Il Cie (Centro de internamento de extranjeros) di Barcellona si trova nella Zona Franca, un’ampia area industriale e logistica che si sviluppa in contiguità con il porto della città catalana. Uno dei modi per arrivarci è percorrere la Ronda litoral, la strada che segue la base della collina di Montjuïc, tenendo sulla sinistra le banchine delle navi da crociera, dei traghetti e delle navi portacontainer e sulla destra il cimitero più grande di Barcellona.
La Zona Franca è percorsa da strade dritte e ordinate che collegano magazzini, servizi di gestione dei rifiuti e altri impianti. Tra due di questi edifici si trova il Cie, circondato da alte mura e filo spinato, con una particolare struttura a piramide sopra l’ingresso principale. Da diversi anni ogni 31 dicembre si tiene un presidio davanti al Cie. Quest’anno, oltre agli anarchici, erano presenti gli esponenti della campagna Regularización ya e di Tanquem els CIEs (Chiudiamo i Cie), da anni attivi sul tema.
Quando arriviamo un gruppo di persone sta suonando delle percussioni, mentre davanti all’ingresso stazionano alcune pattuglie della polizia catalana, i Mossos d’Esquadra. Un’auto della Guardai Civil si ferma per pochi minuti e poi riparte. La zona viene sorvolata dagli aerei che arrivano o lasciano il vicino aeroporto di El Prat. Ogni tanto viene fatto scoppiare un petardo, mentre alcune persone prendono dei sassi e iniziano a battere contro i cancelli o le recinzioni dei magazzini. «Facciamo rumore per far sentire il nostro appoggio a chi è dentro» ci dice uno dei manifestanti. Dall’interno del Cie però non arrivano segnali.
I Cie sono definiti nel regolamento che dal 2014 ne determina il funzionamento come “centri pubblici di carattere non penitenziario dipendenti dal ministero dell’interno” e hanno il compito di effettuare “la custodia preventiva e cautelare degli stranieri per garantire la loro espulsione, restituzione o rientro per le cause e nei termini previsti dalla legislazione”. Possono essere internati in un Cie anche gli stranieri a cui il giudice abbia commutato una pena detentiva nell’espulsione dal paese. Il regolamento è stato approvato quando i Cie funzionavano già da diversi anni. Secondo Tanquem els CIEs l’esistenza del regolamento non garantisce il rispetto dei diritti delle persone trattenute. Vale la pena comunque riassumerne gli elementi principali e le rispettive criticità.
La gestione dei centri, così come la loro direzione, viene affidata dal ministero dell’interno alla Direzione generale della polizia nazionale. In un caso come quello catalano significa che i Mossos d’Esquadra non sono competenti per le aree interne della struttura.
Sono previsti spazi separati per uomini e donne (anche se quelli inseriti nella prima categoria sono di gran lunga maggioritari: 2.232 contro 44 secondo il rapporto relativo al 2022 del Servicio Jesuita a Migrantes), così come si garantiscono degli spazi a chi, pur non necessitando di un ricovero ospedaliero, soffra di una malattia fisica, mentale o di una tossicodipendenza. Quella che sembra un’attenzione significa però che si contempla che persone in queste condizioni entrino nei Cie. A chi è internato dovrebbe essere anche garantita la possibilità di comunicare con l’esterno tramite dei telefoni pubblici a pagamento, tranne per le prime due telefonate (all’avvocato e a una persona di fiducia residente nello stato spagnolo). Il regolamento non menziona i cellulari, ma parlando con un’attivista capiamo che a Barcellona si può anche avere un telefono senza fotocamera né accesso a internet il cui uso è comunque limitato. Il rapporto del SJM conferma la disparità di trattamento a seconda del centro in cui ci si trova, visto che ognuno si dota di regole approvate dal direttore.
Il regolamento statale garantisce anche l’assistenza medica pubblica, ma è permesso concludere accordi con altri enti pubblici o con strutture private per fare fronte a particolari necessità. Nel caso in cui durante la visita medica effettuata all’ingresso nel centro dovesse emergere un quadro che giustifichi un ricovero ospedaliero questo andrebbe richiesto al direttore. L’ingresso nei centri avviene solo in presenza della decisione di un giudice e il periodo di permanenza non può essere superiore a sessanta giorni. La liberazione avviene anche quando l’amministrazione si rende conto che è impossibile realizzare l’espulsione verso il paese di provenienza o per fondati motivi di salute. Le comunicazioni verso l’esterno e le visite dall’esterno dovrebbero essere libere, ma il regolamento usa delle formule che sembrano lasciare spazio a restrizioni in nome dell’organizzazione interna del centro o in caso di disposizione giudiziaria. Per l’ingresso delle organizzazioni non governative si richiede un accreditamento.
Si dovrebbe garantire la possibilità di avere accesso a comunicazioni con l’amministrazione in una lingua comprensibile per la persona trattenuta, ma la Cear (Comisión española de ayuda al refugiado) nel rapporto annuale del 2023 ha sostenuto che questo non è sempre il caso, anche quando le persone coinvolte sono risultate analfabete e quindi particolarmente vulnerabili di fronte alla pubblica amministrazione. Tanquem els CIEs fa notare che il diritto di inviare lamentele, riconosciuto dal regolamento, viene limitato dal fatto che queste verrebbero ricevute dallo stesso corpo di polizia autore degli eventuali abusi.
Rispetto alle persone trattenute si dà la possibilità al direttore del centro, se non si può ricorrere a misure meno invasive, di autorizzare misure di contenzione o di isolamento per evitare lesioni alle persone o danni alle cose. Appena possibile queste misure vanno comunicate al giudice competente che dovrebbe decidere se mantenerle o eliminarle. Proprio questo è, secondo Tanquem els CIEs, uno degli aspetti più problematici dei centri: vengono segnalate tredici morti nei Cie finora (di cui due dopo l’approvazione del regolamento del 2014) e diverse hanno a che fare proprio con l’isolamento o la contenzione. Tra questi casi, quello di Idrissa Diallo, un ventunenne della Guinea Conakry morto il 6 gennaio 2012 nel Cie di Barcellona, è stato decisivo per la nascita della campagna catalana che a sua volta fa parte di un più ampio movimento statale e ha spinto il governo centrale ad avviare la scrittura del regolamento approvato due anni dopo.
I Cie sono distribuiti in tutta la penisola e anche nelle zone insulari: due sono nelle Canarie (Tenerife e Las Palmas), uno dei punti di ingresso per le persone che via mare dall’Africa occidentale cercano di raggiungere l’Europa, e cinque sul continente (Madrid, Barcellona, Murcia, Valencia e Algeciras). Bisogna poi ricordare che lo stato spagnolo prevede l’esistenza anche dei Ceti (Centro de estancia temporal para inmigrantes) presenti a Ceuta e Melilla, cioè le due piccole enclave spagnole sul continente africano che molte persone cercano di raggiungere, anche con esiti tragici: il 24 giugno del 2022, per esempio, nel tentativo di entrare a Melilla, almeno trentasette persone sono morte. Le forze di polizia di Marocco e Spagna sono intervenute nella circostanza e molti, come la Cear, hanno evidenziato irregolarità nella loro condotta, compresi dei respingimenti effettuati sul momento.
La differenza principale tra i Cie e i Ceti è che i secondi non privano della libertà le persone. Si rimane in un Ceti in attesa di un trasferimento verso la penisola o dell’espulsione verso il paese di origine e non c’è un tempo massimo di permanenza. Oltre alle Ong, anche il Defensor del Pueblo, un’istituzione che solo per certi versi può somigliare al Garante delle persone private della libertà italiano, dopo una visita al Cie di Barcellona nell’aprile 2022 ha rilevato diverse mancanze tra cui quella di un adeguato servizio di assistenza psicologica.
Chi osserva i Cie si batte per la loro abolizione. Solo a causa della pandemia del 2020 si è riusciti a ottenere la chiusura di tutti i centri che però sono stati riaperti a ottobre dello stesso anno. Oltre a chi è appena arrivato nel territorio spagnolo nei Cie possono finire persone che vivono in Europa ormai da anni, ma che per qualche ragione si trovano in una posizione di irregolarità amministrativa, per esempio per non avere una dimora fissa o dei documenti d’identità. Secondo Regularización ya ci sarebbero circa cinquecentomila persone in condizione irregolare nello stato spagnolo, cosa che ha portato a una raccolta di firme per un’iniziativa legislativa popolare che mira, appunto, alla loro immediata regolarizzazione e che dovrebbe essere discussa dal Congresso in questi mesi.
Il fuoco d’artificio scoppia non lontano dalle strutture centrali del Cie. La manifestazione è ormai conclusa e ci si avvia in gruppo a riprendere l’autobus verso Barcellona. Ci vogliono circa venticinque minuti per arrivare in centro, eppure da qui la città sembra lontanissima. (alessandro stoppoloni)
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