Da metà maggio è in libreria a Napoli, e dall’inizio di questa settimana anche a Roma, Bologna, Milano e Torino, il nuovo numero de Lo stato delle città (12 / maggio 2024). Proponiamo a seguire un editoriale scritto dalla redazione sul tema delle proteste studentesche contro il genocidio in corso nei territori palestinesi occupati.
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Il numero delle pubblicazioni scientifiche sulla Palestina dagli anni Novanta a oggi è arrivato a un milione e trecentomila, ha spiegato in una conferenza Ruba Salih, professoressa palestinese all’Università di Bologna. Ognuna di queste pubblicazioni ha contribuito alla carriera di uno o più ricercatori, al ranking di un dipartimento universitario, ai profitti di un editore. Ma dove sono adesso tutte queste persone?
La ricerca implica reciprocità. Le persone ti concedono tempo, energia, ti raccontano le loro storie, ma danno per scontato che quando tornerai nel tuo paese non parlerai male di loro, al contrario, le elogerai e le difenderai. Chi offre la sua casa, il suo tempo, la sua generosità, si aspetta di ricevere lo stesso, o di più, quando ne avrà bisogno. Le università italiane, ma non solo, stanno dimostrando un’avarizia terrificante nei confronti della Palestina, un luogo non solo geografico che hanno usato ogni qual volta ne hanno avuto bisogno.
Naturalmente, nessuno di questi articoli scientifici è stato scritto dagli studenti e dalle studentesse, che invece ora sono i principali protagonisti della mobilitazione contro gli accordi e le pratiche di collaborazione dei loro atenei con quelli coinvolti nel genocidio dei palestinesi. Dopo la risoluzione della Corte internazionale di giustizia, sospendere gli accordi con le università israeliane non è più solo una questione di “boicottaggio, disinvestimento e sanzioni”, ma anche di rispetto della legalità internazionale. È un tema che le istituzioni accademiche e i loro rappresentanti dovrebbero avere a cuore, ma che sembrano voler evitare come la peste, se non sono messi alle strette dai loro studenti.
Negli Stati Uniti, Stanford è stata occupata per centoventi giorni; le organizzazioni studentesche di Ucla, Davis, Riverside, hanno imposto agli atenei di non usare i soldi delle loro tasse per finanziare Israele; a New York, l’accampamento studentesco davanti a Columbia è cresciuto anche dopo gli oltre cento arresti di studenti da parte della polizia. Un professore di Stanford ha scritto che una mobilitazione simile non si vedeva dai tempi del Vietnam. Per tornare all’Italia, le università di Torino, Siena e Bari non hanno partecipato al bando del ministero degli esteri per la collaborazione con Israele dopo le proteste e le mobilitazioni studentesche; il rettore dell’Università di Bari è uscito anche dal consiglio scientifico di Med-Or, la fondazione per il Medio Oriente dell’azienda Leonardo Spa, che produce armi per l’esercito israeliano; il rettore dell’Università Federico II di Napoli ha annunciato che avrebbe fatto lo stesso, impegnandosi inoltre a discutere con il senato accademico sulla pertinenza degli accordi con gli atenei israeliani.
Tuttavia, nella fondazione Med-Or rimangono ancora una decina di università italiane e/o i loro rettori (L’Orientale di Napoli, Ca’ Foscari, Trento, Perugia, Salerno, Firenze, Tuscia, Politecnico di Milano e di Bari, Roma Tre e Sapienza). Il progetto del ministero degli esteri per la collaborazione scientifica con Israele è rimasto in piedi, nonostante la manifestazione davanti al ministero a Roma, il giorno prima della scadenza del bando, il 9 aprile scorso.
Una questione importante che i movimenti studenteschi stanno cercando di evidenziare è quella del dual use. Il tema è scandagliato con precisione da Michele Lancione, docente del Politecnico di Torino, nel libro gratuito Università e Militarizzazione: esistono numerose tecnologie che possono essere usate per usi sia civili che militari, ed è per questo che velleitaria va considerata la richiesta di sospendere solo le collaborazioni esplicite (che pure non sono poche) degli atenei con l’industria militare.
Il bando del ministero degli esteri, per esempio, si concentra sulla desalinizzazione dell’acqua e la gestione del suolo, oltre che sui dispositivi ottici di precisione. Se è evidente come questi ultimi vengano usati per puntare meglio le armi, o per schedare persone (i palestinesi, appunto) con il riconoscimento facciale, nel caso del massacro in corso nella Striscia di Gaza i progetti di gestione dell’acqua e del suolo stanno risultando fondamentali per un regime che punta ad appropriarsi di tutte le risorse naturali, anche razionando acqua e cibo in modo da rendere la vita impossibile ai palestinesi.
Ogni disciplina può essere usata per la colonizzazione. L’architettura, per esempio, è fondamentale per rafforzare la dominazione sionista (l’hanno mostrato Eyal Weizman e Alessandro Petti); o l’archeologia, che da un secolo lavora per imporre l’idea che la Palestina sia stata un tempo ebraica; l’antropologia usa la sua capacità dialettica per rendere più ambigua la violenza coloniale e più vaghe le richieste di giustizia; i giuristi fanno il possibile per legittimare occupazione e genocidio, tanto più che nelle università israeliane ci sono ex membri dell’esercito che insegnano diritto (per esempio Pnina Sharvit Baruch, che nel 2008 giustificò il bombardamento su una caserma dei vigili urbani a Gaza, sostenendo che le centottanta vittime sarebbero diventate col tempo militanti di Hamas, e che oggi dichiara che la legge internazionale deve adattarsi e accettare le pratiche militari che Israele ritiene legittime).
In questo contesto, è assurdo che ci siano ancora rettori, docenti, ricercatori e ricercatrici che insistono nel rivendicare imparzialità, oggettività ed equidistanza; parole vuote in uno scenario come quello israelo-palestinese, dove le forze in conflitto dispongono di risorse (materiali e immateriali) così sproporzionate, e le ragioni di una delle due parti vengono messe quotidianamente, da quasi un secolo, sotto i piedi dall’intera comunità internazionale.
All’interno dell’università sembrano essere proprio i soggetti che dovrebbero avere contezza del mondo reale, studiarlo e (magari!) lavorare per cambiarlo, a rifuggire la prima linea di questa battaglia, impegnandosi in poco altro che petizioni e raccolte di firme online. Una “lettera degli accademici al ministero degli esteri” ha raggiunto 2.760 firme, e all’ultima riunione per discuterne hanno partecipato più di centocinquanta persone di tutta Italia. La difficoltà principale, anche per i pochi che si stanno seriamente impegnando in questo tipo di iniziative, sembra essere, in questa fase, un’assunzione di responsabilità collettiva, magari traducendo in azione politica concreta l’enorme mole di informazioni e conoscenze che stanno emergendo, e ancor di più coordinando iniziative che se rimarranno isolate sui singoli territori faranno inevitabilmente fatica a durare.
Allo stesso modo, anche la creazione di una relazione realmente politica, orizzontale e sincera, tra i lavoratori dell’accademia (dai docenti strutturati ai dottorandi) e gli studenti, fa quasi ovunque fatica a nascere, se non su un piano occasionale, quello del professore di sinistra che va a parlare alle iniziative organizzate da attivisti e attiviste. È chiaro che c’è bisogno di fare di più. Il sussulto di orgoglio della comunità studentesca in questi ultimi mesi, dopo anni di difficoltà enormi in termini di organizzazione, è una preziosa occasione e un patrimonio che va alimentato in ogni modo possibile. La lotta contro la militarizzazione del mondo della formazione non è solo indispensabile qui e ora, alla luce dell’ingaggio degli atenei italiani nell’industria bellica e del genocidio in corso in Palestina; ma è un’occasione fondamentale per tornare a mettere in discussione un intero modello di sapere che è ormai, in ogni suo singolo aspetto, compromesso con quello del profitto, della produzione e della competitività a ogni costo. Gli studenti possono far molto, ma non bisogna fare l’errore di lasciarli ancora una volta da soli. (redazione monitor)
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