Sono appena le sei di mattina nel quartiere Barriera di Milano, a nord di Torino, e già gli abitanti devono fare i conti con la massiccia presenza di polizia. Quattro camionette, due per lato, chiudono il tratto di una strada di edifici residenziali, mentre all’interno del perimetro presidiato diversi celerini in tenuta antisommossa blindano l’ingresso a un palazzo. Gli sparuti residenti di passaggio, alla vista delle schiere di poliziotti, deviano di colpo il proprio tragitto, oppure si avvicinano timidamente chiedendo di poter rientrare a casa.
Questa manovra militare non è stata escogitata per un “blitz” o una retata, alcuni dei nomi che i giornali amano dare alle frequenti sortite delle forze dell’ordine in quartiere, ma per eseguire lo sfratto di una famiglia; dopo mesi di resistenza insieme al collettivo Prendocasa, Fatima, suo marito, tre figli minori e l’anziana nonna, vengono sfrattati nel giro di poche ore e sono costretti ad accettare una soluzione abitativa temporanea in condivisione con altre famiglie. Si tratta di un ricatto istituzionale: la proposta, che già avevano rifiutato perché inadatta alle loro esigenze, è adesso accompagnata da un drappello di agenti in tenuta antisommossa.
Due giorni dopo, a sud della città, viene eseguito un altro sfratto. Si tratta questa volta di uno sfratto a sorpresa, normato dall’articolo 610 del Codice di procedura civile, il quale prevede che l’esecuzione possa avvenire senza alcun preavviso, rendendo impossibile alle famiglie difendersi attraverso i picchetti. Così la celere, in assenza dei servizi sociali, ha buttato fuori di casa una famiglia con una bambina di due mesi. Anche in questo caso l’unica soluzione disponibile è una struttura in condivisione, fatiscente e lontana dal quartiere di provenienza.
IL RUOLO DEL TERZO SETTORE
Lo stesso pomeriggio Prendocasa fa irruzione a un seminario alla presenza dell’assessore alle politiche sociali Jacopo Rosatelli (Sinistra Ecologista), per contestare la gestione poliziesca degli sfratti e la miseria delle politiche abitative del Comune. L’incontro è sponsorizzato dal progetto europeo Hero (Housing and Employment of ROma people) a sostegno delle famiglie rom, che ha come capofila in Italia la cooperativa Liberitutti. Mentre l’assessore si allontana per evitare il confronto con i militanti, all’interno si susseguono gli interventi di diversi rappresentanti del terzo settore. Liberitutti, che dal 2013 ha partecipato allo sgombero coatto dei campi di baraccati di Lungo Stura Lazio e via Germagnano, può moderare il dibattito e prendere parola come realtà benevola nei confronti della comunità rom senza ricevere critiche e obiezioni da operatori e istituzioni invitati all’incontro. Diventa così manifesta la frattura tra un vociare istituzionale vano e inconsistente, e una realtà sempre più violenta.
Le storie di questo inverno sono simili a molte altre che ho conosciuto nel corso del tempo, nei picchetti e in strada: famiglie o singoli sotto sfratto, oppure che vivono in abitazioni insalubri e fatiscenti, oggetto dei ricatti e delle truffe dei proprietari di casa. Stranieri o poveri, non riescono a trovare un affitto, o abitazioni dignitose, nel mercato privato, mentre la casa popolare è per i più solo un miraggio. Negli ultimi mesi questa situazione, soprattutto nelle sue manifestazioni più estreme, ha assunto una certa risonanza all’interno del dibattito pubblico, anche grazie all’attenzione di diverse associazioni del terzo settore. Tra queste vi è la Rete antirazzista e militante per l’abitare (Rama), costituitasi a ottobre 2023 in seguito alla pubblicazione di un appello dell’associazione Frantz Fanon che denuncia la discriminazione delle persone straniere nell’accesso alla casa, cui fa seguito anche una proposta politica da sottoporre al Comune. Poco tempo dopo l’associazione Comunet – Officine Corsare, della rete Arci, lancia la campagna Vuoti a Rendere, nata dalla stesura di una delibera di iniziativa popolare che propone di “restituire alla collettività” le decine di migliaia di case sfitte, di proprietà pubblica e privata, come risposta concreta al problema abitativo. La campagna viene inaugurata durante un’assemblea pubblica che avvia la raccolta firme da presentare al Comune. Diventa presto chiaro che la delibera non verrà discussa nei suoi contenuti: la folla di giovani avventori, studenti, operatori sociali e professionisti, è invitata a firmare ed eventualmente a darsi disponibile per la gestione di aspetti organizzativi e logistici.
La delibera si articola intorno a tre punti: attuare un censimento del patrimonio edilizio vuoto; utilizzare la leva fiscale per diffidare i proprietari di beni in stato di abbandono, o in ultima istanza, ricorrere alla requisizione; facilitare l’incontro tra domanda e offerta di case attraverso il coinvolgimento di Lo.Ca.Re., l’Agenzia sociale comunale per la locazione, favorendo gli affitti a canone concordato o sociale. Secondo i promotori, appurata l’insufficienza dell’edilizia residenziale pubblica e delle recenti politiche, è necessario dare spazio a soluzioni “innovative”, in linea con le esperienze più avanzate in Europa, al punto che, come dichiarano, nella stesura hanno copiato un disegno di legge catalano.
L’AMBIGUITÀ DELL’INNOVAZIONE
Cerco di andare oltre l’entusiasmo che sempre accompagna l’apparire di ciò che si dichiara “innovativo”. All’ombra di discorsi e parole d’ordine condivisi mi sembra si celino ambiguità semantiche, snodo di questioni irrisolte. I soggetti del mondo dell’associazionismo che avanzano nuove visioni si muovono infatti nell’alveo della realtà frammentata che caratterizza le politiche urbane e il welfare neoliberali. Al fenomeno, oggetto di denuncia, dell’alienazione del patrimonio edilizio pubblico e del sottofinanziamento delle politiche abitative si associano processi di speculazione e di esproprio più ampi e pervasivi.
Il privato sociale, attraverso fondi di investimento e fondazioni bancarie, ma anche grazie all’intervento del terzo settore, si fa strada nel social housing con le sue innovazioni approfittando di deleghe, concessioni e arretramenti dell’attore pubblico. Emergono così strane corrispondenze: se la campagna Vuoti a Rendere adotta lo slogan “troppe famiglie senza casa e troppe case senza famiglia”, lo stesso fa Homes4all, una “startup innovativa” che acquista, ristruttura e gestisce immobili per affittarli a un “canone accessibile”. Grazie al riuso del patrimonio immobiliare vuoto si concilia così il bisogno di un tetto delle famiglie in emergenza abitativa con la realizzazione di profitti etici per proprietari e investitori (“una casa per tutti, un rendimento per te!”). Il progetto è promosso dalla città di Torino con il coinvolgimento dell’associazione Acmos, e anche in questo caso i beneficiari sono selezionati dalla graduatoria di Lo.Ca.Re. e seguiti da terzo settore e servizi sociali.
Homes4all si basa sull’uso di uno strumento finanziario (il social impact bond) che premia le società private investitrici in relazione al risparmio economico procurato all’ente pubblico tramite l’erogazione di servizi di welfare. Tale approccio imprenditoriale al welfare trova espressione nel modello dell’housing sociale, nato nel primo decennio degli anni Duemila dalla volontà di offrire soluzioni abitative che integrino profitto economico-finanziario e interesse collettivo, e che viene legittimato proprio a partire dalla dichiarata carenza di risorse pubbliche. Nel 2022 erano sei gli interventi registrati all’interno del programma comunale di social housing promossi soltanto da Compagnia di San Paolo. Seguire la scia del Programma Housing di Compagnia di San Paolo, attivo tra il 2006 e il 2019 e confluito nella Missione Abitare tra casa e territorio, permette di tracciare un percorso dove materialità e dimensione simbolica si intrecciano, legando tra loro narrazioni solidaristiche, partecipazione dal basso, rendita immobiliare e riqualificazione urbana. Sul sito della Fondazione leggo: “La Missione Abitare tra casa e territorio sviluppa anche soluzioni di social housing diffuso, una modalità innovativa che prevede di intercettare patrimonio immobiliare sfitto o in disponibilità del terzo settore, crediti deteriorati e alloggi in asta giudiziaria. Questo genere di attività richiede la progettazione e la sperimentazione di strumenti finanziari, gestionali e sociali ad hoc”.
Parte di questa sperimentazione è Luoghi Comuni di Porta Palazzo, housing sociale per “persone in stress abitativo e city users” situato in una struttura data in comodato d’uso gratuito per trent’anni all’Ufficio Pio, ente strumentale di Compagnia di San Paolo, da parte del comune di Torino e oggetto di riqualificazione. Luoghi Comuni offre, oltre a esercizi commerciali, un ristorante, un ampio spazio polifunzionale e abitazioni in affitto temporaneo, anche alloggi a canone concordato per persone con un reddito lordo tra i 1.000 e i 1.660 euro al mese, che garantiscono la quota social del servizio. Il progetto, gestito dall’impresa sociale Co-abitare, prevede “servizi, spazi comuni e attività rivolte sia agli abitanti che al quartiere e alla città, per andare oltre alla funzione residenziale e promuovere una nuova cultura dell’abitare”.
Un altro esempio di questo modello sono le “coabitazioni giovanili solidali”, un progetto che ha inserito circa sessanta giovani dai 18 ai 30 anni in alloggi del Comune e di Atc (l’Agenzia territoriale per la casa del Piemonte Centrale), concessi loro in affitto calmierato in cambio di dieci ore di volontariato settimanali. Gli alloggi in coabitazione sono situati all’interno di complessi di edilizia residenziale pubblica in modo da “prevenire forme di degrado urbano” al loro interno, grazie alla sinergia tra le associazioni del terzo settore che li gestiscono e scelgono i nuovi inquilini e i giovani volontari occupati in attività di “vicinato solidale” all’interno del quartiere.
Attori tradizionali (Comune, Atc e terzo settore) promuovono così nuove forme gestionali del vecchio patrimonio edilizio pubblico sotto l’egida di una fondazione bancaria, selezionando i destinatari di abitazioni a canone convenzionato secondo i criteri del social mix: i nuovi abitanti, devono distinguersi positivamente dal contesto marginale e degradato in cui vivono per essere riconosciuti come vettori di innovazione e rigenerazione sociale. “Co-progettazione”: ecco il termine usato per descrivere l’unione di forze tra attore pubblico, enti filantropici e terzo settore in vista di un obiettivo comune. Se questo universo simbolico, o ideologia, si diffonde a sinistra, forse la ragione risiede nella rimozione da ogni discorso del dato economico che ne è all’origine: i finanziamenti che Compagnia di San Paolo elargisce alle stesse associazioni del terzo settore schierate in difesa del diritto alla casa.
ACCANTONARE IL CONFLITTO
Ritorno all’assemblea pubblica di Vuoti a Rendere dove viene chiesto dal pubblico come comportarsi nell’eventualità in cui all’interno delle case vuote censite dovessero trovarsi persone senza contratto. La risposta dal palco rimanda in modo vago alla sfera della legalità. In fondo, si tratta di un’iniziativa «pragmatica e ragionevole», una proposta riformista, che, secondo le parole degli organizzatori, «potrebbe sembrare rivoluzionaria ma in realtà non lo è». Nel testo della delibera è scritto: “Tra i costi riconducibili a un tale stato di abbandono ingiustificato di edifici e alloggi sono da annoverare anche le occupazioni senza titolo, che spesso insistono su beni privati e pubblici in disuso da anni e che, sovente, sono connesse a situazioni di precarietà abitativa e igienico-sanitaria, nonché di disagio e di esclusione sociale ed economica”. Motivo per cui diventa necessario “prevenire le occupazioni senza titolo del patrimonio edilizio privato e pubblico”.
La mediazione dei servizi sociali e del terzo settore è un passaggio fondamentale nelle politiche abitative centrate sull’incontro tra domanda e offerta all’interno del mercato immobiliare. L’inquilino deve collaborare con gli operatori sociali che monitorano i suoi progressi e lo accompagnano in un “percorso di autonomia”, ma anche con i proprietari di casa bisognosi di rassicurazioni. Ogni prospettiva di lotta e conflittualità, o di pratiche come l’occupazione, è accantonata in nome di una concertazione pacificata tra i diversi attori in campo, senza considerazione alcuna dei rapporti di potere soggiacenti.
Si inserisce senza contraddizioni, allora, l’intervento della consigliera comunale di Sinistra Ecologista, Alice Ravinale, che addita la circolare del ministro Piantedosi contro le occupazioni abusive e ringrazia gli ideatori della delibera per il nuovo strumento messo a disposizione contro l’avanzata della destra al governo. Solo il giorno dopo verrà reso noto che Sinistra Ecologista ha proposto una mozione per rendere bene comune il cortile dell’ex Asilo occupato di via Alessandria, storico centro sociale anarchico sgomberato nel 2019: ecco un’altra area pubblica da “restituire alla cittadinanza” grazie all’intervento della sinistra cittadina, dopo il recente progetto di bene-comunizzazione e regolarizzazione, questa volta per evitare lo sgombero, del centro sociale Askatasuna.
L’assemblea è finita e per un attimo ho una visione: immagino la società civile qui riunita schierarsi dalla parte degli sfrattati e di tutti i reietti e insieme a loro dire: “Se non ci date le case allora noi ce le prendiamo!”. Il vociare sparso mi riscuote da ogni fantasia. Realizzo di essere parte di un rituale collettivo in cui, ai margini di discorsi pieni di buone intenzioni, forze sociali e percorsi politici apparentemente lontani convergono per tracciare la linea invisibile che ridefinisce i confini tra sommersi e salvati, tra chi saprà adattarsi ai mutamenti in corso, e coloro che invece non vedranno offerta loro alcuna soluzione, “innovativa” o meno, a una realtà di miseria e repressione. (flavia tumminello)
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