Dal n.10 (maggio 2023) de Lo stato delle città
Arriviamo all’aeroporto di Ben Gurion poco dopo mezzogiorno. Ci siamo preparati abbondantemente a questo momento. Prima di partire, abbiamo ripetuto collettivamente cosa dire alle guardie di frontiera.
«È la prima volta in Israele?».
«Sì».
«Dove andate?».
«A Gaza».
La guardia non muove neanche un muscolo della faccia, nonostante sia chiaro che questa risposta abbia destato la sua attenzione.
«Cosa fate a Gaza?».
«Un progetto di volontariato».
«Di che tipo?».
«Faremo uno spettacolo teatrale».
«Quanto rimarrete?».
«Due settimane».
«E poi?».
«Torniamo in Italia».
Per la maggior parte di noi il colloquio si è fermato alla prima domanda. Due di noi hanno dovuto sostenere questo micro interrogatorio, ma alla fine siamo stati tutti autorizzati a passare senza essere costretti a un’indagine più approfondita. È andata bene! Prima e dopo di noi abbiamo visto decine di persone essere invitate ad accomodarsi in una stanzetta a lato del controllo passaporti, dove sarebbero continuati gli interrogatori.
Arriviamo a Gerusalemme. Giriamo tranquilli per i viali occidentaleggianti della parte ovest della città, ci passano accanto lunghi tram pieni di gente. Il conflitto non si vede, ci sono molte gru, edifici in costruzione, palazzi e grattacieli. Una corsa verso la modernità che si perde nei vicoli dietro i viali, pieni di lavori, con le strade a tratti ancora sterrate, dove le case sono basse, di pietra, alcune malmesse, attraversate da cavi che si raccordano in tralicci in mezzo alle vie. «Tutte queste case sono state sottratte ai palestinesi», ci dice Meri, la fondatrice del centro Vik, il centro di scambio culturale italo-palestinese che ci ha permesso di essere qui. Insieme ai suoi collaboratori a Gaza, Meri ha organizzato il nostro ingresso e facilitato la realizzazione del progetto di teatro che abbiamo in programma con un gruppo di giovani studenti universitari gazawi. Negli ultimi mesi, gli studenti hanno lavorato alla scrittura di All that’s to me, uno spettacolo basato sull’Odissea, dove il tema del ritorno dell’opera di Omero si sovrappone al diritto al ritorno nelle loro terre. Domani entreremo a Gaza e una parte del nostro gruppo lavorerà allo spettacolo. Un altro gruppo, più ristretto, ha in programma di incontrare i giovani gazawi, per provare a capire come sta cambiando il rapporto con la politica e la resistenza palestinese nelle nuove generazioni.
Trascorriamo la serata a Gerusalemme. A ovest c’è un clima di pacificazione che sa di rimozione, non si vedono neanche militari in giro per le strade. Ci sono invece ortodossi, locali e turisti in visita, e israeliani non bianchi. Dalle fugaci conversazioni che abbiamo con un paio di persone capiamo che quella israeliana è tutt’altro che una società monolitica, attraversata da vene di conflitti religiosi, sociali e razziali che lo spettro della “guerra” tiene a bada. La linea del colore si vede bene arrivando a Damascus Gate, una delle due porte d’ingresso alla Medina e a Gerusalemme est per i palestinesi. Davanti all’ingresso della città vecchia, tre gabbiotti di militari israeliani, tutti giovanissimi, molte di loro donne, molte di loro nere. Dentro, tra le vie strette, telecamere a ogni angolo di strada, blocchi dei militari israeliani e check-point per entrare nei luoghi di culto ebraici e, soprattutto, musulmani, prima tra tutte la spianata delle moschee. «Si sono impossessati anche di questo luogo simbolo dei palestinesi, turisti da tutto il mondo girano qui inconsapevoli che questo stesso pezzo di terra su cui stanno camminando è occupato. Questa è la violenza di Israele, invertire l’ordine del discorso, normalizzare, così se i palestinesi si ribellano la colpa non può che essere loro», ci fa notare Meri.
La mattina dopo arriviamo a Erez, la frontiera che separa la Striscia di Gaza da Israele. O meglio, dal resto del mondo. Si vede il primo muro, il filo spinato e un altro muro. Entriamo, ci fanno passare i bagagli su un nastro e sotto un metal detector, una delle guardie di frontiera ci domanda aggressivamente: «Dove pensate di andare? Ma ce li avete i permessi?».
Il tempo si blocca. I permessi ci sono, ma la violenza della burocrazia è fatta di attesa, di tempi rubati. E così, mentre aspettiamo che ci rilascino i documenti di cui abbiamo bisogno, osserviamo questa inquietante infrastruttura. Sembra un gate aeroportuale, ma anche l’ingresso in una prigione di massima sicurezza: telecamere, tornelli, soldati. A molti dei palestinesi che si presentano per rientrare a Gaza viene fatta un’identificazione biometrica facciale, tecnologia in schiacciante contrasto con il contesto di fuori fatto di muri diroccati, terra arida e vecchie macchine.
Superati i controlli, entriamo a Gaza. Sopra di noi, un drone statico, una sorta di panottico volante. Ci sono le torrette sul muro a distanza di un centinaio di metri l’una dall’altra e sotto di loro i raccoglitori di fragole, «capita che spesso gli sparino, per loro raccogliere è veramente difficile», ci spiega Meri. E poi ci siamo noi, che camminiamo lungo un corridoio aperto ma recintato per due chilometri fino a raggiungere i controlli dell’autorità nazionale e poi di Hamas. Il confine è incarnato in questi due chilometri fatti di muri, fucili, militari, droni, ma anche economie resistenti e inventate, come i servizi di bus che collegano le due parti del confine.
L’UNICA LEGGE DI GAZA
Gaza è un mondo. Un mondo con quasi tre milioni di persone confinate in poco più di trecentocinquanta chilometri quadrati. Ci accolgono Karam, Mohammed e Yousef, i nostri punti di riferimento nelle prossime settimane. Dormiremo tutti a casa della famiglia di Karam, giovane studente universitario che ha messo in piedi il gruppo di ragazzi e ragazze che hanno lavorato allo spettacolo. Mohammed e Yousef sono invece due storici militanti politici, entrambi parlano italiano perché hanno passato molto tempo in Italia, per lavorare e per ragioni politiche. Conoscono a fondo la storia e la società di Gaza, Mohammed ci porterà in giro per le strade del campo profughi di Jabalia, alle porte di Gaza City, dove è nato e cresciuto. Jabalia è (forse l’ultima) roccaforte di Hamas, partito al governo da quindici anni ma in totale crisi di consensi. Anche per questo, Hamas è stato molto restrittivo circa la nostra presenza nella Striscia: dobbiamo chiedere l’autorizzazione per qualsiasi spostamento, e Yousef avrà questo scomodo compito di interfacciarsi con il governo per ottenere il beneplacito ai nostri movimenti. «Dicono che è una questione di sicurezza, può essere – ci dice Yousef –; di sicuro non vogliono che possiate ficcare troppo il naso nel dissenso verso il partito».
Il primo giro per Gaza lo facciamo sulla macchina di Nader, il fratello di Karam, avvocato per le Nazioni unite e consulente legale del centro Vik. Vediamo i viali del centro pieni di bancarelle di vestiti e cibarie, centri commerciali e alti edifici finché non arriviamo alla spiaggia, occupata per tutta la lunghezza da lidi e bar. È tramontato il sole, e intorno a noi è letteralmente calato il buio. L’elettricità a Gaza va a cicli di otto ore; quando non c’è, le case e le attività commerciali provviste si alimentano con i pannelli solari che si vedono spuntare sui tetti di molti edifici, altrimenti si rimane senza luce. Lungo la strada, spuntano buchi tra i palazzi, vuoti di bombardamenti passati, palazzi in costruzione: la città non si ferma.
Al bar dove abbiamo appuntamento i ragazzi e le ragazze stanno già provando lo spettacolo. Sono una dozzina, alcune di loro senza velo, il clima è decisamente più rilassato di quello che si respira nelle strade. «È un bar amico», ci dice Nader. Un gruppo di noi rimane a parlare dello spettacolo, l’altro raggiunge Mohammed e Meri a un tavolo dove iniziamo a parlare del progetto di intervistare i giovani gazawi. Mohammed ci risponde dandoci un primo quadro di quella che, secondo lui, è la situazione attuale: «Il sogno è andato lontano. Sono nati tanti progetti che non sono palestinesi, per cui il ritorno è difficile da immaginare. Però, la verità dice che la terra c’è, la gente c’è, e ancora noi lottiamo per tornare. Aspettiamo una nuova intifada. Aspettiamo i giovani. I giovani che sono nati dopo l’intifada hanno il sentimento di una Palestina libera dentro di loro. Mio figlio ha sette anni, voglio portarlo nei terreni delle arance, voglio portarlo a Gerusalemme, la nostra città. Lui dice: papà da grande voglio essere partigiano. Lui vuole una terra più grande di quella in cui viviamo, la nostra terra. Chi è andato fuori Palestina, i loro figli tornano e vogliono vedere la Palestina, perché l’idea rimane, non muore. Certo, la politica è una merda. Prima è arrivato Oslo, ci ha deluso, e poi la gente voleva tornare indietro; poi è arrivato Hamas, e ora la gente non vuole più Hamas. Non c’è scelta, Hamas ha aiutato il progetto israeliano di isolare Gaza. Secondo me tra poco cambia tutto, rimane solo la pietra, l’acqua porterà via tutto il resto. La pietra sono i giovani».
Mohammed traccia una strada. Toccherà a noi esplorarla nei prossimi giorni. Tornando verso casa con Nader, tra un check-point e l’altro, parliamo di molte cose. Nader lavora spesso fuori da Gaza e ha un’idea molto precisa dei problemi all’interno della Striscia, che vanno anche oltre la violenza israeliana. Appena prima di arrivare, ci guarda seriamente e dice: «Ricordatevi, l’unica legge che esiste a Gaza è la legge di gravità».
I GIOVANI, LA POLITICA, IL RITORNO
Jabalia è il più popoloso dei nove campi profughi della Striscia di Gaza, ci vivono più di centocinquantamila persone. Campo profughi è una parola dalle infinite declinazioni pratiche. E Jabalia assomiglia a tutto tranne all’immaginario occidentale di ciò che è un campo profughi. Non c’è nessuna tenda a Jabalia, ci sono case e palazzi, alcune delle strade sono asfaltate. Si chiama campo profughi perché è uno dei luoghi dove i palestinesi si sono rifugiati a seguito della Nakba del 1948. Un vecchio del quartiere ci racconta che in principio erano tende dell’Unrwa e che nel corso degli anni hanno cominciato a costruire case. Alcuni, come lui, sono diventati proprietari, si sono comprati il terreno.
Jabalia si perde poi nelle campagne, ci sono giardini di limoni, aranceti, pomeli, asini, pecore e cavalli che camminano liberi per strade di terra oppure portano carretti pieni di frutta e verdura. Gruppi di bambini giocano fuori dalle porte delle case. Mohammed ci guida per le strade del quartiere dove è nato e cresciuto e ci porta a incontrare la sua gente. Parliamo con molti giovani per strada, anche se le conversazioni faticano a sviscerare i veri problemi, ci sono difficoltà di traduzione e paura a dire quello che si pensa davvero. Alcuni dicono di volersene andare. Altri però dicono che i dieci palestinesi di Gaza che sono morti annegati qualche settimana fa mentre cercavano di arrivare in Italia in barca hanno sbagliato, che non si devono prendere certi rischi. In molti parlano di andare in Egitto, si lamentano che a Gaza non c’è lavoro, che non ci sono più possibilità, che nei partiti non credono, anche se in tanti urlano Hamas e Fatah quando ci avviciniamo ai gruppi di ragazzi. Tutti, però, dicono di voler lottare per tornare nelle loro terre, di essere disposti a morire. Un coro polifonico, un insieme di voci da cui è ancora difficile riuscire a capire cosa pensino i ragazzi dei campi.
Più ci rendiamo conto che la voce mancante nella società gazawa è quella dei giovani e delle donne, più realizziamo che gli studenti che stanno preparando lo spettacolo teatrale hanno sicuramente tanto da raccontarci. Così, tra una prova e l’altra, intervistiamo anche loro.
Gli studenti vogliono viaggiare, studiare all’estero, non sopportano di non avere spazio nella vita politica di Gaza; le ragazze raccontano delle violenze quotidiane che sono costrette a subire, in casa e nelle strade, dalla società conservatrice imposta da Hamas. Tutti sono molto critici verso il partito, ma quasi nessuno lo nomina direttamente, il partito fa paura. Internet, però, negli ultimi anni ha permesso loro nuove possibilità di esprimersi, di sfuggire alla stringente società gazawa. Sono ragazzi della buona borghesia, hanno sogni ambiziosi e vogliono andare fuori dalla Striscia, anche perché, nonostante il privilegio economico, solo alcuni di loro sono riusciti a espatriare e i pochi fortunati non sono andati oltre l’Egitto. Tutti sono nati durante o dopo la costruzione del muro che ha separato Gaza dal resto del mondo, ufficialmente completato nel 2006. Con i ragazzi dei campi profughi hanno pochissimi contatti, uno di loro dice che gli dispiace per la loro situazione, un’altra dice che invece non c’è niente di male a vivere nei campi. Le prospettive sono diverse, ampie, ma quando chiediamo se l’obiettivo è tornare alle loro terre, tutti sorridono e dicono: «Certo, vogliamo una sola terra, palestinese, senza israeliani». Sul come liberarsi dagli israeliani ci sono prospettive diverse, ma praticamente tutti concordano sulla legittimità di usare armi e violenza, anche se quasi nessuno di loro lo farebbe in prima persona.
Più i giorni passano, più diventa evidente che il filo che unisce Jabalia e Gaza City è la spaccatura sempre più netta tra la classe dirigente e i giovani, siano disoccupati, studenti o lavoratori, più o meno politicizzati, di buona famiglia o nullatenenti. «Con Hamas non posso più andare avanti», ci dice un ragazzo seduto su un cumulo di sabbia a Jabalia. E anche il nipote di Mohammed, iscritto a Fatah, ribadisce: «Sono iscritto per la storia del partito e della Palestina. Ma se penso all’oggi, non credo in questo partito, non c’è spazio per noi, per i giovani». Si guarda al futuro con un certo sconforto, lo dicono a Jabalia, ma ce lo confida anche Nader: «La lotta per la liberazione della Palestina non può avvenire senza una liberazione della società di Gaza. Le due cose, semplicemente, non si possono separare. E, al momento, non c’è spazio perché nessuna di queste avvenga. Dal mio punto di vista, finirà che nei territori della Cisgiordania israeliani e palestinesi vivranno in qualche modo insieme, forse come adesso, forse più pacificamente; ma Gaza rimarrà fuori da tutto ciò, rimarrà uno stato a sé, chiuso da un muro, dal mare e dal deserto del Sinai».
Da questa prospettiva, anche le marce del ritorno del 2018 vengono messe profondamente in discussione: «Ho fatto la marcia del ritorno l’anno scorso. Ma non lo voglio più fare per Hamas», ci dice il ragazzo seduto sul cumulo di sabbia a Jabalia. In tanti ci sono stati, soprattutto tra i ragazzi di Jabalia, ma anche qualche studente del gruppo di teatro. Ma presto le marce, dicono tutti, sono diventate un gioco in mano ai partiti che facevano i loro interessi sulla pelle della popolazione. «E allora, che senso ha andare a farsi ammazzare e mutilare al confine se non c’è una prospettiva di liberazione?»: emerge questa domanda, in forme diverse, sia a Jabalia che a Gaza City.
Nessuno si sacrificherebbe per una rivolta popolare guidata dai partiti, la fiducia è ai minimi storici. Ma quasi tutti lo farebbero in nome della Palestina. E, allora, il terzo elemento sul piatto è la violenza di una politica che si articola con le bombe. «Sapete cosa vuol dire lo spettro di un’escalation da un momento all’altro?», ci dice Walid, un ragazzo che fa parte di We are Not Numbers, un gruppo di giovani scrittori e artisti che utilizzano internet per raccontare storie attraverso che vadano oltre la sterilità dei numeri: di bombe, di morti, di amputati e via enumerando.
I ragazzi e le ragazze di We are Not Numbers ci spiegano che tutti i progetti di vita sono resi precari da questa perenne prospettiva: la bomba. Esplode di solito nei campi profughi, nelle zone di addestramento. Per rispettare le normative internazionali sui diritti umani in guerra (una contraddizione in sé), Israele lancia prima dei razzi di avvertimento, un messaggio che comunica che tra pochi minuti la tua casa verrà abbattuta, poi la rade al suolo.
Impariamo tante nuove parole in questi giorni, parole di guerra. La più normalizzata è “escalation”. Non è una guerra, viene prima; potrebbe portare a una guerra, ma la maggior parte delle volte si ferma all’abbattimento di qualche sito militare o strategico. Normalmente parte da una provocazione israeliana, che nei giorni in cui siamo qui è la marcia sulla spianata delle moschee del nuovo ministro per la sicurezza nazionale del governo Netanyahu, Ben Gvir, appartenente a un partito di estrema destra del governo più a destra della storia di Israele. Una provocazione che ha a che fare con motivi di politica interna israeliana, ma, come tutto ciò che riguarda la politica interna israeliana, in ultimo luogo è un passo verso il totale annientamento del popolo palestinese.
A questa marcia, Hamas risponde annunciando che è stata superata una linea rossa. Ci aspettiamo il peggio.
Siamo nel giardino di Abu Nabil, il cugino di Mohamed. Un giardino meraviglioso, con alberi di limoni, arance, di pomeli, su una tavola lo shisha, il tè e il caffè. Sopra di noi, incessante ormai dal mattino, il rumore trapanante di due droni che sorvolano Gaza e la Striscia. Parliamo solo di quello che le parole di Hamas possono significare. «Spareranno un razzo – dicono alcuni, e aggiungono –. Il clima generale fa pensare che nei prossimi due o tre mesi scoppierà una nuova guerra». C’è l’instabilità politica in Israele, la debolezza di Hamas, l’inasprimento del conflitto in West Bank, con nuove forze di resistenza, tra cui la Fossa dei Leoni, che danno speranza anche a Gaza. Per altri, molti, invece non succederà nulla, almeno nel breve termine. Da tutto il mondo arabo arriva la condanna per la marcia israeliana. Non abbiamo gli strumenti per capire quanto questa sia una situazione anormale. Intanto, il drone continua a ronzare sulle nostre teste, ogni persona con cui parliamo ci fa notare il suono. Walid lo dice chiaramente: «Non potrei immaginare la vita senza il drone».
Rimaniamo per qualche ora bloccati nel giardino del cugino di Mohammed: quando la situazione non è chiara, è meglio stare lontani dalle case, ci dicono. Poi si sparge la notizia che da Gaza hanno sparato un razzo verso Israele. Ci dobbiamo aspettare dunque una risposta, ma intanto sui giornali non c’è conferma dell’informazione che abbiamo avuto. Torniamo a casa, discutiamo dei possibili scenari. Ci addormentiamo. La mattina seguente una sola notizia riporta il lancio del razzo da parte della Jihad islamica (e non di Hamas) nel nord della Striscia. Non è riuscito neanche a superare il muro, è caduto nei campi di fragole qualche chilometro più avanti. Israele non risponderà, per ora. Tutto torna alla normalità, il rumore del drone si dirada per qualche ora, ma nel pomeriggio riparte assordante.
COSA RIMANE?
È venerdì, le strade sono deserte. Arriviamo al teatro, il più importante teatro di Gaza. Per uno spettacolo fatto da attori non professionisti, molti alla prima esperienza, e preparato in dieci giorni. Una follia, possibile solo nel mondo sottosopra della solidarietà internazionale a Gaza. Dall’uscita della locandina lo spettacolo è diventato virale, si aspettano centinaia di persone, televisioni locali e media internazionali del mondo arabo.
La poesia sta nell’imperfezione, e a pensarci bene anche la resistenza è sempre imperfetta. Ma nella sua imperfezione si reinventa ogni giorno, e lì sta la sua forza, una poesia del quotidiano.
I due giorni di prove in teatro sono stati esattamente questo. La tensione che è emersa nelle interviste con i giovani e le giovani della Striscia ha trovato uno sbocco nell’Odissea messa in scena dai ragazzi gazawi. Telemaco non sente sua Itaca, parte alla ricerca di se stesso, e non tanto alla ricerca del padre. Tanti giovani palestinesi vorrebbero andarsene, non per sempre, ma per vedere altro, per capire il mondo oltre quel muro sempre presente nelle loro vite. E poi vorrebbero tornare per liberare la Palestina e liberarsi dell’occupazione israeliana. Nell’ultima scena, dopo che Telemaco ha ucciso due soldati con fasce bianco e blu israeliane – e il pubblico ha esultato entusiasta –, e sta per trafiggere Antinoo, il capo dei proci, Penelope chiede al pubblico: «Voi cosa fareste?».
Che fare con gli israeliani e la loro occupazione? Con la società di Gaza conservatrice e gerontocratica? Come mantenere questo sentimento di attaccamento alla propria terra e di resistenza concreto? Riflettiamo su queste domande nel sedile posteriore di una macchina che sfreccia verso sud. Arriviamo al check-point di Rafah, confine con l’Egitto: passano i camion merci, è un periodo di buona diplomazia tra i due governi, ci dice Yousef. Da qui passano anche le merci israeliane, ci spiega, perché da Erez la merce non può essere trasportata. Le persone però non possono passare con la stessa facilità. Yousef l’ultima volta ha dovuto aspettare più di quattro mesi prima di riuscire ad attraversare il confine. Tre volte a settimana per quattro mesi è andato da casa sua a Rafah sperando fosse il giorno giusto per passare. Eppure, per tutti i palestinesi, e soprattutto per chi fa politica, questo è l’unico confine realmente attraversabile. O meglio, in cui è possibile pensare di passare.
A pochi chilometri di distanza c’è quello che un tempo era l’aeroporto di Gaza, ora ridotto a un cumulo di macerie, i muri con i segni dei proiettili. Oggi è un campo di addestramento militare. Macerie, militari e confini, questo è quello che ci rimane negli occhi dell’ultimo giorno a Gaza. L’ultima persona che incontriamo è una storica militante per la liberazione della Palestina, una donna che ha combattuto a lungo in prima linea e oggi dirige una delle principali organizzazioni per i diritti delle donne nella Striscia. Mentre fuma una sigaretta, dice forse una delle cose più condivisibili che abbiamo ascoltato: «Per noi il problema non è la religione, ci sono ebrei palestinesi, cristiani palestinesi. Prima dell’occupazione vivevamo insieme. Sono loro che usano la religione per giustificare l’occupazione. Il problema è l’occupazione. Noi scontiamo che le organizzazioni internazionali sono con l’imperialismo e il sionismo, non con il popolo palestinese. Il sionismo e l’imperialismo non sono pericolosi solo per i palestinesi, ma per tutto il mondo. Dobbiamo opporci su scala globale». (progetto rec)
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