DENTRO UNA SCATOLA DI LATTA
Marco Galli
Stigma, 160 pagine, 18 euro
“…Ha a che fare con il controllo delle masse attraverso la paura… Secondo lui funziona così, creano terrore con la malattia e poi tirano fuori la soluzione con il tanto agognato vaccino. Così la gente non pensa al resto, all’economia, alla soppressione dei diritti, a tutto quello che ci stanno facendo diventare…”. A parlare è Reni, aiutante del commissario Marte. I due stanno facendo colazione in un bar che ricorda quello del quadro Nighthawks di Edward Hopper. Si ritrovano sempre lì la mattina, prima di andare in ufficio. A servirli c’è Rocco, un cameriere body-builder che segue con grande attenzione la cronaca nera (e che ha un rapporto sadomaso con…), specialmente le notizie che riguardano un killer che si sta lasciando dietro una scia di omicidi. L’ultimo è avvenuto qualche giorno prima: un uomo è stato trovato con la gola recisa e una mano mozzata, in mezzo alla neve. Vicino al suo cadavere ce ne sono altri tre, una famiglia, uccisi non dal killer ma da un virus che circola da mesi e che obbliga i cittadini a portare, negli esterni, una tuta protettiva munita di casco per evitare il contagio.
Dentro una scatola di latta è un fumetto di Marco Galli, scritto e disegnato nel 2012 e pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Stigma. Senza dubbio colpisce, in questo periodo, leggere opere che parlano di epidemie da virus e vedere personaggi coperti, mascherati come lo siamo stati tutti noi (e ancora lo saremo forse) per lunghi mesi, anzi, ormai, anni. Colpisce anche leggere riflessioni (dei personaggi e non dell’autore) sulla possibilità che l’epidemia sia uno strumento, se non provocato appositamente, sicuramente utilizzato per ridurre le nostre libertà e per tenerci a bada, mentre il mondo crolla. Pur suonando come paranoie e cospirazioni, oggi queste riflessioni ci sembrano più vicine, se non altro perché in quest’ultimo periodo, anche se fugacemente, hanno abitato la mente di tante persone.
Ora immaginatevi che in una piccola cittadina di provincia italiana, in pieno inverno (perenne?), in piena epidemia (più grave del Covid, questa uccide le persone all’istante), un serial killer inizi a uccidere. Immaginatevi tutto lo squallore e la desolazione che può avere la vita di provincia con il suo lotto di manie, invidie, pettegolezzi, depressioni, follie e quant’altro e avrete un’idea del mondo in cui è ambientato il libro di Galli. Ma non c’è solo cruda realtà. Questo è anche un mondo fantastico dove avvengono cose fuori dall’ordinario. Il figlio diciassettenne del commissario Marte, per esempio, vive in una dimensione tutta sua. Porta un vestito da supereroe, ha un rapporto patologico con la madre e gira per la casa con una piccola pistola giocattolo che chiama “paladino dello spazio”.
Il mondo immaginario del ragazzino è talmente potente che riesce a volte a “sfondare” il reale. Il commissario Marte ha grossi problemi di comunicazione con il figlio, per il quale ha poca stima e considerazione. Solo quando riconoscerà l’esistenza del mondo immaginario del figlio, attraverso una specie di rituale di “psicomagia”, riuscirà a entrare in contatto con lui. E alla fine sarà proprio il mondo fantastico del figlio diciassettenne a salvarlo. Ma questa è solo una delle tante storie che troviamo nel libro di Galli, un libro a momenti claustrofobico, proprio come suggerisce il titolo.
Dentro una scatola di latta lascia “addosso” una patina di grigio acido, una tristezza invernale, delle occhiaie pesanti e una spina di paranoia nel fianco. Scritto nel 2012 ma più attuale che mai. Consigliato a chi ama i “noir” e non ha paura degli spazi stretti. (miguel angel valdivia)
Miguel Angel Valdivia: Come è stato per te pubblicare oggi una storia pensata e disegnata quasi dieci anni fa? A parte la tematica della pandemia presente nel libro, è un lavoro che senti ancora oggi vicino?
Marco Galli: È stato strano. Una storia molto lontana, non solo temporalmente. Sono passati dieci anni, ma è per me proprio un’altra vita, una vita pre-malattia che sembra l’eco di una persona molto diversa e distante da me. Con questo non voglio dire che lo rinnego o non mi piaccia più questo libro, ma sicuramente oggi non credo lo farei e se lo facessi la storia e i disegni sarebbero cosa molto diversa. La parte più divertente sta nel fatto che per questo libro “distante” ho vinto il premio a Lucca come miglior autore. È anche vero che i libri non dovrebbero avere una scadenza e questo premio credo sia, più che altro, un omaggio a tutto il mio percorso nel fumetto fino a oggi.
MAV: Questo libro ha la struttura classica di un “poliziesco”, almeno all’inizio. Una serie di omicidi e due poliziotti che indagano. Poi succede altro e il libro entra in una dimensione diversa. Io ho letto per tanti anni solo polizieschi e thriller. Oggi non ne leggo quasi più, ma è un genere che mi ha “segnato”. Tu che libri leggi e che genere di film o telefilm guardi? E come questo nutre il tuo lavoro, se lo fa?
MG: Il thriller e il poliziesco mi piacciono nel cinema o nelle serie, ma non ne ho mai letti tanti, a parte un paio di Chandler, qualche Conan Doyle e Christie, che però sono gialli. Ho letto tutti i thriller del grande Dürrenmat, ma quelli sono particolari e a me piace l’utilizzo del genere in quel senso, quando sborda, esce dai margini precostituiti e diventa qualcosa d’altro. Ultimamente leggo più saggistica, soprattutto filosofia occidentale, il mio pensiero per restare vivo ha bisogno di scricchiolare e di mettere in discussione tutto, persino se stesso.
Il mio lavoro lo nutro con tutto, davvero con ogni cosa: dall’amico al bar al passante in una stazione, al film o al documentario, alla musica, all’arte. Quello che non mi nutre per nulla è il “mainstream”, credo siamo arrivati a un livello imbarazzante di pochezza in quel campo, in tutte le sue espressioni: tutto così uguale, banale, ripetitivo e fintamente attento alle questioni sociali. Certo, tutto tecnicamente ineccepibile, ma privo di immaginario e guizzo artistico.
MAV: Mi parli un po’ del tuo rapporto con il fumetto e con il “mondo del fumetto” qui in Italia?
MG: So che suona molto snob, ma non leggo più fumetti, al massimo li guardo. Ne ho letti in passato, ma non credo che continuare a leggere fumetti per un fumettista porti sempre a migliorare, anzi, sono convinto del contrario. Il concetto di “mondo del fumetto” mi fa molto ridere, sembra quella roba dei bambini quando giocano a fare le cose degli adulti e creano un mondo loro, simile a quello reale, ma con regole un po’ farlocche… io la chiamerei “scena fumettistica” o forse non la chiamerei in nessun modo, che di recinti, bolle e circolini ce n’è abbastanza. Ci sono molte persone che stimo e di cui sono amico, ma questo mi succede solo con quelli e quelle che sanno andare oltre questo recinto. Comunque, in generale, umanamente, è un ambiente migliore di molti altri ambienti creativi, forse perché non girano molti soldi.
MAV: E partendo dall’ultima domanda, quali sono, secondo te, i limiti del fumetto oggi (in Italia e altrove)? E quali potrebbero essere invece le strade da esplorare per il futuro?
MG: Qui rischiamo di farci male, la gente se la prende per nulla. Detto questo, credo che il fumetto in Italia sia ancora troppo autoreferenziale, per la maggior parte dei casi “in mano” ai nerd, per me questo è uno dei grandi problemi del settore; poi è un ambiente parecchio piagnucoloso, soprattutto negli ultimi anni, ma questa mi sa che è una prerogativa decisamente italica.
Tralasciamo le questioni legate ad anticipi, visibilità nelle librerie, ecc., bisognerebbe aprire un capitolo a sé. La cosa più interessante che è successa ultimamente riguarda le molte donne che sono diventate autrici o disegnatrici e riescono a essere pubblicate con più facilità. Il fumetto è un posto decisamente molto maschile e c’è ancora parecchio da fare in questo senso, però speravo che le “giovani donne” portassero un po’ più di differenza nei temi e nelle storie, che invece, a mio parere, sembrano spesso sovrapponibili e trattano, quasi solo, storie intimiste/sociali e autobiografiche, anche se mi pare uno stilema delle nuove generazioni, e in generale mi annoia parecchio.
Sicuramente le donne fumettiste dell’ultima generazione hanno puntato molto su temi importanti e contingenti, che però, a guardar bene, le poche donne “storiche” del fumetto italiano avevano già affrontato, forse con più respiro e fantasia. Di strade per il futuro non saprei che dirti, intanto vediamo se ce lo avremo un futuro… in generale.
MAV: Tu fai parte dei cinquantadue disegnatori che hanno donato un autoritratto agli Uffizi nella veste di fumettista. È una cosa importante, questa “apertura” del mondo dell’arte al fumetto. E potremmo dire che il fumetto ha il vento in poppa, oggi, in Italia. Come vivi questo momento?
MG: Esporre in permanenza nel museo più importante al mondo per i ritratti è una cosa fantastica, che comunque, come sempre, mi fa molto sorridere, forse è il mio essere bresciano: dalle mie parti si minimizza tutto, si sta sempre attaccati alla terra, l’enfasi sembra maleducazione e i sentimenti si tengono a bada come fanno i vulcaniani. Il fumetto sta decisamente prendendo uno spazio un po’ più ampio, ma non griderei alla vittoria, spesso sono “singolarità” che spiccano più per moda o ambienti vicini per ideologia… Ma non voglio lamentarmi, penso che se il fumetto viene (speriamo “veniva”) considerato arte minore la colpa è soprattutto di chi ci lavora.
MAV: Qualche fumetto che consideri imperdibile e necessario?
MG: Necessario mi sembra troppo, imperdibile pure… Ce ne sono che mi sono piaciuti parecchio e mi hanno insegnato molto, ma dovrei farti una lista e ho la memoria intermittente ormai: lascerei perdere! Di certo i libri che mi hanno cambiato la visione della vita sono tutti libri di parola scritta, ma c’è un motivo preciso che riguarda il funzionamento del mio cervello e non è un fattore di merito di una cosa sull’altra.
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