direttamente imposto dall’Unione Europea – racconta Andeka Larrea, co-autore del libro Bilbao e il suo doppio. Rigenerazione urbana o distruzione della vita pubblica? – che prevedeva per la Spagna altre funzioni nel complesso dell’Unione. È stato raccontato come un fenomeno naturale e inevitabile, ma era il frutto di decisioni politiche».
Secondo molti operai, inoltre, avrebbe giocato un ruolo importante l’appetibilità dei terreni su cui insiste l’area cantieristica, situata a poco più di un chilometro in linea d’aria dal centro storico medievale. «Senza dubbio la classe politica stava progettando altro per quei terreni – conferma l’architetto Iñaki Uriarte –, basti pensare che già nell’85 viene istituito l’ufficio per il Piano Generale di Bilbao, incaricato di dirigere la ristrutturazione della città». In quegli anni, inoltre, l’ETA è in piena attività e le fabbriche sono il brodo di coltura ideale per la costruzione del sostegno sociale al gruppo armato.
Cosa accade dopo è ormai storia nota, o almeno fa parte della narrazione agiografica di una città che è divenuta modello globale per la riconversione da realtà industriale a città di servizi. Tuttavia nel racconto ufficiale vengono omessi alcuni passaggi che è bene ripercorrere per capire come su quella Bilbao riottosa e ostile si sia potuta edificare la città accogliente e pacificata che abbiamo oggi sotto gli occhi.
IL FATTORE CEMENTO
Il progetto di ripensamento dello spazio urbano e degli indirizzi economici del territorio prende le mosse con l’accordo tra il governo basco e la Fondazione Guggenheim per portare a Bilbao una nuova sede del rinomato museo newyorchese. La confluenza di obiettivi tra le due entità va ben oltre la mitologia di una classe politica visionaria e trova terreno fertile nelle finanze disastrate della fondazione e nella disponibilità delle istituzioni basche a farsi carico dell’ingente investimento, poco meno di 143 milioni di euro a opera ultimata. Non mancano le voci critiche – si contesta, per esempio, che le risorse vengano destinate esclusivamente a Bilbao lasciando all’asciutto per anni il resto della regione – ma vengono messe a tacere di fronte al miraggio dei benefici offerti dal museo alla città. Il Guggenheim, tuttavia, è solo un tassello del puzzle che si va componendo. Di tutto il resto si fa carico il consorzio Bilbao Ría 2000, ente interamente a capitale pubblico, cui partecipano le principali istituzioni locali e statali. Fondato nel 1992, il consorzio porta in capitale i terreni che avevano ospitato i complessi industriali in dismissione. «Vendendoli a privati – racconta Iñaki Uriarte – il consorzio finanzia le opere pubbliche con cui si ridisegna la città. Questo finisce per trasformarlo in una specie di promotore immobiliare».
Parallelamente si sviluppano altri progetti pubblici di edificazione massiccia. Tra i più imponenti c’è la nascita del quartiere di Miribilla, ubicato su un’antica zona mineraria a ridosso del centro. Qui il Comune si fa carico della costruzione di migliaia di metri cubi di edilizia definita “popolare”, ma che in realtà è rivolta alla nuova classe media, ceto di riferimento per risollevare le sorti della città. «Negli anni Ottanta e Novanta, nel discorso dei politici le classi popolari si sono trasformate come per magia in classe media – è il commento sarcastico di Andeka Larrea –, e la proprietà della casa è divenuto un obbligo sociale che ha aperto la strada all’accesso nel paese di tutti i fondi di investimento del mondo, che attraverso il sistema del credito sconsiderato hanno generato quel fenomeno conosciuto in seguito come “bolla immobiliare”».
Nel giro di tre decenni, inoltre, vengono imposti alla città una serie di grandi progetti che hanno per comune denominatore lo sversamento incontrollato di cemento in una porzione di territorio limitato per caratteristiche orografiche. Bilbao, infatti, sorge in una valle stretta e allungata che segue idealmente il corso del fiume Nervión. Dal già citato Palacio Euskalduna alla metropolitana progettata da Norman Foster, il modello Bilbao ha trovato linfa dalla continua ricerca di spazi su cui edificare e sull’esplosione del settore della costruzione. Emblematico, da questo punto di vista, quanto sta accadendo in questi mesi all’autostazione Termibus, smantellata per essere interrata e guadagnare spazio per un nuovo grattacielo. Una menzione speciale merita la costruzione del nuovo stadio San Mamés, eretto in tempi record dopo avere abbattuto la storica struttura icona della città, e sovradimensionato rispetto alle esigenze di una squadra – l’Athletic Club de Bilbao – che è nei cuori di gran parte della popolazione, ma naviga costantemente a metà classifica della Liga. Il rinnovamento avviene senza apparente pianificazione urbanistica ed è mascherato con il glamour garantito dalla firma di grandi stelle dell’architettura mondiale. Tuttavia, per quanto griffato, si tratta pur sempre di cemento, e proprio il cemento – in una Bilbao che per il momento non può vantare un afflusso turistico capace di sostenerne l’economia – sembra essere fino a oggi il motore primo di tutto il meccanismo. Al di là delle ragioni etiche, delle preoccupazioni ambientali, dell’attenzione alla vivibilità di una città in continua espansione, viene da domandarsi cosa potrà accadere quando lo spazio per costruire sarà davvero esaurito e non ci saranno più artifici per inventarne di nuovo.
Ben oltre gli aspetti economici e urbanistici, bisogna chiedersi come i processi descritti abbiano modificato la città in termini sociali, storici, di immaginario collettivo, di identità. Nei primi mesi dopo il mio trasferimento a Bilbao trovai nella ristorazione una fonte di sostentamento; ben presto mi accorsi che il bancone del bar era anche un osservatorio privilegiato. Quel che più mi colpì fu la totale mancanza di consapevolezza da parte dei turisti in merito alla storia e al recente passato della città. Notai che gli ignari visitatori non avevano tutte le colpe, poiché nella città turistica davvero poche erano le vestigia dell’epoca industriale. E dove c’erano, erano ben mimetizzate. Per esempio l’edificio razionalista che ospitava originariamente una fabbrica di cinghie di trasmissione destinate all’industria. Conosciuto come Edifício del Tigre a causa della monumentale statua che campeggia sulla torretta in cui si trovavano gli uffici dell’amministrazione, si tratta di una costruzione di reale pregio architettonico, situata di fronte alla passeggiata da cui è iniziato questo racconto. Svuotato del proprio corpo pulsante, l’edificio è stato riconvertito in appartamenti di lusso, senza che nulla, se non una minuta targa di bronzo accanto al portone d’ingresso, lasci intravedere i trascorsi del luogo. Ma non è l’unico caso. Clamoroso è il destino toccato agli antichi magazzini portuali di Uribitarte, situati dove avrebbero dovuto sorgere due grattacieli a firma dell’archistar Arata Isozaki. La dura opposizione di sparute associazioni per la difesa del patrimonio storico e industriale della città ottenne soltanto la conservazione di frammenti di facciata che, ormai fuori contesto, non sono integrati nel tessuto funzionale, urbanistico e stilistico dell’area. Così il visitatore ignaro si domanda perché non tolgano di mezzo quei residui che disturbano la visuale delle grandi e splendenti torri.
DUE CULTURE
Le sette strade del centro di Bilbao – punto di partenza del progressivo sviluppo della città – sono un susseguirsi di bar e ristoranti in cui vengono promosse le specialità locali, esercizi commerciali che hanno preso rapidamente il posto delle botteghe storiche. La ristorazione è sempre più saldamente nelle mani di pochi gruppi di investitori. Oltre al proliferare di ristoranti in franchising che sullo sfondo delle proprie decorazioni in cartongesso servono cibo artefatto, il monopolio della ristorazione altera la qualità del prodotto e riduce la varietà dell’offerta, livellando la peculiarità culturale e gastronomica del luogo. Se spostiamo l’attenzione sull’offerta culturale e di intrattenimento, il dato principale è innanzitutto quantitativo. Lo spazio pubblico è costantemente invaso da iniziative che hanno come unica finalità quella di favorire il commercio. Dalla corsa dei kart alla sfilata di moda dei bambini, dai concerti alle danze tradizionali, dalle corse podistiche agli eventi sportivi promossi da grandi multinazionali, tutto fa brodo purché il soldo giri, affinché le strade si riempiano, i bar funzionino a pieno ritmo e il vortice del consumo non si arresti.
È necessario chiedersi il significato di questi cambiamenti, per quanto non sia semplice dare una risposta univoca alla questione. Da un lato è inevitabile constatare l’esautorazione, in tempi rapidissimi, della folta classe operaia che per almeno un secolo e mezzo aveva caratterizzato la città. Alla fine degli anni Ottanta, e per tutto il decennio successivo, le conseguenze dei licenziamenti e della chiusura delle fabbriche si sono ripercosse su una generazione che non ha avuto alcuno strumento per ricollocarsi sul mercato del lavoro, né un riconoscimento sociale. Progressivamente le cose sono migliorate grazie allo sviluppo economico qui descritto. Oltre all’edilizia, è nella ristorazione che la maggior parte di giovani e meno giovani possono sperare di trovare un impiego. È lavoro declassato, soffre gli alti e bassi della stagionalità, ma permette l’accesso ai vantaggi che la nuova città di servizi promette di offrire. L’atteggiamento degli abitanti di Bilbao rispetto al cambiamento intercorso è nel complesso positivo. La sensazione secondo cui finalmente ci si sia lasciati alle spalle i tempi bui dell’industria e della conflittualità sociale si è affermata in una popolazione spogliata dei propri riferimenti, indotta ad abbracciare questo sogno di affrancamento.
Infine riporto alcune note tratte da una chiacchierata con Jon, storico attivista delle occupazioni a Bilbao. Seduti al bancone di Karmela, ex scuola elementare nel popolare quartiere di Santutxu, occupata dal 2016, Jon racconta della scomparsa della classe operaia a Bilbao e mi spiega che «portare l’industria fuori dalla città è stata un’operazione che riflette la stessa logica che guidò le autorità franchiste quando costruirono i poli universitari lontano dai centri urbani, per meglio poter controllare i focolai di protesta che in un contesto universitario era naturale che si producessero». Parallelamente «ci fu un impegno ossessivo nello sgomberare i numerosi gaztexes (in basco “case della gioventù”, assimilabili ai centri sociali italiani), perché evidentemente in questi spazi si produceva cultura e coscienza politica in maniera opposta al modello dominante. La Bilbao degli anni Novanta era una polveriera culturale, punto di riferimento a livello nazionale, all’avanguardia per la musica e l’autoproduzione. Di tutto questo non rimane molto, ma ancora oggi sussiste una forte separazione tra la proposta culturale delle grandi istituzioni cittadine, rivolta a un pubblico cosmopolita e internazionale, e la cultura dei quartieri popolari. Il cambiamento che si è dato a Bilbao non parla alla città e non è pensato per chi la abita, se non per una ristretta élite», conclude Jon.
La riconversione di Bilbao ha migliorato la vivibilità rispetto a qualche anno fa. La stessa meteorologia è più clemente, sia per l’assenza della cappa di smog che perennemente copriva il cielo catalizzando le precipitazioni, sia per l’effetto dei cambiamenti climatici globali. In cambio, però, Bilbao ha dovuto consegnare la propria anima. «Nulla che non sia successo in altri capoluoghi spagnoli o in molte capitali europee – è il commento di Garikoitz Gamarra, co-autore di Bilbao e il suo doppio –: si è passati da una cultura del lavoro e del risparmio a quella del tempo libero e del consumo». Lo scultore Jorge de Oteiza, uno dei più riconosciuti artisti baschi del Novecento, riferendosi alla Bilbao industriale la definiva “bella nella sua bruttezza”. «Oggi – conclude Iñaki Uriarte – è piuttosto insulsa nella sua bellezza».
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