In un affollato incontro pubblico è stato presentato al Museo Madre di Napoli il volume Atlante dell’arte contemporanea a Napoli e in Campania 1966-2016 (Madre, Electa), a cura di Vincenzo Trione. La pubblicazione nasce dal lavoro del dipartimento di ricerca del Madre, coordinato dallo stesso Trione e costituito da Olga Scotto di Vettimo e Alessandra Troncone (con la collaborazione di Loredana Troise).
Alla base di questa preziosa e non semplice ricostruzione – una scheda per ciascun artista e dettagliate informazioni su gallerie private, mostre, associazioni, eventi pubblici dell’arte – sottotraccia si scorgono naturalmente precisi orientamenti teorici, sia nella selezione degli artisti, che nella valutazione del materiale documentario. Ed è proprio partendo da questa constatazione che, pur nel rispetto della complessità del lavoro, va subito detto che talvolta saltano agli occhi vuoti, squilibri nelle informazioni, lacune che si spera possano essere successivamente colmate, dal momento che, come è stato sottolineato dai curatori, l’Atlante è solo l’inizio di un lavoro “in progress”.
È bene, in ogni caso, prestare molta attenzione ai contributi critici presenti in catalogo, anche per riflettere sui limiti di diversa natura che non hanno consentito – o hanno solo parzialmente consentito – all’arte e agli artisti campani di inserirsi in un più ampio contesto nazionale ed europeo. Trione, a proposito di questi storici ritardi dell’arte napoletana, avanza delle ipotesi, affermando tra l’altro che per sopperire al vuoto istituzionale, all’assenza di una seria industria culturale e di un solido mercato, si impose negli anni Sessanta l’azione di rinnovamento di galleristi come Lucio Amelio, Lia Rumma, Peppe Morra, Dina Carola, Pasquale Trisorio e altri.
Il periodo preso in esame dal volume interessa un arco temporale di profondi mutamenti, che incrociarono un sistema pluridirezionale dell’arte in Campania che si estendeva come in un movimento circolare dal teatro alla pittura, dal cinema alla musica, dalla fotografia alla poesia visiva. In particolare, a teatro si sperimentarono linguaggi non convenzionali fortemente contaminati dalla ricerca delle neoavanguardie: il Centro Teatro Esse, con la guida di Gennaro Vitiello, e l’esperienza di Leo De Berardinis e Perla Peragallo con il Teatro di Marigliano, in dialogo con una comunità di artisti nolani, rappresentarono i momenti più radicali di quella tendenza a interagire con altre espressioni creative e a intervenire nel sociale.
Un momento di rottura in quegli anni a Napoli si ebbe pure con l’irruzione del movimento femminista, che contribuì radicalmente – come in parte è testimoniato dalle artiste presenti nell’Atlante – a decolonizzare il nostro immaginario; peccato solo che non vi sia qui un cenno a Malina (Lina Mangiacapre), artista e performer d’avanguardia di assoluto spessore internazionale.
Negli anni Sessanta-Settanta si affermarono personalità come lo scultore Augusto Perez ed esperienze come il Gruppo 58, che in un’attenta ricerca sul linguaggio e nel rifiuto etico dei dogmi della società borghese, già nel decennio precedente contribuì a sprovincializzare l’arte a Napoli e a inserirla in un più vasto orizzonte europeo.
Nel tentare una cartografia dell’arte campana, tuttavia, sembra difficile prescindere da un dato più generale (e d’indubbia originalità) che ha distinto la realtà napoletana; vale a dire, da un lato, il costante rapporto dialettico locale-globale, che ritroveremo nella maggior parte delle poetiche legate alle avanguardie, dall’altro le diffuse esperienze dal basso, partecipative e comunitarie. E se in questo importante volume sono documentati alcuni di quei movimenti che ancora oggi travalicano i circuiti tradizionali dell’arte, lo dobbiamo proprio a quei gruppi, in quei lontani anni ai margini della scena ufficiale, di cui fortunatamente non si è ancora del tutto persa la memoria.
La stessa Arte Povera – di cui l’Atlante documenta la nascita ad Amalfi nel 1966 e che incrociò il Teatro Povero di Grotowski – nasce nel clima della provocatoria tesi marcusiana del Gran Rifiuto, rifiuto della società repressiva che avrebbe permesso all’uomo di riscoprire una primaria armonia tra arte, vita e natura. Il filosofo tedesco si affrettò tuttavia a mettere in guardia gli artisti dalla possibilità che il potere alla fine “svuoti la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici”.
Negli anni successivi al ’68-69 si assiste a un ulteriore strappo nello scenario politico internazionale e in arte si fa strada il Postmoderno, di cui la Transavanguardia rappresentò uno dei momenti esemplari. Nell’accompagnare la svolta postmoderna un ruolo sempre più importante lo assume il Mercato, legittimando talvolta opere in cui non sempre al valore commerciale corrisponde un’adeguata qualità artistica e condizionando nelle loro scelte le stesse istituzioni. La stessa presenza di Beuys e Warhol a Napoli, alla galleria di Lucio Amelio, al di là della personalità di due artisti tra loro così diversi, si inserisce in un più generale processo di internazionalizzazione del sistema dell’arte, spesso dominato da modelli economico-finanziari non proprio trasparenti. Come sottolineò Vitaliano Corbi, il carattere selettivo e ideologico del mercato esercitò una chiara influenza sull’orientamento dei collezionisti, come in quello dei musei d’arte contemporanea, delle istituzioni e delle stesse gallerie d’arte. C’entra tutto questo con i ritardi (veri o presunti che siano) di cui parla Trione a proposito della recente storia dell’arte napoletana? Francamente penso di sì, e trascurarlo non aiuta a intercettare quelle esperienze lontane dai riflettori della Società della Spettacolo che resistono nell’ombra e si rifiutano di trasformare il proprio lavoro in una delle innumerevoli merci del mondo globalizzato. (antonio grieco)
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