Perché Milano si presenta alle elezioni con il sindaco uscente, Sala, dato già per vincitore? Come è possibile che il malcontento palpabile nelle periferie trascurate, ma anche le critiche provenienti da quella stessa creative class apparentemente al centro delle attenzioni di questa giunta non siano state prese sul serio da nessuna forza politica, di destra o di sinistra, strutturata o di nuova formazione, e i pochi politici che lo hanno fatto sono stati isolati?
Prima del Covid Milano pullulava di comitati e attivisti in lotta contro le operazioni immobiliari promosse dalla giunta: gli Scali ferroviari trasformati in case di lusso, lo stadio e l’area degli ippodromi di San Siro trasformati in case di lusso, le ex caserme trasformate in case di lusso, il sito dell’Expo, che doveva diventare parco, trasformato nella parodia di un polo scientifico-tecnologico e l’area enorme che lo fronteggia, Cascina Merlata, ora ribattezzata in parte Uptown, incredibilmente trasformata ancora in case di lusso (più qualche alloggio di cosiddetto housing sociale).
Le periferie avevano espresso in occasione delle elezioni europee una esplosiva preferenza per la Lega. Le diseguaglianze si approfondivano così in fretta che il dissenso era emerso aggirando il sistema di censura e propaganda messo in piedi con l’Expo attraverso i media mainstream: analisi ed editoriali critici verso il “modello Milano” cominciavano a comparire non solo su riviste anarcoidi o di altissimo profilo intellettuale, ma anche sul Foglio, o peggio sulla stampa internazionale, con grave danno della reputation e del posizionamento nelle classifiche internazionali della città con la migliore qualità della vita. Quando il Covid è arrivato, l’arroccamento di Sala sull’infelice slogan “Milano non si ferma” e la successiva gestione del lockdown avevano ulteriormente affossato la popolarità della giunta, tanto da mettere in dubbio il rinnovo della candidatura.
Un anno fa, in poche parole, la partita era quasi aperta, un’alternativa (nel bene e nel male) sembrava possibile: poi, appena Sala ha annunciato il suo rinnovato impegno, l’opposizione si è dissolta o piegata.
Le destre, forse anche demotivate dal competere con un politico-manager che serve i loro stessi interessi, si sono perse nelle loro alchimie, approdando a un candidato con la pistola (Luca Bernardo) irricevibile per l’elettorato del centro città e non si sa quanto potabile per le periferie, e i Verdi, che fino al giorno prima denunciavano gli scempi orditi dalla giunta, hanno immediatamente assicurato il loro appoggio al sindaco, supportandolo nel suo campo preferito: il green-washing. Quello che è seguito nel retrobottega di partiti e liste civiche non è materia che possa interessare ad anima viva, mentre è fondamentale capire che è successo a quelle estese reti di oppositori – abitanti in lotta, comitati, attivisti, operatori sociali, studiosi del welfare, dello spazio pubblico, di urbanistica, frequentatori di centri sociali, ecologisti di diverso genere, membri di associazioni, working-poor consapevoli – che per anni si sono battuti per fare emergere il dissenso, in una città che l’ha violentemente censurato attraverso il dogma dell’ottimismo a tutti i costi.
Che fine hanno fatto tutti quei guastafeste, tutti quelli che hanno vinto la ripugnanza a farsi chiamare gufi, pazzi, intolleranti, tuttologi, estremisti, lagnosi, paladini del no, benaltristi, vetero, conservatori, populisti, Nimby – per citare solo gli epiteti più sobri?
Una parte è semplicemente disinteressata alla questione elettorale, e ok. Ma un grandissimo numero di loro ha capitolato, in due modi diversi e complementari: o congelando ogni vis polemica, per cercare di trovare un posto nei nuovi equilibri del circuito del probabile vincitore Sala o per timore di esserne espulsi, oppure – peggio – trasformando la critica in “consigli per migliorare”. Si sa che nessuno è perfetto, e il candidato che aspira a un secondo mandato non chiede di meglio che neutralizzare gli oppositori promettendo di coinvolgerli per fare tutto ciò che non è stato fatto.
Mentre Fridays For Future Milano ed Extinction Rebellion Milano hanno istantaneamente sospeso ogni riferimento a questioni di portata men che globale, il 3 febbraio 2021 Luca Beltrami Gadola su Arcipelago Milano, una delle riviste più attive nella denuncia delle malefatte soprattutto urbanistiche della giunta, lasciava i suoi lettori sgomenti: “Votatelo perché la speranza è l’ultima a morire: la speranza che nella prossima consigliatura la musica di Sala cambi registro”.
Dopo di lui, moltissimi hanno cominciato a proporsi come coach del sindaco, a sottoporgli con parole un po’ dure e un po’ suadenti programmi più o meno di sinistra sui poveri e le periferie, segnalandogli le “occasioni mancate”, quasi che le sue scelte politiche fossero il risultato più che altro di una distrazione, di una forma di pigrizia, di una mancanza di impegno, e non una deliberata presa di posizione a favore degli interessi immobiliari e della finanza a impatto sociale, in ultima analisi di una crescita basata sulla concentrazione della ricchezza.
Certo, alcuni dei loro nomi sono finiti nelle tante liste civiche che appoggiano Sala: non c’è bisogno di scomodare Gramsci per ribadire che gli intellettuali – nel senso più ampio del termine – si fanno cooptare dal potere, da sempre e ovunque. Ma questa resa milanese è un fenomeno profondo, con dei tratti peculiari, che oltrepassano la dimensione del trasformismo.
Il meccanismo di censura e propaganda costruito durante Expo 2015, e da allora mantenuto in vita e anzi potenziato, ha mostrato alla politica che anche in un regime formalmente democratico con un po’ di soldi era possibile trasformare un palese fallimento in un successo, semplicemente affermando il falso. Dopo la crisi dell’editoria comprare i media, tacitare ogni possibilità di smentita era diventato più semplice che ai tempi dell’olio di ricino: non serviva più neppure la violenza fisica, i cani da guardia dell’ottimismo agivano direttamente sui social bullizzando i pochi articoli o commenti dei riottosi. Se si era riusciti a far passare per sostenibile una fiera sul cibo sponsorizzata da Coca Cola e McDonald’s, promuovere la forestazione urbana a suon di grattacieli, risolvere il lavoro povero con l’innovazione delle start up, occuparsi del disagio abitativo realizzando case e uffici di lusso diventava un gioco da ragazzi. Nel paradiso del win-win gli opposti coincidono, i conflitti spariscono: centro e periferia non esistono, ci sono i “quartieri”, ognuno con la sua identità; pubblico e privato collaborano felicemente come il lupo e l’agnello sulla sponda di fiumi di latte e miele, e il capitalismo e il socialismo – come ha teorizzato lo stesso Beppe Sala in Società: per azioni (Einaudi 2020) – si sovrappongono.
È in questo universo discorsivo che le diseguaglianze patenti della città possono essere descritte come un “processo di sviluppo a due velocità”: una più lenta dell’altra, ma sempre in crescita, non una piccola parte che estrae e accumula e l’altra grande che si consuma. È qui che le feroci politiche di marginalizzazione sono lette come una piccola inefficienza da mettere a posto, e sempre qui che le poche argomentazioni critiche vengono strumentalizzate e riproposte come “stimoli a fare, e fare meglio”.
È quello che è successo, per esempio, a Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini, autori di L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città, appena pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli. Il libro denuncia esplicitamente, seppure con un linguaggio molto controllato, non solo le dinamiche di espulsione derivanti dalla polarizzazione della ricchezza, “dall’alleanza implicita tra gli interessi immobiliari della maggioranza dei piccoli proprietari e i grandi player del mercato immobiliare” e dalla “intersezione tra le politiche dello sviluppo urbanistico e le politiche di welfare”, ma anche l’oscuramento di queste dinamiche e delle loro cause prodotto dall’ossessiva narrazione pubblica, che ha imposto un vero e proprio tabù sul tema della rendita. Una marea di dati e informazioni rafforza le critiche mosse al modello Milano, anche se disseminate tra pagine dedicate ad alcuni casi più o meno riusciti di associazionismo e progetti di welfare “dal basso”.
Mentre presentavano il libro nell’associazione-ristorante Rob de Matt, icona di questo tipo di operazioni, Lareno e Ranzini raccontavano l’urgenza di parlare, di infrangere il tabù e mostrare a tutti l’“elefante nella stanza”. «Il testo mi bruciava nelle mani – diceva Jacopo – anche perché mi sono reso conto che tutti gli sforzi degli abitanti per cambiare il destino di un quartiere, per costruire uno spazio e delle relazioni migliori, spesso apparecchiano la tavola per qualcun altro, che li costringe ad andare via». Una gentrification di inusitata violenza si è abbattuta infatti come un ciclone su NoLo, l’Isola, Paolo Sarpi, e si prepara a calare su Dergano, Ortica, Corvetto, spesso proprio grazie a quei processi di rigenerazione urbana innescati dalla partecipazione e dall’attivismo. Un dilemma che comincia a erodere la sicurezza di chi pensa di fare bene, di contribuire a migliorare spazi e territori, e si domanda per chi lo sta facendo.
Il giorno dopo la prima presentazione, a due settimane dalle elezioni, è partita una campagna di promozione dello stesso libro da parte dell’editore, curiosamente in assenza degli autori. In mano alla Fondazione Feltrinelli, L’ultima Milano è diventato allo stesso tempo un’apologia delle gloriose iniziative della prima giunta Sala e un programma dei miglioramenti che avranno luogo nella seconda. Eppure non c’è stato scandalo, almeno finora, né da parte degli autori né dei lettori. Perché a Milano, la città del Modello, la critica e il consenso convergono. E guai a infrangere questa legge. (lucia tozzi)
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