Dicono che nei quartieri popolari della città, dove si smette di studiare al massimo dopo la terza media, ci siano le scuole cosiddette “a rischio”, quelle difficili, quelle piene di mascalzoni, quelle dei figli dei carcerati. Dicono che quelle scuole sono “di frontiera” perché gli insegnanti devono combattere con la maleducazione e con la violenza, perché le famiglie non sono presenti, perché i bambini sono ingestibili. In quelle scuole, dicono, bisogna insegnare ad aver rispetto per la cosa pubblica, a non rubare, a non essere violenti, a non delinquere.
Se solo avessero insegnato a non rubare anche nelle scuole dei ricchi, Catania sarebbe una città diversa, più giusta, più bella.
Nel più bel palazzo del viale Vittorio Veneto e poi sulle colline che dominano la città, per ottant’anni i fratelli delle scuole cristiane hanno educato centinaia di ricchi ragazzini e li hanno preparati a governare la città. Al Leonardo da Vinci si entrava in uniforme, si parlava un corretto italiano, ci si alzava sempre all’arrivo del maestro ma non meno danni hanno causato coloro che hanno studiato in quelle aule.
Quando qualche anno fa l’associazione degli ex allievi ha premiato gli studenti più illustri, si sono avvicendati sul palco in tanti. L’ex rettore dell’Università di Catania Francesco Basile, costretto alle dimissioni da una misura cautelare perché accusato di aver truccato concorsi pubblici attraverso un’associazione a delinquere. L’imprenditore Francesco Russo Morosoli, sotto processo per corruzione e turbativa d’asta. Mimmo Costanzo, a capo del colosso Gogip-Tecnis, colpito da inchieste giudiziarie. Mancavano Francesco e Vincenzo Santapaola, figli del boss mafioso Benedetto, anche loro allievi del prestigioso istituto. C’erano invece Mario Ciancio e suo figlio Domenico. Ciancio, considerato socialmente pericoloso dal tribunale di Catania, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. A lui e alla sua famiglia sono stati sequestrati centocinquanta milioni di euro tra società e conti correnti.
Se ci fosse da scegliere il più potente degli allievi del Leonardo Da Vinci, non vi sono dubbi che sarebbe lui. Imprenditore, editore, direttore di tv e giornali, manovratore dei più grandi affari della città. I processi nei suoi confronti che si stanno svolgendo in queste ore nelle aule del tribunale di Catania, a decenni di distanza dall’ipotetica commissione dei reati, sono rivolti a un’intera classe politica e imprenditoriale, all’insieme delle consorterie e dei comitati d’affari, al sistema affaristico che ha dominato Catania per mezzo secolo.
Nel dibattimento gli avvocati giocano con le arringhe: può essere considerato reato la ricchezza, l’influenza politica, il potere? Se la mafia è così tanto penetrata nel sistema economico della città può essere responsabilità dell’imputato? I sentito dire di un mafioso sulla potenza di un editore hanno forse rilevanza penale? Parole che sembrano trovare un senso solo perché pronunciate in un contesto avvilito e anestetizzato, nel quale la furbizia e la ferocia appaiono virtù e la giustizia ingenua utopia. Per questo è difficile il processo. Perché molti reati sono stati impunemente perpetuati sotto i nostri occhi per così tanto tempo da apparire normalità.
La novità è che questa volta ci sono giudici che hanno deciso di guardare la realtà con occhi diversi e allora tremano Ciancio e i suoi compagni di scuola. Questa volta si fa sul serio e nessun amico correrà a salvare il potente.
Durante la testimonianza al processo, la firma di punta del giornale La Sicilia, Tony Zermo, anche lui allievo del Leonardo Da Vinci, commentando la visita di un importante esponente di Cosa Nostra al giornale, ha detto che “la stanza di Ciancio era sempre aperta, a ministri e farabutti”. Sta tutta qui la questione a Catania: chi sono i veri farabutti. (matteo iannitti)
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