Risultano piuttosto imbarazzanti le immagini di quella che è stata definita la Woodstock meridionalista, ovvero l’esodo a Pontida, roccaforte della Lega Nord, di circa quattromila tra napoletani, calabresi, pugliesi, siciliani, saliti al nord in risposta alla discesa a Napoli, qualche settimana fa, di Matteo Salvini.
L’idea di una giornata di “orgoglio sudista” nasce dalle polemiche che precedettero e seguirono il comizio del segretario della Lega, finite poi su tutti i quotidiani e i telegiornali nazionali, tra dichiarazioni di de Magistris, il tira e molla con la Mostra d’Oltremare (che sull’onda delle contestazioni aveva cercato di annullare l’evento), gli scontri in piazza con le forze dell’ordine.
Nella sua ideazione, esecuzione e promozione, la festa è sembrata una Pasquetta-bis fondata su parole d’ordine trasversali e genericamente buone per tutti, dall’“antirazzismo” alla “solidarietà”, oltre che sugli elementi chiave di un immaginario costruito attraverso l’utilizzo promozionale del termine “terrone” e della forza aggregativa di tamorre, vino rosso, nduja e casatielli, in un mix letale che sembra venire direttamente dalle ripetitive gag di Casa Surace o dai monologhi che non fanno ridere di Geppi Cucciari.
A volerla prendere un po’ più seriamente, emergono due dati, comunque già riscontrabili da tempo. Il primo è la possibilità di compattare gli animi e i voti attraverso l’individuazione di un “nemico numero uno”, che può cambiare di volta in volta, a seconda delle esigenze politiche del momento: è stato Renzi, quando la questione calda era il commissariamento di Bagnoli; poi Salvini, ma domani potrebbe essere tanto Beppe Grillo quanto Massimo Boldi. Si tratta di una tattica sfruttata al meglio dal sindaco di Napoli (il coordinamento DeMa era tra gli organizzatori dell’evento, insieme al centro sociale Insurgencia e ai consiglieri comunali che fanno parte di entrambe le organizzazioni) e che in questi anni ha reso molto, sia in termini elettorali che di immagine nazionale, coprendo efficacemente le contraddizioni locali.
Il secondo è il consolidarsi di un’idea di meridionalismo estremamente povera di contenuti, che è piuttosto una macchina identitaria a buon mercato con motore già acceso, a disposizione di chiunque voglia utilizzarla, e che non a caso accomuna i gruppi e le personalità più diverse: dai magistrati ai centri sociali, dai neoborbonici ai comunisti, dal sindaco agli scrittori da bestseller, in uno spettro che va dal dannunziano Erri De Luca al giallista Maurizio De Giovanni, tutti pronti a cavalcare un mood fondato su un confuso orgoglio culturalista e un vittimismo che scarica su entità “altre” tutte le insufficienze e le incapacità. Una retorica elementare che propaganda città ribelli e accoglienti, a cui fanno da contraltare le indignazioni per i cartelli “Non si affitta ai napoletani” o per una qualsiasi sparata razzista della Lega o del governo di unità nazionale del dopo Berlusconi. Identità così semplicistiche da mortificare la profondità di analisi che richiederebbe oggi la questione meridionale, senza nemmeno andare a scomodare Fortunato, Gramsci o Cafiero.
Una miscellanea indigesta, che da un lato fa schiumare rabbia agli editorialisti dei grandi giornali, irritati più dal lessico pararivoluzionario che dalle evidenti contraddizioni interne, ma che dall’altro si tiene egualmente alla larga dalle questioni che dovrebbero occupare un movimento alternativo – dalle nuove rotte del pendolarismo interno alle frontiere del lavoro, dalle guerre tra gli ultimi alle minacce al patrimonio collettivo – tenendo pensiero e azione incollati alla realtà, piuttosto che al servizio delle scalate personali e delle schermaglie tra poteri. (riccardo rosa)
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