In una delle presentazioni del suo podcast Cara Bianca. Epistolario dal braccio della morte, la giornalista e documentarista Marzia Coronati è stata più volte sollecitata a un paragone tra la realtà carceraria statunitense e quella italiana, «al netto del fatto che un paragone non è, in fondo, del tutto possibile, perché in Italia non c’è la pena di morte». Forte della propria esperienza, Coronati ha schivato questa semplificazione partendo dalle reazioni che la lettura delle parole dei condannati a morte americani aveva suscitato nei detenuti del carcere di Orvieto con cui la stessa autrice aveva lavorato, e che avrebbero avuto poi un ruolo importante come “interpreti” delle lettere nel documentario.
Cara Bianca racconta il “braccio della morte” dei penitenziari americani attraverso il lavoro di Bianca Cerri, giornalista e attivista contro la pena di morte, che ha tenuto per anni corrispondenze con numerosi detenuti condannati alla pena capitale negli Stati Uniti, proprio mentre questi erano in attesa di essere assassinati all’interno di un carcere (nel 2002 Cerri ha scritto America Letale. Epistolario dal braccio della morte, raccontando una parte di questo suo percorso). Coronati era amica di Bianca Cerri, scomparsa nel 2022 per una malattia peggiorata negli anni del Covid. Dopo la sua morte, ne ha recuperato l’archivio e ha raccontato il suo lavoro rileggendo lettere, biografie e storie.
La scelta di partire dalle storie ha un senso politico. Ogni lettera è una persona, e ogni persona ha un vissuto, per lo più di povertà, espulsione, esclusione ed emarginazione che rende emblematica e inoccultabile la funzione di contenimento della marginalità esercitata dal carcere. Rodney Rachal, il primo detenuto con cui Cerri ha corrisposto a partire dal 1996, descrive “un luogo destinato ai poveri e alla gente senza aiuto, che non si può permettere nemmeno di chiamare un avvocato”. Afroamericano di un quartiere povero di Houston, Rachal era finito in carcere a vent’anni, dopo una rapina culminata nella morte di due passanti. Era malato di Aids e in galera era divenuto quasi cieco. Dopo ventidue anni, la sua sentenza a morte è stata annullata e commutata in quattro ergastoli. Dalla pena di morte alla pena fino alla morte.
Colore della pelle, classe sociale e condizione economica sono tre fattori fondamentali nell’analisi della popolazione carceraria nel mondo. Non fanno eccezione gli Stati Uniti, e non fanno eccezione i suoi bracci della morte: ancora ventotto stati esercitano in Usa questa barbarie, per un totale di ventiquattro persone uccise solo nel 2023. In alcuni casi, come quello della California, su dieci detenuti nei bracci della morte ben sei sono neri o ispanoamericani.
Anche il tema della relazione tra potere e povertà emerge con prepotenza dalle lettere, considerando per esempio l’immane sbilanciamento di forze tra l’accusa (i procuratori possono spendere decine di migliaia di dollari su ognuno di questi casi, e fare importanti carriere, anche politiche) e i difensori degli accusati (spesso d’ufficio, sottopagati e totalmente demotivati). Difendere un “povero cristo” condannato a morte (riprendendo un’espressione usata da un detenuto in un’altra pubblicazione importante, di cui si parlerà a breve) non ha in sostanza alcuna convenienza, anche alla luce dell’ambiente mediatico e processuale in cui si svolgono i procedimenti per casi che hanno sempre una forte eco pubblica. Un’ipocrisia che, attraverso alcuni passaggi ricorrenti (lo raccontano in tanti modi diversi i condannati), conduce uomini e donne verso una fine per loro stessi inimmaginabile fino a poco prima della carcerazione.
Quest’ultimo concetto è fondamentale anche nella lettura di un altro lavoro epistolare uscito da poco: L’ipocrisia del carcere. Dal minorile agli istituti per adulti. Il libro raccoglie le lettere scritte dal detenuto Francesco Costanzo a Paolo Bellati (che con Laura Alemagna cura il volume per Sensibili alle foglie), educatore e operatore sociale divenuto amico di Costanzo nel corso della prima fase della sua detenzione ormai decennale, al minorile Cesare Beccaria di Milano.
Anche in questo caso l’evolversi della biografia del protagonista – ricostruita attraverso le lettere con continui salti tra passato e presente – ha la forza di raccontare un mondo, quello del carcere, che totalizza il corpo e la mente di chi vi è assoggettato, impegnandolo in una lotta di resistenza all’annichilimento. Tra le righe (e nemmeno troppo) della prosa diretta con cui Costanzo si rivolge a Bellati, torna il racconto del processo con cui il potere si impossessa di un corpo (“asportare l’anima” o “sentirsi imbalsamati”), processo descritto con espressioni non diverse da quelle utilizzate dai condannati a morte con cui corrispondeva Cerri.
La comprensibile ossessione di essere trasferito in un carcere “più vivibile”, quella di leggere, studiare o imparare le lingue, la descrizione dell’ottusità e dell’impreparazione che caratterizzano i lavoratori delle strutture, la tensione verso la protesta, l’esplosione di rabbia, la ribellione descritti da Costanzo non possono prescindere dallo stato di privazione di libertà e volontà cui un detenuto è sottoposto, dal condizionamento delle scelte fisiche e comportamentali che l’istituzione esercita attraverso il ricatto della premialità, nel breve termine e ancora di più nei casi delle lunghe carcerazioni (e in via totale nel caso dell’ergastolo, in cui il detenuto o la detenuta non sono in grado di sapere, mai, se e quando la loro vita all’esterno del carcere potrebbe ricominciare¹).
Le lettere raccolte da Alemagna, Bellati, Cerri e Coronati non ci spiegano soltanto come si sta in carcere e al braccio della morte. Ci ribadiscono la funzione del carcere, la sua relazione con la degenerazione delle strutture psichiche e sociali di chi vi è chiuso, così come con la malattia e la morte. Ci dicono che la rieducazione non c’entra nulla con questa istituzione e che chi riesce a salvarsene lo fa solo con le proprie forze, come fortunatamente sta accadendo a Costanzo e come può accadere persino ad alcuni di quegli uomini e donne che riescono a mantenere in vita il proprio essere pur in attesa del giorno in cui gli verrà somministrata l’iniezione letale o in cui verrà attivata la sedia elettrica. È, naturalmente, un equilibrio fragilissimo, tanto più che l’elemento fondamentale per questo tipo di percorso è la presa di coscienza, la stessa che può portare a soluzioni estreme verso opposte direzioni, come la chiusura totale su sé stessi, l’abuso di farmaci, l’autolesionismo o il suicidio, tutte opzioni che l’istituzione non fa nulla per scongiurare, quando addirittura non le incoraggia.
Cara Bianca e L’ipocrisia del carcere non sono insomma solo una (preziosa) denuncia. Emerge con chiarezza, dal lavoro politico che vi è alla base, la volontà degli autori, e la necessità di immaginare una nuova relazione tra il dentro e il fuori, che oggi non può essere quella di quaranta o cinquant’anni fa. Stringere rapporti, ascoltare le voci, supportare le persone, sforzarsi di entrare dentro i corpi di chi è recluso è forse l’unico modo per far comunicare e contaminare tra loro lotte che, in maniera diversa, sia dentro che fuori, si dipanano affannosamente per l’eliminazione di questa inumana e antistorica istituzione. (riccardo rosa)
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¹ La mancanza di un quantum di pena definito in sede processuale a un numero preciso di anni elimina nel detenuto l’esistenza stessa delle idee di speranza e di attesa rispetto al possibile futuro, creando in lui una condizione di non-vita perpetua. La pena dell’ergastolo appare in questo senso più assimilabile alla schiavitù (d’altronde l’ergastolum romano era proprio una prigione dedicata agli schiavi): lo Stato entra in possesso del corpo della persona detenuta, oggettivandolo, e attribuendosi la prerogativa di decidere, senza che questa possa nemmeno entrarne a conoscenza, se, quando e a quali condizioni restituirglielo. L’idea di rinchiudere un soggetto a vita in un carcere si scontra inoltre con il principio della risocializzazione del reo presente nella Costituzione. È per questo che la legge è stata costretta a prevedere la possibilità che il detenuto goda (ma solo in taluni casi molto specifici!) di alcuni benefici come permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale. Si evidenzia infine come le condanne alla pena dell’ergastolo siano in aumento: i detenuti condannati sono oggi circa mille e ottocento, mentre all’inizio degli anni Novanta erano quattrocento (dal 2,8 al 5% della popolazione detenuta). Da: PERCHÉ NO, in: moriredipena.com
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