La classifica FIMI delle vendite musicali in Italia è una fotografia eloquente di quello che succede nel paese e non solo nell’ambito dei gusti musicali. Passioni, tendenze, aspirazioni e miserie, dai titoli che dominano il mercato si ricava uno spaccato della cultura contemporanea, attualmente dominata dai prodotti dei talent show che si prendono la vetta della classifica con Irama, proveniente da Amici sotto il quale prende corpo la geografia della cultura di massa contemporanea, che vede Emis Killa e Alessandra Amoroso precedere Lady Gaga. In ordine sparso poi Dark Polo Gang, Gue Pequeno, Capo Plaza, Sferaebbasta e Gemitaiz, a ribadire la presenza significativa del “fenomeno trap”, nel paese che ha visto fiorire negli ultimi venticinque anni una scuola hip hop di tutto rispetto. Proprio dal confronto tra questa nuova stagione della “parola sul ritmo” per dirla con il maestro Avitabile (e, diciamolo, della sua complessiva decadence) e la ricca storia dell’hip hop italiano viene da fare qualche riflessione alla luce di quanto accade oggi, in un panorama dominato dalle Gucci gang.
Sono passati trent’anni dai primi movimenti dell’hip hop nello Stivale, ed è inevitabile per chi, tra i pionieri, sia giunto “nel mezzo del cammin” della sua vita e del suo percorso artistico, tentare un bilancio che non si limiti a uno sterile “eravamo meglio noi”. Peraltro difficilmente contestabile. Anche a Napoli l’avvicendarsi di esperienze artistiche nate fuori dai circuiti del mainstream, ha animato in maniera significativa la vita culturale cittadina. L’hip hop è uno di questi umori culturali, che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante, indipendente da quella estetica che, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha condizionato le produzioni musicali spesso livellandole verso il basso.
Negli ultimi anni è soprattutto la trap a porsi come interlocutore dell’universo dei “quattro elementi”, che dalla forza con cui questa vague giovanile ha investito il mercato discografico finisce inevitabilmente per essere chiamato in causa. In particolare, merita attenzione la confusione creatasi tra due mondi che il mercato vorrebbe contigui, provando a far passare i fenomeni musicali dell’ultim’ora come filiazioni del mondo creato da esperienze come quella di Speaker Cenzou o de La Famiglia, che invece con quella storia hanno poco a che fare. In questo senso il processo di riordino delle idee a cui lavora da qualche anno un personaggio come Cenzou è essenziale a delimitare uno spazio e un profilo, dicendo in maniera chiara di cosa parliamo quando parliamo di hip hop.
«A me piace la musica. Mi tengo aggiornato. Ascolto anche quello che viene dall’universo della trap e devo dire che alcune cose le apprezzo pure. È importante però sapere che quello che facciamo noi e quello che fanno questi ragazzi non è la stessa cosa. Non pratichiamo lo stesso sport. Come organizzare una partita in cui uno gioca a pallavolo e uno a calcio. Il fatto che in entrambi i casi ci sia una palla non vuol dire che sia lo stesso gioco. Ci sono cose interessanti mentre altre sono inutili, ma succede in tutti gli ambiti. La maggior parte di questa roba, diciamolo, esprime la vacuità di questo tempo, è un riflesso generazionale. Se la maggior parte dei ragazzi del nostro tempo tiene l’acqua in testa, è chiaro che alcuni di loro faranno musica che viene da quell’acqua».
Dopo l’esperienza di Sangue Mostro, ultima formazione con Zin, Ekspo e Dj Uncino, Cenzou ha appena fatto uscire il video di Siamo a casa, una dichiarazione di appartenenza che dentro l’atmosfera di Star Wars riunisce due colossi della storia dell’hip hop italiano come Paura e Danno dei Colle der Fomento che dialogano con Cenzou a colpi di rime luminose e taglienti come spade jedi. Sulla scena da oltre vent’anni, Vincenzo Artigiano, figlio della Napoli delle Mura Antiche, da qualche tempo è impegnato in questo lavoro di riordino della propria avventura e di riflesso di quella storia dell’hip hop della quale è protagonista, senza nostalgie né istinti conservatori ma in un processo di recupero di memorie, tracce e musica quanto mai vitale.
«Nel 2017 è uscito Ammostro, un volume nel quale racconto la mia versione dei fatti. Il libro è nato dopo aver visto il documentario Numero zero che racconta la storia dell’hip hop italiano e nel quale ci sono troppe omissioni in una narrazione che taglia fuori diversi momenti significativi. In questi anni ho conosciuto tante storie che non sono state raccontate in quel film e ho pensato che era necessario farlo. Succede sempre, quando in Italia si prova a raccontare l’hip hop che Napoli sia raccontata poco e male, in maniera parziale. Si tende sempre a mettere avanti altre cose rispetto alla nostra storia che, invece, ha un livello artistico altissimo. Ma alla fine chi se ne frega, noi dobbiamo raccontarci da soli. Senza infilarsi in discorsi complottisti, è un dato di fatto che veniamo presi sotto gamba. È inutile lamentarsi, dobbiamo andare a prenderci quello che ci spetta senza attendere che qualcuno legittimi cose che la strada ha già legittimato tempo fa. Con Ammostro l’ho fatto, anche perché ho compiuto quarant’anni e allora prima di beccarmi l’Alzheimer ho pensato che era meglio non aspettare ancora».
All’uscita del volume Ammostro, autoproduzione andata a ruba in pochi mesi, ha fatto seguito BC20 Director’s cut, che celebra i vent’anni di Bambino Cattivo, il primo vero disco dell’hip hop partenopeo, che ha avviato una storia artisticamente significativa e riconosciuta in tutta Italia. Uno spartiacque per una cultura che dai primi anni Ottanta ha cominciato ad animare le strade napoletane, dichiarando che quegli umori erano maturi per diventare qualcosa in più che un gioco da ragazzi e diventando un punto di riferimento per le generazioni che da lì in poi si sono confrontate con questo mondo.
«Perché tirare fuori una cosa del ’96? Niente di complicato, una serie di riflessioni molto naturali. Per un periodo, dopo Malastrada, mi sono allontanato dal mio mondo, poi sono tornato andando in giro coi 99Posse e Sangue Mostro e la gente continuava a chiedermi di fare le cose di quel periodo. Erano brani che stavano nel cuore delle persone. Ho sentito l’esigenza di tirarli fuori semplicemente perché me li chiedevano, non sono mai stati dimenticati. È chiaro che quei pezzi, cosi come sono stati concepiti nel ’96, appartengono a un’altra persona. A un altro tempo. Andava perciò fatto un upgrade perché io non sono più quella persona. L’ho fatto e li ho condivisi dopo vent’anni per celebrare un momento importante di passaggio. Ci sono un sacco di persone che con questo disco sono cresciute e sono la maggior parte degli ospiti sul disco, che vengono da ere successive alla mia. Ho pensato pure che qualcun altro se ne stesse dimenticando, il tempo passa. Mi sembrava carino ricordarglielo. Da qui l’idea di proporre un disco che è fatto con un approccio classico ma che non suona vecchio. Anzi. È un’appendice rispetto a quello che ho raccontato nel mio libro. Un ponte tra ciò che è stato e tutto quello che verrà».
Uscito nel 1996, Bambino Cattivo è il disco che raccoglie l’energia che si era sviluppata per le strade di Napoli dall’inizio degli anni Ottanta. Prodotto dalla Flying, con le sue quindicimila copie vendute è un piccolo successo di vendite cui fanno seguito numerosi live in giro per l’Italia e l’Europa e collaborazioni con artisti di primo livello di quella Napoli musicale che è il brodo di coltura dentro cui si sono formati Cenzou e tanti artisti della sua generazione. Un disco che prende il testimone da artisti come Enzo Avitabile o Pino Daniele e porta su un palcoscenico più ampio quel rap fiorito in pochi anni dentro scenari improbabili come il parco della Floridiana al Vomero, teatro delle prime epiche battle di breaking, o intorno a un Bidone nel cuore del centro storico, dove si ritrovavano i primi rimatori napoletani. Riproporre quel lavoro vuol dire fare un bilancio ma soprattutto rilanciare, per dire che si riparte da quello spirito e da quella energia per proiettarsi nel futuro. In questo senso BC20 Director’s cut celebra questi vent’anni con quindici tracce opportunamente rielaborate in quel caotico e fertile laboratorio che è il Sodo Studio di San Gaetano. Un disco ricco di collaborazioni, da pionieri come Tormento, 2Phast, Paura e Danno a esponenti della nuova leva come Oyoshe e Pepp Oh, passando per Clementino e Rocco Hunt, fino ad artisti come Francesco Di Bella e Ida Rendano che, provenienti da ambiti differenti, con quel mondo hanno sempre dialogato, dentro quell’humus incredibilmente fertile che è il mondo artistico partenopeo.
«Dentro questo disco ci sta un pezzo importante di Napoli. Artisti fortissimi vecchi e nuovi che ho voluto tenere con me perché abbiamo molte cose da dirci. È un universo di creatività che deve trovare spazi sempre maggiori in Italia. A questo scopo è fondamentale creare un tessuto produttivo e distributivo. Oggi ci sono tanti ragazzi che vanno a lavorare e mettono da parte i soldini per pagarsi lo studio, domani entreranno nell’ottica di conservare altri soldini per l’ufficio stampa. Queste cose fondamentali per la promozione di un lavoro musicale devono farle da soli perché non c’è più una realtà come la Flying Records, un’indipendente che si giocava la partita con le major facendo roba di qualità. Allora noi artisti dobbiamo fare un altro ragionamento, cambiare approccio e valorizzarci. Nelle grandi catene di distribuzione ci sono settori che vendono e propongono roba biologica, artigianale. Tu entri e trovi la finta mozzarella imbustata nei frigoriferi e quella di bufala buona nell’apposito settore. Dobbiamo riuscire a fare quello. Creare dentro il mercato lo spazio del nostro “caseificio artistico”. Una proposta fatta di roba genuina che comunichi chiaramente che noi facciamo un’altra cosa rispetto alla produzione di massa, roba di alto livello, di qualità. Dobbiamo conquistare legittimità. Ognuno poi si compra e si ascolta quello che vuole ma noi dobbiamo stare sugli scaffali. Tanto alla fine vince la qualità. Kendrick Lamar in America ha vinto il Pulitzer. Chi lo ha detto che per salire su un livello di distribuzione mainstream devi per forza snaturarti?». (antonio bove)
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