Da qualche giorno mi sento esposto a un denso vortice di parole che si spostano e si sollevano tutt’intorno. Nel tramestio distinguo il tono di voci gravi e accigliate, accorate. Mi trovo all’aperto e il turbine ventoso m’investe a folate di frasi così: “con un’azione militare contro il settimanale satirico a Parigi il terrorismo…”, “il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo…”, “libertà di studiare, di far politica, di non…”, “ci riconosciamo in un orizzonte collettivo che tende a tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali nate proprio in questa parte del mondo”. Durante le pause ho la possibilità di guardarmi intorno: vedo le parole piombare al suolo e disegnare un solido confine che distingue i territori del “noi” da quelli del “loro” – “abbiamo creato uno spazio di libertà che non ha uguali sul pianeta…”.
Poi un mattino mi hanno visitato inattesi i ricordi della Tunisia. Sono giunti in mio soccorso e mi hanno suggerito: esistono sguardi meno sicuri, esiste un altro ordine delle parole. I ricordi provengono dall’estate del 2012. Era trascorso più di un anno dalla primavera che portò alla disfatta del regime, alla fuga di Ben Ali e alla vittoria nell’Assemblea Costituente di Ennahda, il partito conservatore di tendenza islamista. Ora leggo sui giornali che laggiù molto è cambiato, da poco ci sono state nuove elezioni. Ma io do valore solo alle impressioni raccolte in quell’agosto – ecco sono venute da me, allineate in una fila un po’ sbilenca abitano di nuovo l’immaginazione.
Mi trovavo nel piccolo porto di Kelibia, punta settentrionale della Tunisia. Mi ero rifugiato sotto la tettoia del ristorante per sfuggire alla canicola della controra. Un adolescente aveva portato due caffè, poi si era accomodato sulla sedia vicino fra cordami e fotografie. «Ora come vanno le cose?», chiesi. «Abbiamo la libertà». Ancora mi appare il suo sorriso segnato da una soddisfazione rilassata e orgogliosa. «È una cosa che respiri nell’aria», aggiunse.
La libertà mescolava il suo aroma alle terre costiere e sorvolava il viavai turistico di Hammamet e Monastir, vibrava fra i febbrili traffici dell’area metropolitana di Sfax, la capitale economica. Ma in quei giorni ascoltavo cronache che giungevano da Gafsa, centro industriale nel cuore del paese: nuove proteste nelle miniere, scioperi e scontri. Nella Tunisia interna e disperata, a Sidi Bouzid, un anno prima si diede fuoco Bouazizi: era l’inizio della primavera araba.
Una linea metro di superficie collega Tunisi ad Al Marsa. Ricordo le traversate chiuso nella lamiera rovente mentre la vettura correva sfiorando il mare. Gruppi di ragazzini aprivano a forza i portelloni in una baruffa di rumori, l’aria portava sollievo mentre li osservavo: giocavano a sporgersi, si appendevano ai corrimano e si spintonavano verso l’aperto. Ero seduto a fianco di una donna francese che lavorava per l’ambasciata del suo paese. Viveva ormai da anni a Tunisi e mi raccontava delle proteste. A un certo punto mi disse: «Vedi, siamo su un treno, e parliamo di politica. Intorno qualcuno ci guarda di traverso perché fino a poco tempo fa, con il regime, non si poteva parlare liberamente nei luoghi pubblici.»
Da un tetto nel cuore di Sousse ecco le case bianche della medina poi il porto e lontano l’azzurro del mare. «La medina è quasi tutta in mano a voi europei: comprano case in disfacimento e le mettono a posto per l’estate», mi raggiunse la voce di un uomo giovane e slanciato. Aveva appena preparato un caffè, aspettavo che la polvere si depositasse. «Sai perché Ennahda ha vinto? Alcuni dirigenti di spicco erano in esilio, gli altri hanno passato anni in carcere durante il regime. Con il crollo di Ben Ali hanno riscosso il loro credito simbolico, come martiri della libertà dopo più di cinque decenni di regime».
Nel 1956 la Tunisia ottenne l’indipendenza, la monarchia fu abolita e Bourguiba divenne primo ministro e presidente di una repubblica a partito unico. Nell’agosto il governo emanò un codice civile ispirato allo stato di diritto e alla laicità occidentali. In particolare si riconobbe l’indipendenza della donna dal padre e dal marito, furono abolite la poligamia e la facoltà di ripudiare la moglie, anche il divorzio ebbe un riconoscimento giuridico. Lo hijāb, il velo poggiato sul capo e sulle spalle, fu vietato nelle scuole e negli uffici. «Mia nonna racconta che ai tempi di Bourguiba e poi di Ben Ali era meglio uscire dalla porta senza il velo. Lo teneva solo quando si era tutti in casa» – ero su una nave e ora mi restano queste parole, frammenti di un dialogo con un ragazzo dal volto tunisino e l’accento bergamasco. Qualche giorno prima mi ero smarrito nella medina di Sfax, immensa e labirintica. Fra gli odori di frutta putrefatta in poltiglia e i profumi delle spezie vidi i manichini esposti fuori dalle sartorie: coperti dal panno nero e integrale del niqāb, spuntavano solo gli occhi immobili dei modelli. Poi donne coperte di nero camminavano al fianco di mariti dal portamento serioso e dagli abiti tradizionali. Allora mi chiesi: «Dunque, dopo la caduta di Ben Ali le donne hanno la libertà di portare il velo?».
“Con il velo o senza velo, vogliamo uguaglianza e diritti”, immagine tremolante d’uno striscione esposto a Mahdia, piccola città su una lingua di terra protesa verso il mare. Ogni 13 agosto in Tunisia si festeggia la giornata nazionale della donna in omaggio al codice emanato da Bourguiba. Ma quel giorno la commemorazione assumeva un valore politico contingente: donne, uomini, giovani attivisti si erano dati appuntamento per una manifestazione serale. E non solo a Mahdia, in tutto il paese i cittadini scendevano nelle piazze per protestare contro il disegno di legge di Ennhada. Il partito al governo stava tentando di modificare la costituzione introducendo alcuni criteri ispirati alla sharia. «Vogliono riscrivere la costituzione per definire la donna non più uguale, ma “complementare all’uomo”», mi dissero due giovani militanti mentre camminavamo fra le vie della cittadina, nel cuore del corteo. Intorno a noi proseguiva la vita dei giorni di festa. Era tempo di Ramadan e molti erano scesi in strada per mangiare qualcosa, passeggiare all’aria della sera e bere un tè; le vie centrali erano gremite di bancarelle. All’improvviso da alcuni banchi si alzarono le voci dei venditori: «Allah Akbar!», poi altre espressioni che non capivo. Nacque una contestazione rivolta al corteo: urlavano, avevano la jebba tradizionale, gli occhi seri, le gambe ferme. Ecco, non ero più un osservatore esterno, mi sentivo parte della manifestazione, ero solidale con le donne, anche io con i nervi tesi, come tutti intorno a me. Poi la tensione scemò. La manifestazione proseguì per vie meno illuminate mentre si alzava la brezza dal mare. Nella quiete pensavo ancora ai volti dei contestatori: venditori ambulanti, probabilmente esponenti dei ceti più precari e insicuri. Intorno a me alcune manifestanti risplendevano in sorrisi sospesi su foulard e orecchini.
Porto con me due immagini ultime. Entrambe provengono dalla piazza della Kasbah di Tunisi, sede del governo. Una piazza vuota, con le camionette della polizia e il filo spinato tutt’intorno, forse una bandiera che sventolava al caldo – così la vidi con i miei occhi. Ma ho anche il ricordo di una Kasbah immaginata: c’è un accampamento di tende messe su con teloni di plastica e cartoni, migliaia di occupanti si muovono sotto i palazzi, molti sono arrivati dal centro della Tunisia in lunghe carovane di auto. Ho avuto questa visione nella piazza deserta mentre qualcuno vicino a me raccontava della seconda occupazione al tempo del governo di transizione. «Il mio uomo ha registrato ore e ore di immagini, interviste, canti e proteste fra le tende. Che giornate erano quelle. Vuole farci un documentario».
Voglio dire che la libertà non divide il noi e il loro, non è nitida, non è evidente ma riempie tutto lo spazio, invischiata in un intrico di lamiere e di canti; poi scompare e lascia come un vuoto nella calura. La libertà penetra l’interno delle situazioni e di volta in volta sprigiona il suo odore ma non si può dire cosa sia, né si può congelarla in un concetto; si può solo educare lo sguardo, dal dentro delle cose, e riconoscerla nell’intrico della materia, chiamarla a sé e praticarla insieme agli altri sapendo che in un attimo scivola sotto il peso di un’obiezione, e altrove ritorna. (francesco migliaccio)
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