Le frequenti tensioni tra rappresentanti del governo Meloni e alcune importanti aree della magistratura danno misura della fase di riassestamento dei rapporti tra potere politico e giudiziario nel nostro paese. Il 2023 è stato l’anno delle riforme mai arrivate e, nell’attesa, del tutti contro tutti. Gratteri e i magistrati di destra contro Cartabia (sulla riforma del 2022), Melillo e quelli di sinistra contro Nordio e Meloni (su intercettazioni ed eliminazione dell’abuso d’ufficio), e poi persino Meloni contro il suo ministro Nordio e Nordio contro il suo sottosegretario Del Mastro.
Sui capisaldi del cosiddetto “populismo penale”, tuttavia, governo e magistratura non hanno intenzione di arrivare allo scontro, come evidenziano le dichiarazioni della premier durante una recente visita al procuratore nazionale antimafia. Se il primo tema è sicuramente l’antimafia, il secondo con altrettanta certezza il carcere. Non è un caso che la riforma penitenziaria del 2018, già di per sé inconsistente, sia rimasta per lo più inapplicata, mentre a dispetto degli annunci su potenziali grandi innovazioni legislative, quello che prolifera sono circolari e provvedimenti di ulteriore securizzazione dell’universo penitenziario.
Qualche mese prima della visita di Meloni alla procura antimafia, la trasmissione di RaiTre Report aveva mandato in onda due puntate che, partendo dall’analisi di singoli casi (il “caso Cospito” da un lato, e l’operato di alcune associazioni per la tutela dei diritti dei detenuti, dall’altro), lanciavano strali giustizialisti su tutte le tematiche per le quali associazioni, gruppi politici di base ed esponenti della società civile cercano di sollevare contraddizioni: il 41bis, l’ergastolo, le pene alternative alla detenzione su tutti. Uno degli attacchi più forti sembrò però quello all’istruzione in carcere, con un grottesco servizio sulla possibilità che la legge fornisce ai detenuti mafiosi di frequentare i poli universitari penitenziari e persino sui voti troppo alti (sic!) che gli vengono attribuiti. Mentre il dibattito si attesta su questi livelli, però, i rapporti tra università e carcere sono in fase di rimodulazione.
L’UNIVERSITÀ IN CARCERE
Le prime relazioni tra queste due istituzioni risalgono agli anni Sessanta, quando alcuni detenuti diplomatisi come geometri nel carcere di Alessandria furono trasferiti a Padova per frequentare il corso di laurea in ingegneria. Sempre a Padova, dopo la riforma del ’75, una ventina di detenuti studenti universitari diedero vita alla “scuola in carcere”, a beneficio dei loro compagni di detenzione, molti dei quali analfabeti.
Nati ufficialmente solo nel 1998, oggi i poli universitari penitenziari attivi in Italia sono diventati quarantatré, e gli studenti e le studentesse detenuti più di mille e quattrocento. Si tratta di dati quantitativi che vengono spesso utilizzati come medaglie al valore dalle università stesse e dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria per attestare la crescita di questa realtà, mentre è difficile reperirne altri, a cominciare dalla percentuale di studenti che una volta fuori dal carcere vengono accompagnato e riescono a trovare un lavoro all’altezza del proprio titolo di studio.
Gli atenei aderenti alla Conferenza nazionale dei delegati per i poli penitenziari (Cnupp) sono intanto quasi raddoppiati in cinque anni; gli studenti universitari detenuti rappresentano il 2,4 per cento dei ristretti, numero vicino a quello del mondo di fuori, dove l’università è frequentata dal tre per cento circa della popolazione. Nel corso degli ultimi dieci anni, inoltre, una serie di percorsi formativi sono stati attivati per aggiornare le competenze dei docenti che si occupano di insegnamento in carcere (sebbene le normative siano ancora carenti e soprattutto piene di espressioni come “ove possibile”, “possono”, che di fatto lasciano alla direzione degli istituti totale discrezionalità rispetto alla messa a disposizione di strutture, attività, strumentazioni finalizzate a garantire il diritto allo studio)¹.
Nel contesto attuale delle carceri italiane, dove qualsiasi diritto – persino i più basilari, come quello a un trattamento dignitoso o alla salute – viene quotidianamente messo in discussione da chi le amministra, il fatto che decine di migliaia di detenuti siano iscritti all’università non può che essere una buona notizia. Tuttavia, la relazione tra carcere e accademia si fa via via più distante dagli interessi di quelli che dovrebbero esserne i beneficiari (gli studenti), mentre l’incremento della presenza dei poli nelle carceri sembra diventare funzionale ad altri obiettivi.
QUALE MISSIONE?
Dalla metà degli anni Novanta, in Italia si è intensificato il dibattito sulla cosiddetta terza missione dell’università, ovvero la missione attraverso cui quest’istituzione promuove pratiche di relazione con attori esterni, nel settore pubblico ma anche nel privato, e in generale con la società nel suo insieme. È abbastanza chiaro, in realtà, che la terza missione è il modo con cui l’università si aggrappa a soggetti esterni, per lo più imprenditoriali, per potersi mantenere in tempi di tagli e vacche magre, collaborando con realtà che esprimono quasi sempre le esigenze del mercato e che devono trovare conveniente finanziare gli atenei, o meglio le conoscenze che da questi gli giungono².
A partire dal 2013 vengono definiti alcuni parametri per la valutazione della terza missione: numero di attività di divulgazione, rapporto tra fatturato conto terzi, progetti di ricerca e numero di docenti, numero di imprese spin-off attivate, numero di attività extra-moenia implementate, ma anche collaborazioni con enti e istituzioni esterne per il coinvolgimento di “utenti non tradizionali”. Dal 2016, con il decreto ministeriale 987, le attività di terza missione diventano un elemento per la valutazione non solo delle sedi universitarie e dei corsi di studio, ma anche dei docenti, utili quindi per le loro carriere, tanto che si lavora per inserirle persino tra i criteri per le abilitazioni scientifiche nazionali accanto alle pubblicazioni, le attività di servizio pertinenti al ruolo, gli anni di insegnamento. «Non può essere un caso – spiegano alcuni docenti interpellati – che da due o tre anni al mondo dell’istruzione penitenziaria si siano avvicinati professori o gruppi di studio che non hanno mai mostrato interesse o sensibilità per questi temi. I vantaggi per chi vi si affaccia sono tanti: dalla legittimazione accademica e di carriera alla visibilità nell’ambito di alcuni settori scientifico-disciplinari, fino alla facilità di accesso a progetti i cui fondi finiscono spesso per non essere utilizzati davvero a favore degli studenti detenuti, ma dei docenti, per esempio attraverso l’acquisto di strumentazioni tecnologiche».
Situazioni ambigue cominciano a verificarsi sempre più di frequente: migranti iscritti all’università che si sono accorti di aver conseguito lauree non valide perché il loro titolo di studio precedente non poteva essere riconosciuto nel nostro paese, detenuti a cui è stato cambiato corso di laurea a propria insaputa nel passaggio da un carcere a un altro, poli in cui tutti i detenuti che rivestivano il ruolo di “tutor alla pari” nei confronti di compagni di detenzione sono stati via via trasferiti³, e così via. Ciò che impensierisce più dei singoli casi, però, è il progressivo avvicinamento e la sovrapposizione, che non di rado avviene, tra due istituzioni che dovrebbero avere obiettivi molto diversi. «I docenti che lavorano in carcere – spiega F.A., docente di diritto in un polo universitario penitenziario – hanno una chiara percezione di come la presenza di personale “neutro”, indipendente dal Dap e dal ministero, non sia, storicamente, troppo gradita all’intera catena di comando, dai direttori al personale di guardia. Il moltiplicarsi di poli penitenziari ha aumentato questa presenza, ma in molti contesti l’ha depotenziata: negli ultimi anni sono nati poli che portano dentro il carcere uno o due docenti, a insegnare ad altrettanti studenti. Questa frammentazione e diluizione dell’ingresso della società dentro il carcere aiuta il carcere a mantenersi chiuso e impenetrabile. Parallelamente c’è una minore spinta, anche da parte delle università, a promuovere la frequentazione dei corsi all’esterno dal carcere, nelle sedi universitarie, utilizzando permessi per motivi di studio. Il rischio è che l’università trovi via via più interesse ad accettare il mondo carcere così com’è, fino a farsi del tutto “assorbire” da quest’ultimo, con risultati che sarebbero disastrosi».
In termini di efficacia dell’intervento, il lavoro della Cnupp – nata nel 2018 – non sembra aver avuto finora particolari effetti, né l’esperienza dei docenti più sensibili e attenti sembra essere stata valorizzata per elaborare una critica al funzionamento e, perché no, all’esistenza del carcere. La creazione di figure professionali (per esempio gli impiegati amministrativi) capaci di relazionarsi adeguatamente col Dap, l’omogenizzazione delle possibilità di praticare percorsi efficaci (senza differenze tra un carcere e l’altro), la creazione di reali progetti di inserimento lavorativo per chi esce dal carcere, l’eliminazione di qualsiasi logica premiale nell’accesso al diritto allo studio, l’eliminazione degli impedimenti per i detenuti in Alta sicurezza e al 41bis, quella delle limitazioni ai trasferimenti per i detenuti che studiano, e soprattutto l’intensificazione dell’uscita dal carcere per frequentare all’esterno i corsi, dovrebbero essere obiettivi basilari per un’istituzione che avrebbe il compito se non di essere conflittuale, quantomeno di provare a far vacillare le più indecenti storture di un’altra, con cui è sempre più in relazione. (riccardo rosa)
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¹ “La possibilità di esercitare il diritto allo studio universitario non è data a tutti coloro che sarebbero nelle condizioni di esercitarlo e avrebbero l’interesse a farlo. Dipende dal carcere nel quale ci si trova, dalla capacità di attivazione presso le amministrazioni e le strutture didattiche universitarie di chi è in contatto con il detenuto interessato, dall’interesse e sensibilità di alcuni docenti. Per questo molte aree (intere regioni) e molti istituti penitenziari non offrono, almeno al momento, questa opportunità. Non essendo questo né un impegno normativamente regolato sul versante delle Università, né un vero e proprio diritto esigibile in maniera incondizionata”. F. Prina, I poli universitari penitenziari, in: XV Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, 2019.
² “La debolezza maggiore della Terza missione risiede nella vaghezza con cui si fa riferimento alle ricadute positive sulla società globalmente intesa, alludendo a vantaggi che non siano quelli meramente economici. In ambito italiano (ma il problema è più o meno acuto nei diversi paesi del mondo) basta leggere con attenzione il decreto sulla Terza missione emanato dal Miur nel 2015. Mentre si dettaglia come rilevare entità e forme dei rapporti con le imprese e il mercato in genere, il contributo allo sviluppo sociale è risolto nella ‘organizzazione di attività culturali e formative, gestione di musei e siti archeologici, organizzazione di convegni’”. M.C. Pitrone, Di cosa parliamo quando parliamo di terza missione, in: Studi di sociologia, n. 4, 2016.
³ «La figura del “tutor pari interno” è rappresentata da studenti detenuti, o da detenuti già laureati in uno dei corsi di laurea attivati dall’Università Magna Græcia di Catanzaro, che sostengono e accompagnano nel percorso didattico gli altri studenti detenuti. Lo fanno agevolando l’utilizzo di materiali didattici, svolgendo attività di mediazione con i docenti, fornendo informazioni relative agli insegnamenti (piani di studio, programmi, modalità di svolgimento degli esami, ecc.), promuovendo incontri di chiarimento e approfondimento su tematiche specifiche e portando ai docenti e all’amministrazione penitenziaria suggerimenti per il miglioramento dell’attività didattica. Questo progetto inizialmente sperimentale – che ha visto un lungo periodo di formazione (2017-2019) dei primi tutor detenuti – ha trovato formalizzazione in una delibera del Consiglio del dipartimento di giurisprudenza, economia e sociologia (Delibera DiGES 28/2020). A partire dal febbraio 2021 hanno iniziato a operare formalmente i primi tre “tutor pari interni” presso l’istituto penitenziario di Siano-Catanzaro, a cui se ne sono aggiunti altri due, nominati a fine 2021. Di questi cinque tutor pari interni, uno è stato scarcerato e gli altri quattro sono stati trasferiti in altri istituti nel corso degli ultimi due anni. Attualmente non abbiamo nessun tutor pari interno». Da una testimonianza di C. Barnao, delegato del rettore per il polo penitenziario dell’Università della Magna Græcia di Catanzaro.
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