Lo scorso venerdì 19 gennaio l’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi) con un breve comunicato ha annunciato la “riorganizzazione dei consultori familiari giuliani”: dietro questa formula si cela la chiusura, a partire dal 24 gennaio, di due dei quattro consultori finora attivi nella città di Trieste. La tempistica smentisce quanto detto in un comunicato diffuso dall’azienda lo scorso 12 luglio in seguito a un incontro con il Comitato di gestione dei consultori in cui si prometteva che “eventuali cambiamenti verranno comunicati con largo anticipo alla cittadinanza”. Il trasloco ha avuto luogo subito dopo l’annuncio e mentre le operatrici contattavano le persone in carico per annullare gli appuntamenti già stabiliti, nonostante la reazione immediata delle persone che da quasi un anno si mobilitano per evitare questo epilogo.
Lo stesso 19 gennaio, mentre il direttore generale dell’Asugi Antonio Poggiana annunciava al Comitato di gestione la chiusura delle sedi dei rioni di San Giacomo e di San Giovanni, un gruppo di persone convocate dal nodo locale di Non una di meno, nonostante il nevischio che cadeva su Trieste, ha fatto sentire la propria presenza battendo pentole e altri oggetti intorno alla sede della direzione aziendale e ha poi deciso di entrare a chiedere spiegazioni alla dirigenza. Né Poggiana né gli altri dirigenti presenti sono stati però in grado di fornire motivazioni convincenti per la chiusura delle sedi. La decisione allontana ancora di più Trieste dall’obiettivo di avere un consultorio ogni ventimila abitanti, come previsto da ultimo dal decreto del ministero della sanità n.77 del 2022. La mobilitazione è poi continuata con un presidio di fronte al consultorio di San Giacomo proprio nell’ultimo giorno di funzionamento e con un’altra manifestazione il primo febbraio di fronte al palazzo del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. In questa occasione alcune attiviste hanno raggiunto l’ingresso dell’edificio, ma sono state bloccate dalle forze dell’ordine, mentre all’esterno arrivavano anche dei carabinieri in tenuta antisommossa per bloccare l’ingresso degli altri manifestanti.
La vicenda triestina non è un caso particolare. In questi mesi da altre parti d’Italia sono arrivate notizie molto simili sulla chiusura di altri consultori, strutture ad accesso diretto istituite nel 1975 che dovrebbero offrire servizi legati alla salute sessuale, di genere e riproduttiva. Una riguarda il consultorio di via delle Sette chiese, nella parte meridionale di Roma (quartiere Garbatella). Qui è stato un gruppo di utenti del consultorio che, di fronte a un cartello dell’Asl Roma 2 che annunciava di dover trasferire “temporaneamente” alcune attività nel consultorio del vicino quartiere di Tormarancia, si è attivato. Ne è nata una petizione e poi un collettivo che ha organizzato assemblee e presidi, incalzando l’azienda sanitaria. I responsabili della Asl avrebbero in un primo momento sostenuto che lo spostamento era dovuto a un problema fognario, per poi ammettere che in realtà è la mancanza di personale che impedisce di tenere in funzione entrambe le sedi.
Il consultorio non è stato chiuso, precisano le attiviste nel dossier che hanno preparato per spiegare la vicenda, ma il numero limitato di servizi offerti (tra i quali non ci sono più né ostetricia né ginecologia) impedisce di pensare alla sede come un consultorio funzionante. L’ottavo municipio di Roma, che comprende Garbatella, è abitato da centotrentamila persone e quindi dovrebbe avere almeno sei consultori sul suo territorio, fanno notare ancora le attiviste.
La chiusura dei presidi territoriali e il difficile rapporto con le aziende sanitarie non sono una novità. Raggiungiamo al telefono Ludovica che da anni segue la situazione a Bagnoli, nella zona occidentale di Napoli: «Nel 2019 – dice – è stata chiusa una Asl con un consultorio, lasciando scoperto un intero quartiere che di per sé ha già pochi servizi. Ora le persone devono andare nel quartiere di Fuorigrotta, ma è difficile spostarsi, soprattutto per le donne anziane».
La chiusura delle sedi dell’Asl avvenne pochi mesi prima dell’inizio della pandemia, ma si riuscì comunque a organizzare una mobilitazione che l’8 marzo 2022 portò a occupare in forma temporanea il consultorio con la partecipazione della gente del quartiere. «Non abbiamo avuto la possibilità di parlare con la Asl – continua Ludovica –, non c’è stato nessun dialogo. Ci siamo confrontate solo con la municipalità, che però non è competente sul tema, e con il distretto sanitario». Nel frattempo nella sede del consultorio sono iniziati dei lavori che poi sono stati bloccati per un intervento della Soprintendenza. «Abbiamo chiesto un controllo popolare sui lavori e sulla soluzione temporanea sostitutiva, ma entrambe le richieste sono state negate», ci dice ancora Ludovica.
La presenza di un consultorio non garantisce però sulla qualità delle prestazioni e sul tipo di accoglienza che si riceve quando ci si rivolge ai servizi. Intanto, nello scorso autunno è nato a Villa Medusa, sempre a Bagnoli, un ambulatorio popolare che offre visite gratuite e si propone di tornare a fare inchiesta sul territorio.
Il numero di consultori è indicativo, ma bisogna sempre valutare quali prestazioni un consultorio sia in grado di offrire. È il caso di Senigallia: un’attivista ci racconta che lì l’unica struttura di questo tipo non rischia per ora la chiusura, ma da due anni ha a disposizione solo una ginecologa, visto che non si è fatto fronte al pensionamento di un collega. Questo renderebbe impossibile prenotare visite al di fuori delle gravidanze e complica il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, soprattutto nei periodi in cui la ginecologa non è in servizio. Bisogna anche considerare che la giunta regionale guidata dal 2020 da Francesco Acquaroli (Fd’I) non ha certo facilitato il percorso per arrivare all’aborto farmacologico usando la pillola RU486.
Questi non sono che alcuni dei casi emersi. A distanza di oltre trent’anni dall’aziendalizzazione del servizio sanitario nazionale sembra chiaro che quel provvedimento ha comportato un profondo cambiamento di mentalità nella gestione del funzionamento della sanità pubblica in Italia. Le aziende sanitarie parlano una lingua che suona lontana dai bisogni delle persone e che appare invece molto vicina ai concetti propri della gestione delle imprese, arrivando al punto di disattendere le stesse indicazioni che arrivano dalla legislazione nazionale. La limitazione di servizi come i consultori risulta difficile da comprendere anche perché va a colpire chi ha difficoltà a permettersi delle prestazioni nel settore privato. Le aziende controbattono dicendo che gli accorpamenti permettono di tenere aperte le strutture più a lungo e di offrire migliori servizi, anche se la riduzione delle sedi sembra contraddire l’idea di offrire un buon servizio territoriale. (alessandro stoppoloni)
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