La vita è perdente contro il tempo, la morte e la caducità, ma la capacità di ricordare e raccontare il passato esorcizza la vertigine che ne consegue. “La memoria è la parte di eternità che ci è consentita”, ha scritto tempo fa il sociologo Paolo Jedlowski. Ed è in questo solco di memoria che va inscritto l’obiettivo primario di un volume collettivo pubblicato da Ombre corte e dal titolo: Cultura, potere, genere. La ricerca antropologica di Carla Pasquinelli, curato da Fabio Dei e Leonardo Paggi. Il saggio raccoglie voci e declinazioni di studio di amici, compagni di lavoro e studenti dell’antropologa toscana. I singoli contributi sembrano quasi passaggi obbligati che attraversano il percorso professionale ma anche esistenziale di una studiosa rara nel panorama antropologico italiano. Rara perché la sua postura multidisciplinare l’ha portata ad aprire nuovi orizzonti più che a chiudere finestre. La cultura, il potere e il genere sono tre macro-argomenti in cui Pasquinelli infilava le sue riflessioni come frecce che scoccano da un arco.
Di formazione filosofica, Pasquinelli si è interessata per anni a Sartre e Althusser con un’attenzione antropologica rispetto al dibattito sul marxismo: soggettivismo, oggettività, idealismo e antistoricismo facevano continuamente i conti con la questione coloniale. Di qui l’attenzione per i rapporti di potere così cruciali nelle sue etnografie. Il legame teorico con l’etnologo napoletano Ernesto De Martino è stato fondamentale per Pasquinelli, come ricorda nel suo intervento al saggio Pietro Angelini, “riconoscendolo come fondatore in Italia di una antropologia culturale diversa da quella americana, perché volta allo studio dei dislivelli culturali e portatrice di un concetto di cultura espresso i termini filosofici. Più del ricercatore sul campo, più del militante politico-culturale […] ci dobbiamo occupare del teorico: perché è in questa veste che ha dato alla antropologia italiana un nuovo punto da cui ripartire, dopo tanti documenti etnografici raccolti senza il pungolo di un problema conoscitivo”.
C’è stato un tempo in cui Napoli rappresentava un punto di riferimento importante per la ricerca nelle discipline demo-etnoantropologiche. Una scuola legata all’eredità di Ernesto de Martino, poiché vi facevano parte due sue allieve: Carla Gallini e Amalia Signorelli. All’università L’Orientale, sede di un dottorato di ricerca in Scienze antropologiche e analisi dei mutamenti culturali, c’erano studiosi come Pietro Angelini, Claudio Marta e Carla Pasquinelli, a cui poi si sono aggiunti Enrico Sarnelli e Miguel Mellino. Nella famosa “stanza degli antropologi” si alimentavano passioni di ricerca e sguardi critici, contribuendo a formare alcuni studiosi che hanno raccolto, se non del tutto, almeno in buona parte la loro eredità intellettuale. L’importanza dei loro insegnamenti stava nel cogliere la necessità dell’antropologia culturale e del suo uso pubblico. Come ricorda Leonardo Paggi nel suo denso contributo al volume, parafrasando Sarnelli, uno dei tanti meriti di Carla Pasquinelli era quello di “portare l’antropologia fuori dagli ambiti strettamente accademici, senza trasformare l’antropologo in un opinionista, e senza confondere il progetto conoscitivo dell’antropologia con le ragioni di una militanza”.
Quando Pasquinelli parlava non potevi fare a meno “di ballare con lei”, per usare una bella espressione di Ian Chambers. E con lei Gino Satta ripercorre una delle ultime etnografie con cui la studiosa si è confrontata, la polemica sulle mutilazioni genitali femminili, che la vide molto contestata dal femminismo italiano, in quanto sostenitrice di una proposta alternativa: trasformare l’intervento invasivo sui genitali femminili in una sorta di “finzione rituale simbolica”.
Pasquinelli difendeva un principio fondamentale per gli studi di genere e del femminismo postcoloniale: il corpo è un luogo di processi culturali; lo stesso corpo diventava però punto di riferimento anche per quell’antropologia dello spazio a cui la studiosa dedicò un importante saggio sulla casa e a cui fa riferimento la riflessione di Rossella Bonito Oliva. Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta, ma in uno spazio variegato con zone luminose e buie, dislivelli, spazi aperti e chiusi, transitori. Spazi che sono attraversati da relazioni umane.
Tra gli spunti che il volume ci suggerisce vi è quello del legame tra antropologia e potere, un legame che ha sempre angustiato l’antropologia italiana, tormentata dal suo stesso paradigma scientifico. Uno dei fili conduttori dell’antropologia di Pasquinelli è stato però il concetto di cultura. Un portato del colonialismo e un dispositivo di dominio e controllo, per dirla con Foucault. Un filtro occidentale con cui si giudica il resto del mondo. Pasquinelli non ha mai rifiutato l’utilizzo del concetto di cultura come caratterizzante la disciplina ma lo ha approfondito, entrando in dialogo e talvolta anche in conflitto, ma senza mai rinnegarlo. Perché la cultura, in senso antropologico, non è un concetto che sta fuori dal mondo, ma un prodotto, un insieme di processi e fenomeni situato negli esseri umani. E oggi il compito dell’antropologia culturale è proprio quello di mettere in discussione il senso comune della società occidentale. (marina brancato)
Leave a Reply