In queste ore l’uragano Ida sta attraversando la Louisiana, dopo essersi abbattuto su Cuba due giorni fa. Prima di raggiungere la costa meridionale degli Stati Uniti, l’uragano si è rafforzato raggiungendo la “categoria 4”, con fortissime piogge e venti fino a 250 chilometri all’ora, probabilmente anche a causa delle temperature del Golfo del Messico in aumento. Ida ha toccato terra alle 11 di domenica 29 agosto (ora locale) a Port Fourchon, il porto più a sud della Louisiana e la principale base logistica per le oltre seicento piattaforme petrolifere attive nel Golfo del Messico. Secondo il governatore John Bel Edwards, l’uragano si muoverà attraverso “il peggior percorso possibile”, ossia andrà verso nord-ovest colpendo in particolare alcune località lungo il fiume Mississippi dove si concentrano raffinerie, impianti petrolchimici e centrali nucleari, la cosiddetta “Cancer Alley”. Proprio da lì in questo momento stanno arrivando le maggiori richieste di aiuto da parte di persone intrappolate nelle case dall’acqua, che non possono essere raggiunte dai soccorsi a causa dei venti ancora troppo intensi.
New Orleans, che si stava preparando a celebrare le vittime dell’uragano Katrina nel sedicesimo anniversario del disastro (29 agosto 2005), non è stata colpita direttamente dall’uragano Ida, ma al momento si trova senza elettricità e con la prospettiva di possibili inondazioni nei prossimi giorni. Per una piccola parte degli abitanti della città, ossia per chi abita al di fuori del sistema di argini che dovrebbe proteggere New Orleans, è scattato l’obbligo di evacuazione tra venerdì e sabato. La sindaca di New Orleans, La Toya Cantrell, ha dichiarato che non ci sarebbe stato abbastanza tempo per allontanare tutti dalla città, anche se lo ha suggerito a chi ne avesse la possibilità. Molti sono rimasti nelle proprie case, cercando di garantirsi scorte di cibo, sacchi di sabbia e generatori. I numerosi senzatetto della città sono stati in minima parte trasferiti in rifugi temporanei organizzati dal comune, mentre molti cittadini hanno aperto le proprie case e condiviso le proprie scorte di cibo con loro.
Secondo il governatore Edwards, Ida “sarà il test più difficile” per gli argini rafforzati in seguito all’uragano Katrina. Ha anche ricordato che gli abitanti di New Orleans e della Louisiana sono “resilienti e forti”. A poche ore dal momento in cui l’uragano Ida ha toccato terra, il presidente Biden ha dichiarato lo stato d’emergenza per l’intera Louisiana.
Nel novembre 2020, abbiamo pubblicato all’interno del numero 5 de Lo stato delle città l’articolo Come querce negli uragani. “Disastri e resistenza” a New Orleans e dintorni, scritto da Gloria Pessina. Lo riproponiamo a seguire.
* * *
Era l’inizio di novembre dell’anno scorso. Prima della pandemia, delle sollevazioni di Black Lives Matter, delle elezioni americane. Al risveglio, respirai un’aria umida e calda, da clima tropicale. Mi muovevo lentamente, forse per la lunghezza del volo, forse per quell’atmosfera impregnata d’acqua, forse perché ero sola in una casa ai margini di una città di cui non riuscivo a capire dove fosse, e se ci fosse, un centro. “Forse” (maybe) l’avrei sentito ripetere più volte dalle persone incontrate nei dieci giorni trascorsi a New Orleans, dove mi sembrò che non si potesse che convivere con l’incertezza in quel luogo dove persino il confine che separa l’acqua dalla terra è vago.
Vicino a casa c’era una fermata dell’autobus. Era diretto verso sud, dove forse la città si sarebbe affacciata sul Mississippi. Passai più di mezz’ora sul bus, lungo un enorme rettilineo – Elysian Fields – per poi scoprire che sarebbe terminato contro una stazione elettrica e un muro di cemento. Nessun contatto con il Mississippi. Seguii il muro finché trovai una fila di container sulla sinistra, un orizzonte di grattacieli davanti a me e un viale alberato, sulla destra. Furono gli alberi a incuriosirmi. Erano enormi querce ricoperte di felci e altre piante che avevano trovato ospitalità su quella superficie rugosa. Living Oak Tree diceva un cartello vicino a uno di questi alberi. Sembravano vivi, con quei rami ritorti che arrivavano fino a terra o si intrecciavano in aria. Erano tra le piante più resistenti, le uniche rimaste ancorate al terreno anche nei peggiori uragani. Oltre che dalle querce, la lunga striscia di terra battuta al centro di Esplanade Avenue era occupata da una selva di oleandri, cycas, nespoli e un tappeto di piante dalle foglie larghe di cui non conoscevo il nome. Mi muovevo come in preda a un sogno nella luce che filtrava a fatica tra la vegetazione.
Un rumore mi risvegliò all’improvviso. Sembrava uno scalpitio di zoccoli. Erano due cavalli dal manto marrone, lanciati al galoppo da uomini con vestiti di un’altra epoca. Gridavano freedom or death, libertà o morte. A pochi centimetri da me urlarono to Congo Square! per poi sparire dietro a un edificio. Una ragazza alle mie spalle scoppiò a ridere: «Ma non lo sai che oggi c’è il reenactment?». Mi spiegò che era in corso la rievocazione storica della rivolta degli schiavi del 1811. Si sarebbe conclusa a Congo Square, la piazza dove in passato gli schiavi si ritrovavano la domenica per una giornata di libertà. Mi diressi lì, attraversando le strette vie del French Quarter, il quartiere dei colonizzatori francesi, diventato meta per turisti in cerca di “vere” emozioni del Sud. Le case di uno o due piani con balconi sorretti da magre colonne nere, le band di ottoni, il museo voodoo, le maschere del Mardì Gras (il carnevale), gli spiedini di alligatore, eccetera.
HENRY
Congo Square, più che una piazza, mi apparve come un angolo alberato all’interno del Louis Armstrong Park. Al mio arrivo, verso il tramonto, stava finendo un concerto e ovunque c’erano attori del reenactment che si riposavano. Ero arrivata tardi. Qualche parola con gli attori, una birra e mi incamminai verso casa. Lungo la strada sfrecciavano le macchine dei tifosi dei Saints, che si stavano aggiudicando una vittoria. L’unica persona a piedi era un uomo vestito con gli abiti della rappresentazione, che trascinava i passi.
Camminammo fianco a fianco per qualche minuto, finché gli chiesi se stessi andando bene per Elysian Fields. Mi disse di sì, «but it’s four blocks, maybe six». A New Orleans sei isolati possono significare una camminata di un’ora, ma stava andando da quella parte anche lui. Ci mettemmo a parlare, avrà avuto sessant’anni, forse settanta e la pelle molto scura. Intorno a noi era calata la sera. Gli dissi che ero stata a Congo Square, ma mi ero persa il reenactment. «Oh, c’è stata un’energia! Una grande energia!». I suoi occhi iniziarono a sprigionare quella luce che si vede quando si soffia su una brace. Da una mano gli pendeva un sacco a pelo rosso, nell’altra teneva una borsa di tela bianca, che provava a caricarsi su una spalla, ma sembrava pesante. Aveva una fascia di cotone ormai annerito sulla fronte e dei vestiti chiari, un po’ strappati.
Iniziò a raccontarmi che faceva la comparsa per il cinema e non ne sapeva niente della rivolta del 1811. Un paio di settimane prima, dal barbiere, un amico gli aveva raccontato della rievocazione. Gli disse che il regista cercava gente, e che avrebbe pagato. Così si unì anche lui. Avevano camminato per due giorni di fila lungo il Mississippi fino a New Orleans, ripercorrendo le ventisei miglia battute da qualche centinaio di schiavi neri più di duecento anni prima. Mentre la sollevazione degli schiavi partiti da La Place era stata stroncata da milizie di bianchi alle porte di New Orleans, la rievocazione era proseguita fino al cuore della città, proponendo un finale alternativo. Attraversando a piedi e a cavallo le ex piantagioni, gli attori compresero cosa volesse dire per i loro antenati provare a scappare da quella terra paludosa attraversata dal Mississippi: impossibile. In un modo o nell’altro sarebbero sempre stati visti, scovati, presi e torturati. Camminavano e si immedesimavano, freedom or death, e altra gente si univa. Dove un tempo c’erano le piantagioni, oggi ci sono campi di soia, fabbriche petrolchimiche, industrie farmaceutiche e discariche di rifiuti radioattivi. Chi vive lì è incazzato, molto. Freedom or death. Si infervorò, mentre io non riuscivo a staccare lo sguardo dai suoi occhi in fiamme. Al momento di salutarci, a un semaforo, mi disse che si chiamava Henry, mi fissò per qualche istante e poi sussurrò: «Stay safe in New Orleans». Non ebbi il tempo di dirgli che sarei stata attenta, che mi stava già urlando «bus!». Si mise a camminare in mezzo all’incrocio con quel suo passo lento, trascinato, facendo penzolare il sacco a pelo da una parte e la borsa dall’altra. Le macchine e i tir rallentarono davanti a quella strana figura notturna e io saltai sull’autobus.
BETH
Un’amica aveva insistito perché, prima di iniziare il corso sulla giustizia ambientale per cui ero volata a New Orleans, parlassi con Beth Butler, la persona di cui si fidava di più su questi temi. Dell’università blasonata dove avrei svolto il corso, la mia amica aveva meno fiducia.
Avevo appuntamento con Beth nella sede della sua organizzazione, A Community Voice. Si trovava a poche centinaia di metri da dove avevo salutato Henry la sera prima, tra gli Elysian Fields e St. Claude Avenue. Case in legno di un piano, massimo due, rialzate di un metro da terra su blocchi di cemento grigio. Tra una e l’altra, ampi spazi vuoti recintati, spesso abbandonati, e una selva di fili elettrici, sostenuti qua e là da pali di legno.
A Community Voice si trovava all’interno di uno di questi edifici. Entrai e vidi Beth: una donna bianca di una sessantina d’anni, capelli corti, occhiali, sguardo abbassato sul cellulare, abiti scuri. Si muoveva di scatto, tra una telefonata e l’altra. La aspettai nella stanza in cui si riunivano i sindacati di base locali e da cui veniva trasmesso un programma radiofonico.
Per prima cosa volle sapere cos’avrei fatto alla Tulane University. Le dissi che avrei partecipato a seminari e visite “sull’Antropocene”. Storse il naso, «che significa?». Le risposi che saremmo andati a visitare alcuni posti a New Orleans e dintorni dove le azioni umane hanno avuto esiti estremi sul clima, la terra, le acque, l’aria e chi abita questi luoghi.
Si accese una sigaretta e cominciò: «Devi capire che qui siamo in una palude. Quasi tutta New Orleans sta sotto il livello del mare. Alcune parti sono più alte, ma di poco, però questo piccolo dislivello è bastato a salvarle da Katrina, quando il resto della città è stato sommerso».
Ripensai al percorso fatto poco prima, lungo Elysian Fields. A un certo punto avevo notato che la strada scendeva molto, per attraversare un quartiere di casette in legno dai colori brillanti. Poco oltre, vidi un canale di scolo di fianco a una ferrovia e ripensai al paesaggio ritratto da Minervini in Che fare quando il mondo è in fiamme.
«Quel quartiere che hai attraversato, Gentilly, sorge in uno dei punti più bassi della città, quattro o cinque metri sotto al livello del mare. È abitato solo da neri, o meglio, dopo Katrina, un po’ di case sono state ricostruite e acquistate da superproprietari che le affittano su Airbnb a turisti, quasi tutti bianchi. Durante Katrina, Gentilly è stata ricoperta d’acqua per settimane intere e poi è rimasto il fango, un fango nero che sembrava fosse entrato nelle ossa di chi era sopravvissuto».
Beth proseguì raccontandomi che dopo il disastro del 2005, aggravato dalla rottura degli argini che contenevano le molte acque della città, il sistema di protezione era stato rafforzato, «ma invano, perché la terra su cui poggia New Orleans sta sprofondando e gli uragani sono sempre più frequenti».
Poi si mise a parlare del Lower Ninth Ward, un quartiere più a est, al di là del “Canale Industriale” che collega il Lago Pontchartrain al Mississippi. Il quartiere fu tra i più colpiti da Katrina. Gli argini del canale avevano ceduto e l’avevano sommerso. I climatologi, in seguito, appurarono che quel canale creato per velocizzare i trasporti di merci su nave era stato un acceleratore per l’uragano, tanto da ribattezzare l’opera come “Hurricane Superhighway”.
Mi mostrò alcune foto che ritraevano varie case del Lower Ninth Ward nei mesi che seguirono il passaggio di Katrina. Davanti alle case danneggiate – alcune di più, altre molto meno – campeggiava un cartello rosso che riportava la scritta “Save our neighbourhood. NO BULLDOZING”. Più in basso, c’era il numero di telefono di ACORN, l’organizzazione che si batté fino all’ultimo contro le demolizioni di queste case per la quasi totalità di proprietà di cittadini neri di reddito medio-basso. Mi disse che il quartiere era stato minacciato da un’operazione di “pulizia etnica” e di speculazione, in parte riuscita. Gli abitanti erano stati allontanati nelle settimane dell’emergenza e secondo il piano per la ricostruzione “resiliente” di New Orleans, il Lower Ninth Ward, classificato come “area a rischio idraulico”, avrebbe dovuto essere trasformato in un parco, destinando solo parte della superficie alla costruzione di nuove case, di cui gli storici abitanti non sembrava avrebbero beneficiato.
«Attaccare quel cartello all’ingresso di ogni singola casa minacciata di demolizione – mi spiegò Beth – fu un’azione politica. Significava che quella casa sarebbe stata ricostruita e che le élite che volevano impossessarsi del quartiere e cacciare gli abitanti avrebbero incontrato resistenza. Era un segnale anche per i vicini: avrebbero visto che non sarebbero stati soli. Voleva dire che c’era una lotta in corso e che ACORN era un gruppo a cui unirsi per il ritorno degli abitanti». Le chiesi che fine avesse fatto ACORN: era stata sciolta in seguito a un accanimento contro i suoi leader quando il movimento anti-demolizioni aveva assunto dimensioni importanti. Da lì, nel 2009, era nata l’organizzazione diretta da Beth.
Avevamo entrambe voglia di prendere un po’ d’aria. Ci incamminammo lungo St. Claude Avenue e Beth mi disse che, dopo l’emergenza, l’attenzione sugli effetti di Katrina era scesa, ma questi si erano aggravati nel tempo: «Le fogne hanno smesso di funzionare in modo decente, l’elettricità salta ogni volta che c’è un po’ di vento, la sanità è al collasso e la scuola peggio. Si è scoperto che c’è il piombo nelle tubature dell’acqua. Il piombo, capisci?». Nonostante il racconto del disastro, era rilassata. A ogni angolo, si fermava a parlare con qualcuno, con discorsi pieni di maybe, di risate, di rabbia e di affetto.
«Se arriverà un altro uragano come Katrina non ci sarà molto da fare. Forse ci sommergerà per sempre. Forse lo stiamo aspettando. Nel frattempo, continuiamo a lottare contro le ingiustizie. New Orleans, nonostante tutto, rimane il posto migliore degli Stati Uniti. Forse perché è una mescolanza di Caraibi, Europa e Africa. Se dobbiamo essere sommersi va bene, ma lasciatecela godere fino all’ultimo». Si accese una sigaretta, mi sorrise e mi indicò la fermata del bus.
SHANA
Eravamo una ventina di persone da varie parti del mondo, con formazioni diverse: chimici, geologi, geografi, urbanisti, medici, botanici, antropologi, storici, giornalisti. Una strana composizione, da cui nacquero confronti interessanti. Uno dei primi incontri del nostro corso fu con Shana M. Griffin, “attivista femminista nera, ricercatrice indipendente, artista e madre”, come lessi dalla biografia in fondo al libretto sul black displacement che aveva curato e ci aveva consegnato a inizio mattina.
Ci trovammo nel punto in cui, a partire dal 1719, attraccarono le navi cariche di schiavi. Per la prima volta, vidi la distesa d’acqua grigia del Mississippi. Il fiume era solcato da imbarcazioni storiche per turisti, chiatte cariche di merci sfuse, petroliere e grosse navi da crociera dirette ai Caraibi. Al primo impatto, mi sembrò un’altra arteria trafficata della città.
Shana ci raccontò che gli schiavi, provenienti soprattutto da Senegal e Gambia, vennero venduti per quasi un secolo lungo le strade, nelle chiese, nei sotterranei del French Quarter, all’ombra delle querce di Esplanade Avenue per andare ad affollare trecento piantagioni lungo il Mississippi, a New Orleans e dintorni.
Dal fiume raggiungemmo la statua del fondatore della Nouvelle Orléans, il funzionario francese Jean-Baptiste Le Moine de Bienville che nel 1718 ordinò la costruzione della città in quel punto strategico per il controllo del Mississippi, sebbene paludoso. La nuova città avrebbe seguito una griglia regolare, imposta sul sito che gli indiani Choctaw chiamavano “Bulbancha”, ossia “molte lingue sono parlate qui”. Shana ci fece soffermare sulla statua di Bienville: «Cosa vedete?». Rispose Sunshine, giamaicana specializzanda in medicina tropicale e salute internazionale: «Un vecchio bianco in piedi, impettito come un pollo. Un prete tranquillo. Un indiano sconfitto che stringe al petto il niente che gli è rimasto». Shana ci incalzò: «E i neri?». Nessuna traccia degli schiavi che avevano costruito la città e si erano spezzati la schiena nelle piantagioni.
Camminammo attraverso il quartiere francese fino a Congo Square. Shana ci raccontò che lì gli schiavi nel giorno di libertà facevano festa e celebravano riti religiosi voodoo sotto alle grandi querce. A pochi metri da lì, un grande pannello in bronzo ritraeva una scena corale. Al centro, una donna scalza muoveva un drappo mentre danzava. Teneva per mano un uomo che le sorrideva, mentre gli altri osservavano, suonando, ballando e ridendo. Alla base del pannello, sotto ai piedi degli schiavi, una catena e una corda.
Entrammo a Iberville, parte del quartiere di Tremé. Avevamo di fronte una serie di edifici in mattoni di due piani, in buono stato, ma resi inaccessibili da una recinzione e da cumuli di macerie. Porte e finestre erano sbarrate da assi di legno. Era una parte del complesso di case popolari dei Lafitte Projects, quasi novecento unità abitative costruite negli anni Quaranta per famiglie nere povere. In seguito a Katrina, vennero svuotati, in parte demoliti e recintati, nonostante l’uragano non li avesse danneggiati. Shana ci lesse una frase che Richard H. Baker, politico locale repubblicano, pronunciò a settembre 2005, neanche un mese dopo il disastro: «Finalmente, abbiamo ripulito le case popolari a New Orleans. Noi non potevamo farlo, ma Dio sì». In seguito a Katrina, New Orleans perse centomila neri su cinquecentomila abitanti totali. Alcuni morirono, ma la maggior parte venne “ricollocata” in altre città della Louisiana o in altri stati.
Tornando verso Congo Square, Shana proseguì: «Il black displacement è una forma di cancellazione, un processo che dura da tre secoli a New Orleans e che ha raggiunto l’apice con Katrina». Un altro esempio ce l’avevamo davanti agli occhi: il Louis Armstrong Park. La sua creazione, all’inizio degli anni Ottanta, era stata preceduta dalla distruzione di interi isolati di Tremé, il primo quartiere di “free men and women of color” degli Stati Uniti. Negli anni, il quartiere con la comunità di commercianti e artisti afroamericani più prospera del Nord America assunse la fama di covo della malavita. Shana insistette: «Mentre cresceva questa fama, il quartiere venne violato da una serie di progetti invasivi. Il più traumatico fu la sostituzione del viale alberato al centro del quartiere con un’autostrada sopraelevata».
Negli ultimi anni le iniziative per indagare gli effetti del black displacement erano cresciute, alcune statue dell’epoca coloniale erano state rimosse, mentre gruppi di lotta per la casa come Jane Place Initiative avevano continuato a denunciare politiche abitative discriminatorie, offrendo alloggi a basso costo per donne nere in difficoltà. Sotto ai piloni dell’autostrada sopraelevata, dove un tempo sfilava la parata travolgente del Mardì Gras, era nata una città di senzatetto.
WILMA, GAIL E LE ALTRE
Quando partimmo da New Orleans c’era un cielo carico di nuvole scure. Eravamo diretti, verso una delle aree più inquinate della zona, la Cancer Alley, a bordo di un pullman a gasolio, ennesima contraddizione di un corso sulla giustizia ambientale raggiunto con un volo intercontinentale. Percorremmo verso nord un tratto della Route 61, la strada che segue il corso del Mississippi da New Orleans al Minnesota, detta anche Great River Road.
Ci fermammo dopo circa mezz’ora nel parcheggio di un hotel, si aprirono le porte del pullman e salì una donna esile, dal volto smunto e i capelli biondi, raccolti. Era Wilma Subra, la chimica che da decenni raccoglieva dati, in collaborazione con gli abitanti, sulla qualità dell’aria e delle acque lungo quel tratto di Mississippi dove la presenza di tumori eccedeva la media di qualsiasi altro territorio sul suolo americano. Da anni, Wilma contribuiva alle lotte locali smentendo i dati ufficiali delle grandi imprese inquinanti e dell’EPA, l’agenzia di stato preposta alla protezione ambientale.
Non prestò molta attenzione quando un docente del corso sottolineò che era stata vincitrice della prestigiosa MacArthur Fellowship. Solo in seguito avremmo scoperto che l’udito l’aveva abbandonata e che non amava le lusinghe. Mentre un paesaggio apocalittico scorreva fuori dai nostri finestrini, Wilma iniziò: «Nella Cancer Alley oggi ci sono settantatré impianti industriali inquinanti. La maggior parte della produzione si fonda su petrolio, prodotti chimici e farmaceutici, plastiche, resine, metalli primari e fertilizzanti. Ognuno di questi impianti è responsabile di grosse quantità di sostanze tossiche rilasciate nell’aria, nelle acque del Mississippi e nelle terre contaminate da rifiuti pericolosi». Tra i principali inquinanti, Wilma menzionò arsenico, bario, cadmio, piombo, uranio, radio 226, ammoniaca, benzene, mercurio, propilene e molte altro di cui non riuscii a prendere nota. L’odore di petrolio e della miscela di sostanze chimiche mi annebbiò la testa, mentre fuori dal finestrino vedevo montagne di bauxite, bacini di fanghi rossi, serbatoi per il petrolio, oleodotti, gasdotti, una selva di tubi e infinite ciminiere che riversavano nuvole di fumo bianco in cielo.
All’improvviso uscì il sole e ci fermammo davanti a un’ampia villa azzurra della metà del Settecento, tra un alto argine del fiume, un oleodotto e una raffineria. Era stata una plantation house, la residenza di una famiglia di proprietari di una grande piantagione sul Mississippi. Scendemmo dal pullman e Wilma ci disse ironica: «Respirate a pieni polmoni, portate a casa un souvenir dalla Cancer Alley!». Provai a trattenere il respiro il più possibile e mi chiesi per quale dannato motivo avessi deciso di partire per quel corso.
Ci spiegò che la struttura delle ex piantagioni di cotone, indaco e zucchero si era rivelata molto appetibile per le grandi industrie petrolchimiche americane che a partire dagli inizi del Novecento avviarono le proprie attività. Mostrandoci una mappa di quel tratto di Mississippi, proseguì: «Vedete, i lotti delle piantagioni avevano questa forma stretta e lunga. Ogni piantagione aveva un affaccio sul fiume, era attraversata verso il fondo da una ferrovia e conteneva una parte di terreno paludoso che è sempre servita a scoraggiare le fughe degli schiavi e a smaltire i rifiuti. Per le grandi industrie petrolchimiche e di fertilizzanti, la struttura di questi terreni era ideale. Acquistarono varie ex-piantagioni e le accorparono per sviluppare gli impianti, qualche casa per gli operai e i quadri, le discariche e così via».
Non riuscivamo a immaginare che qualcuno potesse veramente vivere lì e invece era proprio così. Proseguimmo sulla Route 61 fino a raggiungere St. James, dove ci aspettavano Gail La Boeuf e altre attiviste nere che indossavano una maglietta gialla con la scritta Rise St. James e un pugno nero alzato. Wilma le salutò con affetto e Gail iniziò a parlare: «Benvenuti a St. James, un luogo dove siamo massacrati giorno dopo giorno da impianti inquinanti e io vi voglio raccontare perché siamo in pericolo e cosa facciamo per lottare. La mia trisnonna era una schiava in una piantagione a New Orleans, diventò libera dopo la guerra civile. Ebbe la mia bisnonna che migrò qui, a St. James e ottenne un pezzo di terra per costruire la sua casa. Come lei, tanti altri, tutti sepolti in quel cimitero dove oggi Formosa, una multinazionale che produce plastica e che ha già fatto disastri a Taiwan vuole aprire il suo impianto. L’ennesimo impianto!».
Ci parlò delle marce che avevano organizzato, dei lutti per le morti da tumore di amici e parenti, dei dati raccolti con Wilma che avevano portato in tribunale per far valere le loro ragioni, dei lavoratori specializzati bianchi che negavano che l’inquinamento fosse un problema. Poi di nuovo tornò a parlare di Formosa: «Avrà quattordici unità e creerà solo meno di cento lavori permanenti. Il resto saranno lavori a contratto. Che non ci dicano che quell’impianto ci risolleverà dalla povertà». La legislazione della Louisiana favoriva l’insediamento di grandi industrie inquinanti, attraverso un bassissimo prelievo fiscale sulle corporation. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva alzato le soglie consentite per l’emissione di inquinanti da parte delle industrie, negando in più occasioni il ruolo che queste potessero avere nel peggiorare la crisi climatica.
Gail concluse: «Questa è la condizione in cui viviamo nello stato della Louisiana. Queste sono le leggi decise da grandi corporation, grandi banche, grandi aziende farmaceutiche. Tutta questa gente bisbiglia nelle orecchie dei nostri politici per creare le leggi che ci tolgono il nostro sogno americano. Loro vogliono il loro sogno americano, anche noi vogliamo il nostro. E pretendiamo leggi giuste per raggiungerlo!».
Risalimmo sul pullman quando ormai stava calando la sera e ripartimmo per percorrere a ritroso la Great River Road. Un chimico indiano che partecipava al nostro corso provò a parlarmi, ma mi addormentai e mi risvegliai a New Orleans.
IL DECOLLO
Erano stati dieci giorni molto intensi, avrei voluto avere a disposizione qualche mese per poter restare lì, sostare in quei luoghi che avevo solo attraversato, parlare più a lungo con le persone incontrate. Il volo per Milano mi aspettava.
Raggiunsi con un taxi l’aeroporto appena inaugurato, perché non esisteva nessun mezzo pubblico per arrivarci. Il tassista tentò varie vie, spiegandomi che al «new billion dollar plus airport» mancava ancora la connessione autostradale. La struttura costata vari miliardi aveva l’aspetto di un grosso centro commerciale popolato da una miriade di bar e ristoranti che riproponevano in versione da viaggio le prelibatezze della cucina della Louisiana.
Al momento di salire sull’aereo, tirai fuori dallo zaino due libri che avevo portato con me, ma che non ero nemmeno riuscita a sfogliare in quei giorni. Erano un fumetto di Seth Tobocman tradotto anche in italiano con il titolo Disastri e resistenza e un classico di Mario Maffi intitolato Mississippi. Mi accomodai vicino al finestrino e mi preparai al decollo.
Appena ci alzammo da terra iniziai a vedere quell’intreccio confuso di acqua e di terra che avevo attraversato nei giorni precedenti. Riconobbi alcuni quartieri di New Orleans e quella terra sommersa ogni anno di più dal mare dove incontrammo gli ultimi indiani Biloxi assediati dalle compagnie che estraggono gas e petrolio, principali responsabili della subsidenza del terreno dove gli indiani vivono su palafitte. Non sono riuscita a raccontare anche di quell’incontro, ma le pagine di Disastri e resistenza ritraggono la loro vicenda in modo fedele.
Dal finestrino, riconobbi il Lago Pontchartrain, gli innumerevoli bayou, il corso principale del Mississippi e il Golfo del Messico. Solo a quel punto aprii il libro di Maffi e lessi: “Perché New Orleans non è solo ‘la città dove (ormai) finisce il fiume’: è anche ‘la città dove (ormai) inizia il mare’. Lì convergono le acque dolci d’America, ma anche quelle salate dei Caraibi e del mondo: e così, in quella mescolanza di dentro e di fuori, America e mondo, la città è fine e inizio, via d’uscita e via d’ingresso – è una soglia, un crocevia”.
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