Il 9 giugno del 2011 un provvedimento della procura disponeva il sequestro e la chiusura del CIE di Caserta. Per quasi tre mesi centinaia di rifugiati erano rimasti reclusi nell’ex caserma Andolfato di S. Maria Capua Vetere in condizioni di degrado assoluto. Dopo le prime proteste dei migranti che chiedevano di poter uscire dal loro carcere de facto, una serie di misure erano state prese per impedirne la fuga: raddoppio della sorveglianza (negli ultimi giorni gli agenti di polizia furono centocinquanta per meno di cento migranti); eliminazione dei letti, utilizzati come scale per superare le mura della struttura; riduzione delle ore d’aria, con i migranti costretti a rimanere nelle tende per l’intera giornata nonostante le alte temperature. In quei mesi all’interno del CIE si registrarono cariche della polizia, lanci di lacrimogeni, incendi di tende conseguenti proprio ai lacrimogeni, maltrattamenti e abusi sui migranti. All’ordine del giorno furono i tentativi di suicidio, e fu data notizia di una denuncia contro uno dei due soli mediatori autorizzati a entrare nel centro, che avrebbe chiesto orologi e soldi in cambio di permessi di soggiorno.
Nell’estate 2011 il provvedimento di chiusura del centro fu caldeggiato da un movimento di protesta concentratosi attorno alla Rete antirazzista napoletana. Una parte di quel movimento si è ritrovato in piazza stamattina, per una giornata di protesta che ha visto iniziative anche in altre città, dopo gli eventi degli ultimi giorni che hanno portato la questione dei CIE alla ribalta del dibattito nazionale. Tutto è cominciato il 14 dicembre, quando un ventunenne eritreo è stato trovato impiccato nel Cara di Mineo (quattromila migranti in attesa di asilo), in provincia di Catania. Le conseguenti proteste sono state sedate solo dopo violenti scontri tra i migranti e le forze dell’ordine. Nel frattempo, diciassette reclusi nel CIE di Ponte Galeria (il più grande del paese), in provincia di Roma, hanno deciso di protestare contro le condizioni inumane di detenzione cucendosi le labbra. Altri hanno passato le notti all’aperto e iniziato uno sciopero della fame. A Bari venti ragazzi, quasi tutti tunisini, hanno protestato allagando una delle sale del centro.
A Napoli il presidio dei militanti della Rete antirazzista è fissato per le dieci in piazza San Domenico. La città è in atmosfera natalizia, e il centro storico si divide tra chi ricomincia di malavoglia a lavorare e chi ciondola tra luci e regali da (s)cambiare. In piazza ci sono una quarantina di persone, che diventeranno sessanta quando il gruppo raggiungerà, intorno alle undici, la sede della Croce Rossa in via San Tommaso d’Aquino. Alla Croce Rossa, che partecipa alla gestione di molti dei CIE del paese, e per la quale è in atto un processo di privatizzazione che non potrà che incrementare il coinvolgimento dell’ente nei centri, i manifestanti chiedono una presa di posizione netta contro i CIE, e l’uscita dell’ente dalla gestione degli stessi.
Qualche minuto dopo l’occupazione della stanza al sesto piano, la responsabile della sede napoletana arriva, in tuta e cartella superaccessoriati, allertata dai tre ragazzi che chiacchieravano giovialmente in sua attesa. Fatta eccezione per qualche alzata di voce il clima è tranquillo, anzi i volontari (che sottolineano ossessivamente la propria missione di lavoratori non retribuiti) sembrano essere d’accordo con i manifestanti, in particolare quando si parla dei due punti chiave: lo status ingiustificato di detenzione dei migranti, in assenza di qualsiasi reato, e le condizioni in cui viene perpetrata quest’ultima. La comprensione per le ragioni dei manifestanti, tuttavia, non impedisce alla più alta in grado dei quattro di chiamare la polizia per denunciare l’occupazione, mentre alcuni migranti appendono ai balconi uno striscione che chiede la chiusura immediata delle strutture. Di scrivere un comunicato che condanni l’esistenza dei centri, o di attivarsi perché la Croce Rossa interrompa la partecipazione allo scempio, la signora non vuole saperne: «Per questo esistono le denunce e i rapporti, non le manifestazioni… tanto più che a Napoli non possiamo decidere niente! Perché non andate a Roma a protestare?».
Dopo un po’ di discussioni, la situazione rimane di stallo per circa un’ora, nonostante l’arrivo dei due agenti di polizia che prendono atto dell’occupazione e vanno via. Quando anche il dibattito con i volontari della Croce Rossa si scontra con il muro dell’incomunicabilità, il gruppo abbandona la sala, esponendo un secondo striscione ai piedi dell’edificio e procedendo con un volantinaggio. Da Roma, intanto, arriva notizia di una protesta alla sede del Partito Democratico, e soprattutto della fine dello “sciopero delle bocche cucite” per gli ultimi marocchini rimasti (la maggior parte avevano deciso di fermarsi a Natale, in segno di rispetto per il prete venuto per le celebrazioni religiose). Continuano invece lo sciopero della fame e il trasporto di materassi e suppellettili nel cortile del centro.
Leggendo i giornali e dando un’occhiata ai siti internet, l’impressione è che, come accade per molte questioni politicamente cruciali per il paese, a dettare l’agenda sia più l’attenzione mediatica sull’argomento che l’importanza delle questioni stesse. Dopo anni di silenzi e ambiguità sull’esistenza e la gestione dei CIE oggi, finalmente, il problema della loro illegittimità sembra essere percepito nel paese. Molto hanno fatto nelle ultime settimane le immagini delle proteste dei detenuti dei centri, che complice il melenso ma mai come questa volta utile buonismo natalizio, hanno avuto un effetto forte sull’opinione pubblica. Parlare di eliminazione dei CIE, istituzioni che da quindici anni sospendono con il pretesto di un intervento emergenziale i diritti civili e umani, è oggi possibile. È chiaro, tuttavia, che un provvedimento di questo genere non può prescindere da un intervento organico in materia immigrazione, che preveda il superamento delle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, delle politiche dei respingimenti, che non vincoli l’ingresso nel paese al possesso di un posto di lavoro, che garantisca il diritto di asilo a chi arriva in Italia, e la cittadinanza ai figli di migranti che in Italia ci sono nati e cresciuti. In caso contrario, si tratterebbe di una vittoria di comodo, che sposterebbe davvero di poco il piatto della bilancia della questione.
Una gestione dei flussi migratori da paese civile, potrà essere messa in atto se l’opinione pubblica, i movimenti, persino quel che rimane degli sbrindellati partiti politici saranno capaci di spingere nella stessa direzione. Forse l’immagine scioccante (in senso anglosassone) delle bocche cucite nel giorno di Natale, potrà essere il punto di partenza, un’occasione da cogliere perché questa battaglia non rimanga confinata nel solito ghetto di militanza, ma diventi una battaglia del paese, al di là dell’indignazione da cenone della vigilia. Potrebbe essere, forse, l’unico modo per non lasciare definitivamente solo, con la propria pena e la propria condanna, chi arriva nel nostro paese alla ricerca di un futuro. (riccardo rosa)
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